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Posto fisso o posto figo? Alla ricerca dello slogan perfetto…

(commento personale a https://youtu.be/f7LHRQseO5I)
posto fisso
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Posto fisso o posto figo? Alla ricerca dello slogan perfetto…

(commento personale a https://youtu.be/f7LHRQseO5I)

 

“Cosa vuoi fare da grande?”

“Posto fisso”

Celebre battuta di inizio di un famoso film di qualche anno fa. Come dire un posto fisso è, sotto certi aspetti, figo per definizione. Se per figo intendiamo sicuro e pagato al di là di quello che faccio… allora sì, posto fisso è davvero sinonimo di posto figo. Non è proprio così, almeno non sempre.

La mia esperienza lavorativa racconta forse altro; inizia con una breve esperienza in ambito universitario, per poi continuare in aziende IT per diversi anni, prima di passare in Pubblica Amministrazione.

Un lavoro può essere figo (come gli studi che seguivo in ambito accademico) ma magari poco retribuito, con scarse garanzie e prospettive; oppure può essere fighissimo e molto ben pagato, come quello che svolgevo nelle società di IT, ma lasciare davvero poco spazio alla vita privata.

Entrare in PA, almeno in un primo momento, è stato invece una sorta di trauma; per mesi (passati ad occuparmi di protocollo cartaceo…) ho pensato che stessi buttando via le mie capacità e la professionalità acquisita con tanta fatica…

Diapositiva 1
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Il punto di svolta, per mia fortuna, è stato arrivare in un ufficio in cui è stato possibile ritrovare i "valori lavorativi" in cui credo: mettere sempre le persone (e la loro "umanità") al centro, amare quello che faccio (chiaramente per quanto possibile, tenendo conto delle incombenze e delle assurdità burocratiche cui tutti siamo soggetti).

Il simbolo scelto per parlare di Umanesimo Manageriale è l’Uomo vitruviano di Leonardo, cui personalmente viene naturale associare il concetto di equilibrio. Mettere la persona al centro in ambito lavorativo vuol dire, secondo me, trovare il giusto equilibrio di “pesi e contrappesi” tra giusta retribuzione, attribuzione di giusta mansione, saper creare un contesto in cui la persona si senta valorizzata e avverta come utile quello che fa ogni giorno, riesca a conciliare senza troppo stress e “sensi di colpa” la vita lavorativa e le esigenze familiari (avere a che fare con i servizi scolastici o con la gestione di una persona anziana oggi, in Italia, è davvero molto diverso da quello che si vede nello spot proposto dal ministro…).

Partendo da quest’idea, il primo slogan che mi viene in mente è “Tra il dire e il fare…c’è il cominciare”. Cercando di essere un minimo concreti, è possibile pensare ad una sorta di modello, di matrice, in cui mettere a fattor comune i propri valori umani, aspettative di crescita professionale e retributive, con il raggiungimento degli obbiettivi aziendali? Un modello in cui, soprattutto come persona, riesco a identificarmi? Quello che ho in mente è un modello dinamico, in cui ciascun parametro possa essere rivisto e riadattato periodicamente o al mutare degli obbiettivi di progetto, delle esigenze lavorative e personali di ciascun individuo.

In fondo queste tematiche non sono poi così nuove. Basti pensare allo slogan coniato da Kenneth Blanchard e Spenser Johnson nel famoso The One Minute Manager, testo ormai ben datato: People Who Feel Good About Themselves Produce Good Results («Le persone che si sentono bene con se stesse producono buoni risultati»). È stato ovvero provato che aumentando il coinvolgimento, il livello di motivazione e collaborazione all'interno di un’organizzazione, si riesce ad aumentare la produttività a parità di risorse coinvolte. Un modello motivazionale vincente, secondo me, non può che basarsi sulla condivisione di valori, prima ancora che di obbiettivi.

Se andiamo ad esaminare gli adempimenti previsti dalla legge 150/2009 (Legge Brunetta), e il sistema di valutazione proposto (pensato per incentivare l’efficientamento e che si basava sul merito), tuttora in adozione nella PA italiana, possiamo davvero renderci conto di quanto siamo lontani dal raggiungere certi traguardi.

