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Licenziamento - Cassazione Lavoro: illegittimo utilizzare strumenti aziendali per fini personali

Licenziamento - Cassazione Lavoro: illegittimo utilizzare strumenti aziendali per fini personali
Licenziamento - Cassazione Lavoro: illegittimo utilizzare strumenti aziendali per fini personali

L’utilizzo di strumenti aziendali che causa un qualsiasi danno all’azienda è motivo di licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Inoltre, non si può opporre alla sanzione una particolare condizione psicologica in cui versa il dipendente, in quanto costituisce comunque impiego illecito di strumenti imprenditoriali per finalità personali.

Con questa sentenza, la Corte di Cassazione ha rivisto il proprio orientamento precedentemente espresso nella sentenza 23107 del 2008. In quest’ultima era stato infatti stabilito che per l’abuso di dispositivi di proprietà dell’impresa, nello specifico l’invio di 13.000 messaggi dal cellulare aziendale, il licenziamento non poteva considerarsi una sanzione proporzionata.

 

La vicenda

L’episodio ha visto scontrarsi Telecom Italia S.P.A. e il suo dipendente, licenziato il 9 settembre 2001 dalla società. Quest’ultima infatti, dopo aver rilevato un anomalo ed eccessivo traffico telefonico posto in essere dal dipendente, aveva predisposto la risoluzione del contratto di lavoro.

In particolare, la condotta ritenuta in violazione dei doveri del dipendente consisteva nell’aver operato una lunghissima sequenza di telefonate verso numeri non autorizzati, per conversazioni personali non consentite e non inerenti all’impiego del dipendente, utilizzando la linea telefonica della società, causando in questo modo una spesa di oltre 8.000,00 Euro a carico di quest’ultima. In aggiunta, tale comportamento era posto in essere anche al di fuori dell’orario di lavoro.

Z. era quindi colpevole di aver causato un danno all’azienda non solo sotto il profilo patrimoniale, ma anche sotto l’aspetto dell’inadempimento del contratto di assunzione stesso, avendo sottratto tempo all’attività lavorativa.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano ribadito la liceità del licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

La violazione del contratto di lavoro

Il ricorrente ha inizialmente contestato alla Corte d’Appello di non aver rispettato la precedente giurisprudenza della Corte di Cassazione, pertanto non sarebbe stato legittimo procedere con il licenziamento. La Corte di Cassazione, invece, ha stabilito che la Corte d’Appello non era tenuta a seguire i suddetti precedenti.

Questa decisione è stata motivata dal fatto che l’analogia tra i due episodi (quello di cui alla citata sentenza del 2008 e quello che interessa il giudizio oggetto della presente nota) emerge solo sul piano del mezzo utilizzato, nello specifico il telefono aziendale, ma non sul piano del danno arrecato alla società. Infatti, la condotta del dipendente è certamente configurabile come dannosa e pregiudizievole per l’azienda, e pertanto soggetta alle sanzioni disciplinari applicabili secondo la gravità dell’infrazione, come sancito nell’articolo 2106 del codice civile.

Secondo la Cassazione, la risoluzione del rapporto di lavoro rappresenta l’adeguata, e pienamente legittima, conseguenza degli atti posti in essere dal lavoratore.

Profilo psicologico del dipendente

In secondo luogo, il dipendente ha lamentato una inadeguata valutazione delle prove sotto due aspetti, in particolare egli ritiene che non siano state prese in esame perizie mediche che accertavano il suo stato patologico di depressione al momento delle vicende.

La Corte risponde che tali circostanze erano già state esaminate dalla Corte d’Appello “con motivazione congrua e logicamente coerente”, pertanto non era necessario procedere alla riesamina delle prove.

La Corte d’Appello, in particolare, aveva rilevato che: “anche se si ammettesse che lo Z. all’epoca fosse affetto da depressione, nulla gli avrebbe impedito di ricorrere alle cure del caso”, giudicando impossibile giustificare i danni causati nei confronti dell’azienda.

Il dipendente lamentava altresì il mancato accertamento di presunti comportamenti vessatori e di mobbing posti in essere dal datore di lavoro. Secondo la Cassazione, in ogni caso, tali atteggiamenti non erano idonei a legittimare i danni arrecati dal dipendente alla società. Infatti, la Corte stabilisce che “al lavoratore certamente non poteva sfuggire il carattere illecito della condotta e certamente non può nemmeno ipotizzarsi una sorta di diritto di ritorsione per comportamenti pretesamente mobbizzanti”.

(Cassazione Civile - Sezione Lavoro, Sentenza 12 febbraio 2018, n. 3315)