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231 - Cassazione Penale: onere probatorio difensivo differente in relazione alla qualità del soggetto agente

OdV - Organismo di Vigilanza
OdV - Organismo di Vigilanza

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha specificato i diversi profili della colpa di organizzazione, fondante la responsabilità degli enti, in relazione alla qualità del soggetto agente e al conseguente diverso onere probatorio gravante sulla difesa in caso di mancata adozione di un modello organizzativo idoneo ai sensi della normativa 231.

 

Il caso in esame

La decisione della Cassazione trae origine dal ricorso proposto da una società, ritenuta responsabile dell’illecito amministrativo di cui all’articolo 25, comma 2, del Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231, correlato alle contestazioni mosse nei confronti di un suo dipendente, condannato nel medesimo procedimento penale per il reato di istigazione alla corruzione di cui all’articolo 322, comma 2, Codice Penale.

Con l’atto di gravame la società deduceva la violazione della legge processuale e la nullità di cui agli articoli 521 e 522 Codice Penale della decisione impugnata per difetto di correlazione tra la contestazione dell’illecito amministrativo posto a carico della società e la successiva sentenza di condanna, fondata non più sulla posizione apicale del dipendente e, dunque, sul modello delineato dagli artt. 5, comma 1, lett. a), e 6 Decreto Legislativo 231 del 2001, bensì sull’attribuzione al suddetto della qualità di soggetto sottoposto all’altrui direzione e vigilanza e, dunque, sul modello delineato dagli articolo 5, comma 1, lett. b), e 7, comma 1, Decreto Legislativo 231 del 2001. In tale ipotesi non avrebbe potuto parlarsi di derubricazione, essendo ravvisabile una responsabilità di natura ontologicamente diversa.

 

La decisione della Suprema Corte

Al fine di dare soluzione alla questione giuridica prospettata dalla difesa, la Cassazione ha inteso ribadire le caratteristiche principali della responsabilità amministrativa degli enti che, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, trae origine da un fatto proprio degli stessi e si fonda sulla c.d. colpa di organizzazione, la quale può assumere profili diversi in considerazione della qualità del soggetto autore del reato-presupposto:

1. nel caso di reati-presupposto commessi da soggetti apicali, la colpa di organizzazione “trova espressione nell’art. 6, alla cui stregua l’ente, altrimenti responsabile, può opporre la prova della preventiva adozione e attuazione di idonei modelli organizzativi, volti a prevenire reati della specie di quello verificatosi, dell’affidamento del compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza dei modelli a organismo dell’ente dotato di autonomi poteri, della fraudolenta elusione dei modelli, della non ravvisabilità di un’omessa o insufficiente vigilanza";

2. nel caso di reati-presupposto commessi da soggetti non apicali, “la colpa, avente comunque il significato di rinviare ad un sistema complessivo di regole, è espressa dall’art. 7, in forza del quale l’ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza, inosservanza che è comunque da escludere in caso di preventiva adozione e attuazione di idonei modelli organizzativi”.

Se il reato è commesso da soggetto apicale, dunque, la mancata adozione è di per sé sufficiente a ritenere integrata la responsabilità dell’ente in quanto viene a mancare in radice un sistema che sia in grado di costituire un oggettivo parametro di riferimento anche per chi è nella condizione di esprimere direttamente la volontà dell’ente. Se l’autore del reato-presupposto è un soggetto sottoposto all’altrui direzione e controllo e non è stato adottato un modello organizzativo, “la colpa di organizzazione risulta comunque sottesa ad un deficit di direzione o vigilanza”.

Pertanto, nel caso di mancata adozione di modelli di organizzazione, gestione e controllo, “i presupposti della responsabilità dell’ente, a seconda che si tratti o meno di soggetto apicale, differiscono solo alla condizione che sia concretamente attestato un assetto, ispirato da regole cautelari, destinato comunque ad assicurare quell’azione preventiva, in tal caso essendo necessario provare che il fatto sia stato propiziato dall’inosservanza nel caso concreto della necessaria azione di direzione o vigilanza”. La mancata previsione di detto sistema di controllo non può tradursi in una condizione di privilegio sotto il profilo probatorio, ma implica che gli obblighi di direzione e vigilanza siano rimasti inosservati, essendo da ciò derivata la commissione del reato da parte del soggetto non apicale.

In ragione delle considerazioni sopra esposte, i giudici di legittimità hanno ritenuto le censure difensive prive di fondamento.

La Corte ha, infatti, richiamato il principio secondo cui “l’immutazione del fatto di rilievo ai fini della eventuale applicabilità della norma dell’art. 521 c.p.p. è solo quella che modifica radicalmente la struttura della contestazione, in quanto sostituisce il fatto tipico, il nesso di causalità e l’elemento psicologico del reato, e, per conseguenza di essa, l’azione realizzata risulta completamente diversa da quella contestata, al punto da essere incompatibile con le difese apprestate dall’imputato per discolparsene. D’altro canto, il principio di correlazione tra contestazione e sentenza è funzionale alla salvaguardia del diritto di difesa dell’imputato; ne consegue che la violazione di tale principio è ravvisabile quando il fatto ritenuto nella decisione si trova, rispetto al fatto contestato, in rapporto di eterogeneità, ovvero quando il capo d’imputazione non contiene l’indicazione degli elementi costitutivi del reato ritenuto in sentenza, né consente di ricavarli in via induttiva”.

Pertanto, "la verifica dell’osservanza di detto principio non può esaurirsi in un mero confronto letterale tra imputazione e sentenza, occorrendo che ogni indagine in proposito venga condotta attraverso l’accertamento della possibilità per l’imputato di difendersi in relazione a tutte le circostanze del fatto”.

Richiamati tali fondamentali principi, i giudici della Suprema Corte hanno ritenuto che, nel caso in processo, pur essendosi giunti all’affermazione della responsabilità della società a seguito di una diversa qualificazione della posizione ricoperta dall’agente, a fronte dell’identità della condotta contestata e del reato-presupposto, la difesa avesse comunque avuto ampia facoltà di interloquire mediante testi e documenti, risultando dunque assicurato il contraddittorio in ordine al profilo della concreta qualificazione della responsabilità.

Per tali ragioni, la Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, con conseguente condanna della società ricorrente al pagamento delle spese processuali.

(Corte di Cassazione - Sezione Sesta Penale, Sentenza 6 dicembre 2018, n. 54640)