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Maltrattamenti in famiglia e lo spartiacque dell’abitualità della condotta

Sydney
Ph. Antonio Capodieci / Sydney

Nell’ambito di una convivenza difficile, conflittuale, in cui vengono a mancare i doveri di solidarietà tra coniugi, ma non risultano reiterazione di condotte in grado di realizzare una pregnante offesa della integrità psicofisica della vittima, tali da farla precipitare in una condizione duratura di sofferenza e prostrazione non è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia.

La motivazione in sintesi di una recente sentenza del Tribunale di Roma Sezione Gip emessa in data 5 febbraio 2021, che dichiara il non doversi procedere in ordine al reato di maltrattamenti in famiglia perché il fatto non sussiste.

Nel procedimento era stata applicata inizialmente una misura cautelare.

 

Tribunale di Roma, Sezione Gip, Ufficio 33, sentenza n. 279/2021 del 5 febbraio 2021, depositata il 1° marzo 2021, imputato I.A., rif. articolo 572 codice penale.

 

La massima

In tema di maltrattamenti in famiglia e abitualità della condotta, il Giudice di merito sottolinea che l’estemporaneità dei fatti e la loro distanza temporale e l’ambito conflittuale e di reciprocità in cui sono avvenuti denotano l’assenza di attitudine realmente maltrattante e vessatoria e tale da arrecare sofferenze fisiche e morali alle persone offese.

 

La vicenda giudiziaria

Nel caso in esame, la Procura della Repubblica di Roma ha richiesto ordinanza applicativa della misura cautelare del divieto di avvicinamento alle persone offese e contestuale allontanamento dalla casa familiare, per il reato previsto e punito dall’articolo 572 codice penale commesso in Roma dal 2015 al luglio 2020 con carattere di permanenza.

La misura richiesta è stata accolta dal Gip che ha emesso ordinanza applicativa di misura cautelare ex articoli 282 bis e ter, 292 codice procedura penale in data 10 luglio 2020.

L’ordinanza ha valorizzato il racconto, in audizione protetta, della minore C.A. e le sommarie informazioni rese dalle psicologhe dello sportello di ascolto dall’IDO che indicavano il ripetersi di “continui maltrattamenti subiti da lei, dal fratello minore e dalla madre, nel contesto di violente liti sorte per motivi economici ma soprattutto di gelosia tra i genitori, ina una escalation preoccupante che si è conclusa nell’aggressione fisica in suo danno a inizio marzo 2020, quando l’odierno indagato la trascinava in ascensore, prendendola a calci”.

Il Gip ha ritenuto che le sommarie informazioni della madre, che avevano contestualizzato i fatti e ridimensionato il racconto della minore erano in realtà la “dimostrazione della totale soggezione psicologica della donna nei confronti dell’indagato e l’assenza di tutela dei minori”.

Ha inoltre affermato che nella condotta posta in essere dell’indagato “sono presenti, quanto meno a livello di gravi indizi di colpevolezza di cui all’articolo 273 codice procedura penale., i requisiti indicati per la configurabilità del delitto di cui all’articolo 572 codice penale … le singole condotte devono essere realizzate in momenti successivi e in un arco di tempo apprezzabile e devono altresì essere collegate da un nesso di abitualità, ossia devono essere avvinte da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica e morale del soggetto passivo (Cass. Pen. Sez. VI 31.05.2012 n. 34480; Cass. Pen., sez. VI, 18.02.2010, n. 20494)”.

Applicata la misura in tempo di Covid-19, per l’indagato è risultato particolarmente penoso e gravoso allontanarsi dall’abitazione e stanti le sue precarie condizioni di vita e la contestuale momentanea perdita del lavoro (ambulante) per dormire è stato ospitato dalla Caritas.

Il 18 settembre 2020 in sede di incidente probatorio, ammesso dal Gip, sono state ascoltate la madre e la minore e per la prima volta la difesa ha potuto verificarne la versione e l’attendibilità.

Il 22 settembre 2020 il Gip, su richiesta della difesa, ha revocato la misura per “insufficienza del quadro indiziario con riferimento al delitto di cui al 572 codice penale”.

Ciò nonostante, la Procura ha richiesto il rinvio a giudizio e lo stesso ha fatto in esito all’udienza preliminare, mentre la difesa ha invocato una sentenza di non doversi procedere per insussistenza del fatto.

Prima di analizzare il ragionamento del Giudice, che ha emesso sentenza di non doversi procedere per insussistenza del reato di cui all’articolo 572 codice penale, ci soffermiamo su alcuni aspetti della vicenda e il suo inquadramento normativo.

 

Cornice normativa

La legge n. 69 del 19 Luglio 2019, anche nota come Codice Rosso, è nata per fornire una "corsia preferenziale" alle vittime, in particolar modo donne e minori, delle più disparate condotte criminali riconducibili ai maltrattamenti e alle violenze di genere.

La necessità è sorta dalla diffusa esigenza di offrire, in tempi brevi, da parte dello Stato e nello specifico della Magistratura e delle Forze dell'Ordine, una risposta concreta ad una tematica assai delicata al fine di scongiurare un eventuale aggravarsi delle condizioni della parte offesa rese possibili dal prolungarsi degli eventi.

Al riguardo il legislatore è intervenuto con una complessa e sostanziale modifica della normativa penale, sia procedurale sia di merito.

