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Legittimo il licenziamento del dipendente che offende l’azienda su Facebook

Maggesi
Ph. Luca Martini / Maggesi

È legittimo il licenziamento del dipendente che ha insultato più volte i propri responsabili su Facebook. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 27939 del 13 ottobre 2021, respingendo il ricorso di un account manager di Tim.

Confermata dunque la decisione della Corte di Appello di Roma che, nel novembre 2018, ribadendo il contenuto gravemente offensivo e sprezzante (nei confronti dei superiori e degli stessi vertici aziendali) delle dichiarazioni, espresse a mezzo di tre e-mails e di un messaggio pubblicato, nell’ottobre del 2016, su Facebook, respingeva il ricorso presentato dal lavoratore avverso il suo licenziamento "per giusta causa".

A detta della Corte, infatti, tali dichiarazioni integrerebbero insubordinazione grave e, in ogni caso, giusta causa di licenziamento in ragione del loro carattere plurioffensivo e dell’idoneità delle stesse a precludere “la proseguibilità del rapporto, per l’elisione del legame di fiducia tra le parti, anche considerato il ruolo aziendale del predetto addetto”.

Contro la decisione del giudice di secondo grado il lavoratore presentava ricorso, deducendo l’illegittimità dell’acquisizione da parte della società datrice dei posts presenti sulla sua pagina Facebook in quanto destinati ad una comunicazione riservata (esclusiva con i propri amici) e, dunque, incompatibile con la denigrazione o la diffamazione.

La Suprema Corte ha però, al riguardo, specificato come "premessa l'esigenza di tutela della libertà e segretezza dei messaggi scambiati in una chat privata, in quanto diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, pertanto da considerare come la corrispondenza provata, chiusa ed inviolabile […] nella fattispecie non sussiste una tale esigenza di protezione (e della conseguente illegittimità dell’utilizzazione in funzione probatoria) di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro diffuso su Facebook".  

Per tali ragioni, il mezzo utilizzato, ossia la pubblicazione del messaggio “incriminato” sul profilo Facebook del lavoratore, può essere considerato "idoneo a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone" rendendo dunque valido il licenziamento in parola.

Per quel che concerne, invece, il concetto di “grave insubordinazione” (posta anch’essa a base del contestato licenziamento) la Corte ha specificato che "la nozione di insubordinazione deve essere intesa in senso ampio; sicché, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, essa non può essere limitata al rifiuto del lavoratore di adempiere alle disposizioni dei superiori (e dunque ancorata. Attraverso una lettura letterale, alla violazione dell’art. 2104, secondo comma, c.c.), ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicarne l'esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro dell'organizzazione aziendale”.

Di conseguenza, prosegue la Corte, "la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall'obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana riconosciute dall'art. 2 Cost., può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all'organizzazione aziendale, dal momento che l'efficienza di quest'ultima riposa sull'autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi ed essa risente un indubbio pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli".