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Preterizione

giornalismo
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Un “piccolo incidente tipografico” porta l’autore a riflettere sul suo colonnino: che cosa sia, a chi sia rivolto, quali dubbi ponga all’autore e al suo lettore. Sulla sua longevità, la sua durata, la sua esistenza, in fondo. Un modo per ricominciare, dopo la sosta di una settimana…e per molti altri anni.

 

La preterizione, ricordate? (“Cesare taccio”, ecc.) è la figura con cui si mostra di passare sotto silenzio ciò che effettivamente si dice. Ma di corsa, e via. Così faremo noi con l’incidente toccato al colonnino nel primo venerdì dell’anno. Un accenno di spiegazione, e poi via, verso la folla di argomenti che ci attende, dopo aver sbrigato questo piccola questione di furberia. Forse era meglio non accennarvi neppure, se non fosse per quei lettori, affettuosi o arcigni, premurosi o irritati, ma sempre attenti, che hanno scritto, telefonato, mandato volumi di aforismi, pensate.

Che cosa era successo? Nulla di grave, il colonnino ebbe un diverbio con quel tale cervello elettronico che tutti conoscono. Io l’avevo munito, il colonnino, di ben dodici asterischi, così da separare tra loro quattordici aforismi, il più lungo di quarantaquattro righe, e il più corto di quattro parole. Ma la ingorda macchina tutti se li tenne in pancia, e così lo strangolò. Perché gli aforismi sono esili creature bisognose d’aria e di luce, quelle, che sole, nel fitto delle righe tipografiche, possono fornire gli asterischi, i segni grafici a forma di tre stellette.

Ecco perché il colonnino riuscì ad alcuni indigesto, ad altri incommestibile. Per questi soltanto ho raccontato l’incidente, e poi la smettiamo, per parlare un momento della rubrica e del suo carattere. Una rubrica di costume deve pure, una volta l’anno, fare il punto su se stessa e guardarsi allo specchio. Il piccolo incidente ha messo meglio in vista la decisione che avevo preso, di aprire l’anno con una formula diversa: l’aforisma. Era un calcolo meditato. Volevo saggiare le reazioni del lettore, il gradimento del direttore, la riuscita complessiva del nuovo aspetto modellato su una forma che sta tornando di moda. Ci proverò di nuovo, dopo un altolà chisciottesco all’implacabile macchina.

Un colonnino come questo, prima o poi, si esaurisce. È la sorte di ogni creatura umana, dalla più auguste alle più umili, d’avere una giovinezza, una maturità e una vecchiaia. Oswald Spengler, ch’io considero il massimo maestro di questo secolo, lo ha insegnato per le civiltà e gl’imperi, che dell’opera umana sono le creature maggiori. Ma vale anche per il gracile colonnino di costume. Io cerco di prolungargli l’esistenza, rinnovandolo più che posso. Variando gl’interessi sulla tastiera più ampia che trovo, trascorrendo dal pubblico al privato, rifluendo dalla confessione personale alla sintesi storica, dalla moralità alla segnalazione di un libro, dall’invettiva al ghiribizzo. Penso che costi minor fatica mantenere fresco e oliato il colonnino, piuttosto d’inventare una nuova rubrica, che difficilmente potrebbe riuscirmi così libera e varia come questa.

Una rubrica di costume ha doveri difficili.

Si mantiene in forma soltanto a prezzo di una dieta severa e bilanciata. Deve soddisfare i vecchi lettori, ma non viziarli al punto di respingere i nuovi. Deve stabilire i punti fermi d’una sua piccola tradizione, ma proibirsi, a qualsiasi costo, la ripetizione. Deve rispondere a segnali lusinghieri, ma evitare il compiacimento dell’autocelebrazione. Deve saper coltivare intese perfino segrete, ammiccamenti, allusioni appena velate, senza mai trasformarsi in messaggio a chiave o in piccola posta. Deve amministrare le opere di bene che i lettori gli affidano (“Santerno Provvidenza” fu perfino chiamato il colonnino, e il caso si ripete) ma senza prendere l’unzione della beneficienza. E così, rassicurare l’amica sconosciuta sull’adempimento e il successo delle sue generose disposizioni, ma senza permettersi repliche che, oltre a tutto, la butterebbero “in confusione”. “Complice amico”, deve restare del segretario comunale, della signora di Colonia innamorata dell’Italia, dell’ingegnere romano, del criticissimo e generosissimo genovese che firma con le iniziali. Deve tranquillizzare l’industriale di Arcade: buttata la busta, la sua identità, affidata ad una firma illeggibile, rimase sconosciuta, fino a che furono fatte ricerche: ma l’assegno ebbe il suo corso, anche se finì nella fiumana, con tutti gli altri di quei giorni.

“In casa e fuori” è una formula spaziosa, e perciò, attraente. Ma è una formula vaga, e perciò difficile. Non sempre il colonnino riesce gradito, e non sempre riesce a fare soltanto del bene. Può ingiustamente colpire interessi e persone, può sbagliare obiettivi. Non sempre riesce a riparare i suoi torti come vorrebbe. Almeno un dubbio m’è rimasto dall’anno passato, a proposito di un incidente di mare che provocò polemiche e rettifiche, che non tutte potei, per diverse ragioni, pubblicare.

Il colonnino è capace di prendere la mano e assumere atteggiamenti e abitudini da quelle del suo autore. A volte lo scavalca, a volte gli resta indietro. Deve mantenere gl’impegni presi (amici lapicidi mi capite), ma senza far pesare la fatica, e rinunciando a precisare troppe cose sulle ragioni del ritardo.

Il piccolo incidente mi aveva consigliato di ripensarci un momento. Se fosse il caso di continuare, o di cambiare, magari nome, modello, registro. Poi, le telefonate, le lettere, mi hanno persuaso che valesse la pena di continuare. Ecco il senso di quella settimana di sospensione, o amici lettori che me ne avete chiesta la ragione. Non ho difficoltà a confessare il momento di incertezza. La chiarezza, tra noi, è il primo impegno. “Così vuole dover, pietade, affetto”, dice Don Ottavio, nel secondo atto del Don Giovanni di Mozart.

Non se ne abbia a male, l’amico che mi ha fatto gli auguri col suo minuscolo Vangelo. Le mie Sacre Scritture rimangono, irrimediabilmente, profane.

Da “Il Giornale”, 16 gennaio 1981