Le novità introdotte sono state pensate per creare un maggior sistema tutelare della persona offesa, nonché per imporre una reazione immediata alla notitia criminis al fine di impedire, in maniera coatta, il protrarsi e l’aggravarsi della situazione delittuosa. Nello specifico la modifica di maggior impatto riguarda l’articolo 362 codice procedura penale che prevede l’obbligo da parte delle Autorità incaricate, di assumere le informazioni entro e non oltre tre giorni dall’iscrizione della notizia del reato, impostando così una modalità di emergenza a priori nei confronti di tale tipologia di crimini. Viene inoltre aggiunta la condizione, imposta dall’articolo 370 codice procedura penale, per cui l’ascolto venga eseguito direttamente dal Pubblico Ministero coadiuvato dalla presenza di uno specialista della comunicazione quale è lo psicologo. L’alternativa prevista dal medesimo articolo, qualora questa evenienza non sia possibile, prevede l’ascolto da parte della polizia giudiziaria entro e non oltre il tempo limite di cui sopra.

La fase delle indagini iniziali è scandita dalla celerità che spesso non permette un vaglio sulla attendibilità delle notizie criminis come nel caso di specie.

Il racconto della minore andava da subito contestualizzato e non raccolto supinamente senza una minima riflessione critica che avrebbe permesso immediatamente di rilevare delle palesi incongruenze.

 

I principi di diritto espressi nella pronuncia

Nell'ambito dei processi in materia di maltrattamenti e di violenza di genere in ambito familiare la prova primaria è quella dichiarativa.

Nella fase iniziale del procedimento le dichiarazioni delle persone offese sono un Moloch insormontabile e segnano il destino cautelare dell’indagato.

Nel caso di specie, lo svolgimento dell’incidente probatorio ha permesso di appurare che il racconto della minore in realtà riferiva di “pochissimi episodi non ben contestualizzati nei quali l’imputato, nell’ambito di liti con la D., avrebbe minacciato e percosso la madre. Gli episodi narrati sono in realtà, due singoli accadimenti avvenuti a distanza di 5/6 anni e sono scaturiti nel corso di liti familiari”.

La deposizione della minore andava confrontata analiticamente con quella della madre che “in parte smentiva il racconto della minore, rendendo una versione dei fatti certamente più coerente e maggiormente attendibile. Nello specifico, dalla narrazione della p.o. emerge certamente un quadro familiare complesso caratterizzato da accese liti tra genitori, in periodi circoscritti e spesso motivate dalle problematiche economiche, ma non tali da integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia.

Non appare innanzitutto integrata alcuna componente dell’elemento oggettivo del reato in esame. Dagli atti di indagine emerge che A. non abbia realizzato condotte vessatorie caratterizzate da abitualità nei confronti dei familiari”.

Le liti sono consistite in scambi di parolacce, ingiurie e occasionali percosse ma con il carattere della reciprocità senza alcuna minaccia alla persona. In concreto nell’arco di venti anni di convivenza erano accaduti due episodi circoscritti e distanti tra loro di almeno 5/6 anni.

Prosegue il giudice: “Piuttosto, le frasi che reciprocamente i due si scambiavano erano probabilmente mosse dalla foga della lite, ma non erano caratterizzate da attitudine realmente maltrattante e vessatoria e tale da arrecare sofferenze fisiche e morali alle persone offese. Manca inoltre qualsivoglia elemento idoneo a sostenere l’accusa in giudizio con riferimento al carattere di abitualità delle condotte poste in essere dall’imputato”.

 

Considerazioni finali

In merito al requisito dell’abitualità nel reato ricordiamo che l’articolo 572 codice penale integra un’ipotesi di reato necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di comportamenti che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo. Tali comportamenti possono consistere in percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche in atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali.

In ogni caso si deve trattare di comportamenti idonei ad imporre alla persona offesa un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile.

Nel caso in esame non emerge una convivenza contraddistinta da un sistema abituale di vessazioni e di umiliazioni instaurato dall’imputato nei confronti della moglie e dei figli minori: il giudice ha fatto riferimento ad un clima di tensione che sarebbe stato determinato da problematiche economiche che avrebbe fatto scaturire delle liti con offese e percosse reciproche.

In altri termini, conformemente alla giurisprudenza di legittimità (Cass. Pen., Sez. VI, 12065/2015): “Un singolo episodio di violenza non configura il reato di maltrattamenti in famiglia. Le condotte integrano un'ipotesi di reato necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di comportamenti che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo. Tali comportamenti possono consistere in percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche in atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali. In ogni caso, si deve trattare di comportamenti idonei ad imporre alla persona offesa un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile.

Nella nozione di maltrattamenti rientrano fatti lesivi dell’integrità anche solo morale del soggetto passivo, che possono consistere in parole che offendono la dignità della persona, purché tale condotta abbia i caratteri della sopraffazione sistematica e programmata tale da rendere la convivenza particolarmente dolorosa, con conseguente intollerabile degenerazione del rapporto familiare. Le singole condotte possono quindi costituire un comportamento abituale nella misura in cui rendono evidente l’esistenza di un programma criminoso animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo.

In conclusione, ciò che difetta nel caso in esame è proprio l’abitualità delle condotte in direzione di una precisa volontà di determinare una situazione di vita intollerabile oltre alla circostanza della loro sporadicità.