Le metodologie di coaching e di project management offrono tante possibili soluzioni e strategie organizzative che, prese singolarmente, si propongono in qualche modo come “panacea di tutti i mali”.

Diapositiva 2
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Ma soprattutto, in ambito PA, senza un attento processo di tailoring e la reale intenzione di voler analizzare ed affrontare la realtà in cui si opera, anche l’adozione di standard e metodologie rischia di trasformarsi in inutile burocrazia.

Il lavoro per conoscere il contesto e il “materiale umano” da “gestire” richiede un grande sforzo; è un’attività complessa e implica cura continua. Attività a cui spesso non viene neppure dato alcun rilievo, nessuna evidenza. Gramellini qualche tempo fa usava il termine “sciatteria” per descrivere l’operato della PA nei confronti dei cittadini italiani. Al termine “sciatteria” va contrapposto lo slogan “I care” (“mi interessa”, “ne ho cura”, “mi sta a cuore”), come direbbe don Milani. Ma come può un dipendente pubblico mettere cura nel proprio lavoro, se lui per primo si sente non considerato, non valorizzato, trattato come un “posto fisso”, un cedolino da pagare a fine mese? Come trovare interesse in ciò che faccio, se la maggior parte delle attività che svolto non producono utilità e sono consapevole di sprecare il mio tempo per adempimenti e burocrazia improduttiva? La sensazione resta quella di appartenere ad un’entità informe in grado di fagocitare e appiattire ogni prospettiva, ogni passione, ogni propensione ad operare bene, a svolgere con cura il proprio lavoro. Thomas Carlyle, storico e filosofo scozzese di età vittoriana, sosteneva che «un uomo non può fare bene un paio di scarpe a meno che non lo faccia devotamente». Questo concetto, esemplificato in maniera così semplice, dovrebbe essere la base dell’attività quotidiana di un “Civil Servant”, ritrovando così un senso profondo alla nostra Costituzione negli articoli 97 e 98, dedicati alla Pubblica Amministrazione.

Servono grandi esempi; servono leader in grado di incarnare e trasmettere valori, e soprattutto, leader che sappiano insegnare a metterli in pratica giorno dopo giorno. Che sappiano andare oltre l’ordinarietà, il che comporta comunque andare incontro a difficoltà, consapevoli di affrontare grossi rischi. Ma come individuarli?

Va davvero cambiato il sistema di base.

Senza voler nemmeno sfiorare il discorso della modalità in cui oggi si svolgono i concorsi pubblici, in generale, la selezione e i percorsi di formazione che si basano solo sulla conoscenza o sulle capacità esclusivamente tecniche, che non tengono in alcun conto della base valoriale delle persone, continuano ad essere fallimentari. Quando va bene, si continua magari a fare selezione sulla base dell’esito di un test, di quello che si legge in un CV, magari si fa affidamento a parametri di QI, senza considerare che esiste anche un QE, un quoziente emotivo… se ne parla, si parla da tempo e in tanti contesti di intelligenza emotiva, ma personalmente nella pratica ne ho viste ben poche applicazioni in ambito lavorativo (un esempio è il metodo di selezione adottato negli store della Apple, che valorizza l’ascolto attivo, la collaborazione e il rispetto reciproco).

Mi piace concludere questa riflessione con qualche frase dello scrittore francese Christian Bobin:

«Non mi piacciono quelli che sanno, mi piacciono quelli che amano».

Sono più che mai convinta che, se si riesce a sviluppare la giusta passione, si riesce ad imparare qualsiasi cosa, a svolgere bene qualsiasi lavoro. «L'unico modo di fare un ottimo lavoro è amare quello che fai». Lo ha detto persino Steve Jobs.

«L'intelligenza non è una questione di titoli di studio. Può averci qualcosa a che fare ma non ne è l'aspetto essenziale. L'intelligenza è la forza, solitaria, di estrarre dal caos della propria vita la manciata di luce sufficiente per rischiarare un po' più lontano da sé -verso l'altro laggiù, come noi smarrito nel buio»

Ecco, direi più che parlare di lavoro figo, in PA bisogna ritrovare il senso di un lavoro intelligente, secondo questa ultima accezione: un pochino di luce che orienti verso una giusta direzione.