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Responsabilità civile dei magistrati: la Corte costituzionale sul risarcimento dei danni morali

Nota a Cass. Civ., Sez. III, ordinanza n. 31321/2021
Fatata te Miti, Gauguin, 1892, National Gallery of Art di Washington.
Fatata te Miti, Gauguin, 1892, National Gallery of Art di Washington.

Il fatto

La vicenda sottesa alla questione di legittimità dimostra come meglio non si potrebbe il male assoluto e irrecuperabile che concezioni sbrigative ed autoreferenziali della giustizia possono produrre nella vita della vittima di turno.

Un magistrato stimato ebbe la sventura di ritrovarsi indagato in una di quelle indagini, mai troppo deprecate, in cui la quantità fa premio sulla qualità sicché la principale cifra identitaria è il numero delle persone coinvolte piuttosto che la sostenibilità della tesi accusatoria.

Il 9 novembre 2004 il magistrato fu sottoposto ad una perquisizione personale e domiciliare e la notizia ebbe una vasta eco, tanto più che la Procura aveva divulgato (come sempre aggiungiamo noi) il suo nome ed il fatto che prestasse servizio presso la Corte di cassazione, ma aveva omesso di sottolineare l'esito negativo dell'atto investigativo

Nei confronti dell'accusato si ipotizzava un suo concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso che si sarebbe concretato nella disponibilità all'"aggiustamento" di un processo.

Come si può immaginare, l'indagine destò grande scalpore e i suoi effetti si riverberarono addirittura nel dibattito politico.

Il procuratore nazionale antimafia in carica si disse persuaso che l’inchiesta potesse contare su elementi concreti, bene evidenziati dal redattore dell’ordinanza cautelare.

Il presidente della commissione parlamentare antimafia promise a sua volta l’immediata acquisizione degli atti del procedimento.

Nonostante questo compiacimento corale, il GUP catanzarese, con una sentenza emessa a maggio del 2009, prosciolse gli indagati superstiti (per alcuni era già intervenuta l’archiviazione) per insussistenza di tutti i reati. 

Una menzione particolare va riservata all’epilogo della vicenda giudiziaria per il magistrato accusato di concorso in associazione mafiosa.

Dopo la divulgazione a mezzo stampa dell’indagine, l’interessato chiese ripetutamente ai PM titolari dell'indagine di essere ascoltato ma le sue istanze non furono prese in considerazione.

A gennaio del 2006, quando era passato più di un anno, la Procura procedente constatò di non essere competente per quella specifica posizione e trasmise gli atti all’omologo ufficio di Roma che chiese e ottenne l’archiviazione del procedimento.

Il magistrato, non pago del risultato ottenuto, avviò con successo un’azione civile nei confronti dello Stato ai sensi della L. 117/1988 sulla responsabilità civile dei magistrati.

Il tribunale competente a giudicare si pronunciò accogliendo la domanda e condannando al risarcimento dei danni patrimoniali la Presidenza del Consiglio dei Ministri, avendo rilevato che la Procura procedente aveva «formulato gravissime imputazioni (come appunto quella di concorso esterno in associazione mafiosa) prive di qualsivoglia elemento o supporto e omettendo qualsiasi pur minima motivazione» e che «L’imputazione a B. era del tutto priva di adeguato riscontro. Il Gup del tribunale di Roma ha prosciolto non già in forza di sopravvenienze investigative, ma sulla base di una mera presa d’atto (conforme alla requisitoria della stessa procura romana) che fin dall’inizio mancava nelle indagini qualsiasi elemento, sia pure di mero sospetto […]. Inoltre il decreto di perquisizione (emesso pur a fronte di qualsiasi serio fondamento investigativo) si mostra del tutto privo di motivazione, essendo riportata esclusivamente la formula di mero stile, secondo cui si riteneva che in casa dell’imputato potessero essere rinvenute cose pertinenti al reato […] Le indagini a carico del B. hanno avuto una durata assolutamente irragionevole, e sono state svolte in assenza di qualsiasi criterio di collegamento di competenza territoriale».

Il tribunale non liquidò invece i danni non patrimoniali richiesti dall'interessato non avendo costui subito misure cautelari limitative della libertà personale.

Il magistrato propose appello, insistendo per la condanna al risarcimento dei danni non patrimoniali, mentre la Presidenza del Consiglio resistette e propose appello incidentale, chiedendo l'integrale rigetto della domanda risarcitoria.

La Corte d'appello competente ha rigettato entrambi i gravami, confermando la sentenza impugnata e compensando le spese del grado.

La Corte ha affermato, fra l'altro, che: - la legge n. 18/2015, nella parte in cui ha modificato l'art. 2 della I. n. 117/1988 sopprimendo le parole “che derivino da privazione della libertà personale”, ha una portata innovativa e non costituisce interpretazione autentica della precedente disciplina; - va del pari escluso il dubbio di legittimità costituzionale dell'art 2 della I. n. 117/1988 (nel testo anteriore alle modifiche del 2015), in relazione agli artt. 2 e 3 Cost., atteso che “il legislatore del 1988 [...], con la limitazione dei soli danni patrimoniali ha effettuato la scelta di contemperare interessi di pari rilevanza costituzionale”, circoscrivendo la responsabilità conseguente all'esercizio della funzione giudiziaria “ad ipotesi specifiche e a distinte categorie di danni”.

Prosegue la Corte d’Appello: “al fine di affermare la risarcibilità dei danni non patrimoniali non può poi ritenersi praticabile la tecnica della 'interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata', giacché essa trova spazio soltanto laddove si tratti di adeguare, attraverso l'interpretazione, una generica formula legislativa ovvero un istituto giuridico ai mutamenti economico-sociali intervenuti nel tempo, ma non può invece utilizzarsi in contrasto col tenore letterale della legge”, inoltre “per analoghe ragioni non si ritiene praticabile neppure la soluzione della disapplicazione dei limiti dettati dall'art. 2, co. 1, L. n. 117/88 per contrasto con non meglio specificate norme della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e del sistema comunitario sulla tutela della persona e dei diritti fondamentali”.

 

Il profilo d’incostituzionalità della legge sulla responsabilità civile dei magistrati

Il magistrato non si acquieta e ricorre per cassazione, ricevendo finalmente una risposta sensata alle sue legittime rivendicazioni.

La Corte Suprema dichiara infatti: “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117 -nel testo originario-, nella parte in cui, prevedendo che colui il quale abbia subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento posto in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni possa agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, limita la risarcibilità dei danni non patrimoniali ai soli casi di privazione della libertà personale; dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, lett. a) della legge 27 febbraio 2015, n. 18, nella parte in cui non dispone l'applicazione della modifica introdotta all'art. 2, comma 1, della legge n. 117/1988 ai giudizi in corso per fatti anteriori alla sua entrata in vigore; sospende il presente giudizio, mandando alla Cancelleria l'espletamento degli incombenti di cui all'ultimo comma dell'art. 23 della legge n. 87/1953 e, dunque, dispone l'immediata trasmissione degli atti, comprensivi della documentazione sul perfezionamento delle prescritte notificazioni e comunicazioni, alla Corte costituzionale”.