Stalking e mobbing a confronto
Il reato di stalking trova la propria fonte normativa nell’articolo 612 Bis del Codice Penale. Trattasi diuna particolare condotta criminosa, la quale si concretizza in una serie di comportamenti reiterati di natura persecutoria che il reo pone in essere nei confronti della vittima.
Il comportamento del reo genera uno stato di ansia, di timore, tale da condizionare la vita quotidiana della persona offesa. È chiaro, quindi, che la condotta tipicamente tenuta dallo stolker è sicuramente abituale, continuativa ed ininterrotta in modo tale da ingenerare in colui che la subisce il timore di un pericolo per sé e per la sicurezza dei propri cari.
Il bene giuridico che viene tutelato con tale previsione normativa, è la “libertà morale” e cioè il diritto di autodeterminazione del soggetto leso. Ma non solo. Viene, a tale proposito, pregiudicata anche l’incolumità individuale; si pensi al perdurante stato d’ansia e di timore richiesto dalla norma ai fini della configurabilità del reato in questione.
Per quanto riguarda la natura giuridica del reato di stalking si può affermare che si tratta di un reato a dolo generico, poiché colui che ne è l’autore deve rappresentarsi e volere la condotta criminosa e l’evento che ne consegue; a forma libera e di evento, in quanto l’illecito penale de quo si può concretizzare in una serie indeterminata di forme che si esprimono attraverso la minaccia o la molestia e richiede, altresì, ai fini della sua configurazione, il verificarsi di un evento dannoso e quindi volto a pregiudicare i beni giuridici protetti dalla norma.
Sul punto, assume estrema importanza la Sentenza 14 novembre 2013, n. 45648, della Corte di Cassazione, ad avviso della quale la reciprocità dei comportamenti molesti non esclude la configurabilità del reato di stalking, incombendo, in tale ipotesi, al Giudice un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell’evento di danno, ossia, dello stato d’ansia o di paura della persona offesa, del suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone ad essa vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita.
La giurisprudenza di legittimità ha voluto sottolineare che anche nel caso in cui ci sia reciprocità nei comportamenti molesti posti in essere da aggressore e vittima, qualora sia ravvisabile una predominanza dello stalker sulla vittima e quindi una condotta criminosa idonea a fare assumere alla persona offesa un atteggiamento difensivo volto a sopraffare la paura, avremo in ogni caso, la configurabilità del reato di stalking.
Di natura similare è il cosiddetto mobbing che, in realtà, è fenomeno meramente fattuale, non ancora disciplinato a livello normativo.
A differenza del reato di stalking in precedenza analizzato, il mobbing si concretizza in una condotta aggressiva posta in essere nel luogo di lavoro diretta a svilire la personalità e la dignità del lavoratore con effetti sfavorevoli nell’ambito della vita sociale, personale e familiare di quest’ultimo. La fonte dei cosiddetti atti persecutori è da rinvenirsi nell’ambiente di lavoro ed è per questo che spesso e volentieri si parla di “stalking occupazionale”.
È chiaro, quindi, che anche il mobbing, pur avendo origine in un ambiente lavorativo, si sviluppa attraverso una violenza psicologica nei confronti della vittima, la quale può essere messa in atto da un superiore oppure da un collega; da qui deriva la figura del mobbing verticale ed orizzontale. Naturalmente, le conseguenze di colui che subisce l’attività mobbizzante, sono spesso drammatiche e quindi tali da spingere la vittima a subire passivamente dei danni psicofisici, ma anche di natura professionale, si pensi al cosiddetto danno da dequalificazione.
Nonostante il mobbing presenti tutti i caratteri di una condotta criminosa volta a pregiudicare il diritto alla salute dell’individuo, il quale come sappiamo, trova riconoscimento e tutela nella Costituzione, non esiste, come affermato in precedenza, allo stato attuale, una normativa che lo identifichi come reato. A tal proposito la Corte di Cassazione, (Cassazione Penale n. 33624/2007) ha più volte affermato che la figura di reato più prossima alle caratteristiche del cosiddetto mobbing è quella descritta dall’articolo 572 del Codice Penale e cioè il reato di maltrattamenti.
All’uopo possiamo citare una Sentenza pronunciata dalla stessa Corte di Cassazione secondo la quale “le condotte di carattere vessatorio e persecutorio realizzate ai danni del lavoratore dipendente (c.d. mobbing), possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia allorquando il soggetto agente versi in una posizione di supremazia che si traduca nell’esercizio di un potere direttivo o disciplinare, tale da rendere specularmente ipotizzabile una soggezione, anche di natura meramente psicologica, riconducibile ad un rapporto di natura parafamiliare” (Cassazione Penale n. 43100/2011).
Da un’attenta lettura della massima in argomento, si può facilmente dedurre che la giurisprudenza ha voluto ricondurre la condotta mobbizzante nell’ambito del reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’articolo 572 del Codice Penale ricorrendo ad un ampliamento della sfera di operatività di quest’ultima norma.
Anche da una condotta mobbizzante, può scaturire un danno biologico a colui che la subisce e quindi un vero e proprio pregiudizio alla sfera psico-fisica del lavoratore. Un tipico esempio è rappresentato da un danno da demansionamento.
