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Mario Sironi “tragico e classico”

Disegno di Mario Sironi
Disegno di Mario Sironi
Mario Sironi

Il “Bianco e Nero” è talmente congeniale a Sironi che, nel senso letterale del termine, lo ritroviamo spesso a influenzare direttamente la sua tavolozza pur già parca di colori.

Sironi non è certamente un lirico, se pure accenti lirici non manchino nella sua opera, ma un severo costruttore che affronta il foglio (e anche la tela) con lo spirito di un architetto, sì che ogni suo disegno sembra lo schizzo promemoria per un progetto di ben più vasto impegno del quale occorra fermare subito l’idea, tante idee, fra le quali operare in seguito una scelta rigorosa.

Mario Sironi non è interessato a concludere di volta in volta il suo discorso nel disegno e se pure ogni suo foglio racchiude una vitalità aggressiva e una autonomia completa di valori, capaci di farlo stimare, ammirare e desiderare come cosa compiuta, si avverte in questi segni, in queste campiture tormentate da graffi, che sembrano colpi di subbio su pietra, come una sorta di frettoloso passaggio, inteso e rivolto verso la quiete raggiunta da Sironi solo nelle grandi composizioni, e come un tormentoso, febbrile travaglio in questi disegni: si tratti di una figura di impostazione classica o di una periferia di città industriale; di un autoritratto scabro e scavato come un teschio o di un paesaggio aperto su roccioni imponenti.

Diceva il divino Michelangelo che il suo compito di scultore consisteva nel liberare dal marmo le figure in esso imprigionate; Sironi avrebbe potuto dire che il suo compito era quello di far scaturire la luce dall’ombra fitta per rivelare squarci di realtà in essa avvolta e nascosta. E, infatti, lavorava sovente su carta appositamente annerita, raschiando per riscoprire il bianco e costruire così il disegno con colpi di chiaro, con luci via via emergenti che ritroveremo anche su disegni eseguiti normalmente.

I fogli di Sironi sono spesso riempiti con più e diversi soggetti, ma questo solo per indifferenza o comodità; più disegni sul medesimo foglio non fanno qui pagina unica (come per esempio in certe lastre di Luigi Bartolini, vedi Martin pescatore, ecc.), poiché in Sironi ogni disegno è chiuso, costretto nel suo schema compositivo e in ciò concluso anche quando si tratta di un semplice schizzo. Siamo in presenza soltanto di una idea che non ha motivo di legare con quella accanto, prove sì di un discorso unico ma che si svolgerà altrove con interezza e chiarezza logica.

Uno dei suoi disegni, Il Santo, potrebbe indurci a riconoscere in Sironi moduli giotteschi almeno nell’ambito della composizione. Ma l’accostamento sarebbe superficiale e erroneo. Sironi resta lontano dallo spirito dei nostri primitivi come da quello dei bizantini e, se pur trae da essi una lezione, il suo pensiero va più indietro nel tempo. Certo suo simbolismo allegorico e celebrativo è al mondo romano che va riallacciato richiamando in particolare scene di sarcofaghi e mosaici di quella civiltà.

Sironi sogna il mondo classico e pagano, si inebria della luce mediterranea, e da ciò il distacco che lo separa da Rouault, intriso invece di penombre, profilate in nero, da vetrata gotica. Sironi è latino e tutto il dramma del suo lavoro è da ricercarsi tra la solatia compostezza classica (e il sogno di essa come un ritorno a mitiche origini), e l’incombente tragicità esistenziale che sembra fatalmente prevalere sul nostro sciaguratissimo tempo.

 

                                                                                                      Roma, 18 novembre 1973