Sul punto la giurisprudenza di legittimità sottolinea che il soggetto leso deve dimostrare l’esistenza di un nesso di causalità tra il demansionamento ed il danno che nella specie è rappresentato dal danno da professionalità (Cassazione Civile n. 20980/2009), poiché quest’ultimo non può considerarsi in re ipsa, ma richiede la dimostrazione da parte del lavoratore dell’esistenza del danno stesso, come ad esempio può essere un ostacolo alla progressione di carriera. Da tali argomentazioni, ne consegue che il danno professionale va provato separatamente dal danno da demansionamento (Cassazione Civile n. 172/2014).
Il reato di stalking trova la propria fonte normativa nell’articolo 612 Bis del Codice Penale. Trattasi diuna particolare condotta criminosa, la quale si concretizza in una serie di comportamenti reiterati di natura persecutoria che il reo pone in essere nei confronti della vittima.
Il comportamento del reo genera uno stato di ansia, di timore, tale da condizionare la vita quotidiana della persona offesa. È chiaro, quindi, che la condotta tipicamente tenuta dallo stolker è sicuramente abituale, continuativa ed ininterrotta in modo tale da ingenerare in colui che la subisce il timore di un pericolo per sé e per la sicurezza dei propri cari.
Il bene giuridico che viene tutelato con tale previsione normativa, è la “libertà morale” e cioè il diritto di autodeterminazione del soggetto leso. Ma non solo. Viene, a tale proposito, pregiudicata anche l’incolumità individuale; si pensi al perdurante stato d’ansia e di timore richiesto dalla norma ai fini della configurabilità del reato in questione.
Per quanto riguarda la natura giuridica del reato di stalking si può affermare che si tratta di un reato a dolo generico, poiché colui che ne è l’autore deve rappresentarsi e volere la condotta criminosa e l’evento che ne consegue; a forma libera e di evento, in quanto l’illecito penale de quo si può concretizzare in una serie indeterminata di forme che si esprimono attraverso la minaccia o la molestia e richiede, altresì, ai fini della sua configurazione, il verificarsi di un evento dannoso e quindi volto a pregiudicare i beni giuridici protetti dalla norma.
Sul punto, assume estrema importanza la Sentenza 14 novembre 2013, n. 45648, della Corte di Cassazione, ad avviso della quale la reciprocità dei comportamenti molesti non esclude la configurabilità del reato di stalking, incombendo, in tale ipotesi, al Giudice un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell’evento di danno, ossia, dello stato d’ansia o di paura della persona offesa, del suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone ad essa vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita.
La giurisprudenza di legittimità ha voluto sottolineare che anche nel caso in cui ci sia reciprocità nei comportamenti molesti posti in essere da aggressore e vittima, qualora sia ravvisabile una predominanza dello stalker sulla vittima e quindi una condotta criminosa idonea a fare assumere alla persona offesa un atteggiamento difensivo volto a sopraffare la paura, avremo in ogni caso, la configurabilità del reato di stalking.
Di natura similare è il cosiddetto mobbing che, in realtà, è fenomeno meramente fattuale, non ancora disciplinato a livello normativo.
A differenza del reato di stalking in precedenza analizzato, il mobbing si concretizza in una condotta aggressiva posta in essere nel luogo di lavoro diretta a svilire la personalità e la dignità del lavoratore con effetti sfavorevoli nell’ambito della vita sociale, personale e familiare di quest’ultimo. La fonte dei cosiddetti atti persecutori è da rinvenirsi nell’ambiente di lavoro ed è per questo che spesso e volentieri si parla di “stalking occupazionale”.
È chiaro, quindi, che anche il mobbing, pur avendo origine in un ambiente lavorativo, si sviluppa attraverso una violenza psicologica nei confronti della vittima, la quale può essere messa in atto da un superiore oppure da un collega; da qui deriva la figura del mobbing verticale ed orizzontale. Naturalmente, le conseguenze di colui che subisce l’attività mobbizzante, sono spesso drammatiche e quindi tali da spingere la vittima a subire passivamente dei danni psicofisici, ma anche di natura professionale, si pensi al cosiddetto danno da dequalificazione.
Nonostante il mobbing presenti tutti i caratteri di una condotta criminosa volta a pregiudicare il diritto alla salute dell’individuo, il quale come sappiamo, trova riconoscimento e tutela nella Costituzione, non esiste, come affermato in precedenza, allo stato attuale, una normativa che lo identifichi come reato. A tal proposito la Corte di Cassazione, (Cassazione Penale n. 33624/2007) ha più volte affermato che la figura di reato più prossima alle caratteristiche del cosiddetto mobbing è quella descritta dall’articolo 572 del Codice Penale e cioè il reato di maltrattamenti.
All’uopo possiamo citare una Sentenza pronunciata dalla stessa Corte di Cassazione secondo la quale “le condotte di carattere vessatorio e persecutorio realizzate ai danni del lavoratore dipendente (c.d. mobbing), possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia allorquando il soggetto agente versi in una posizione di supremazia che si traduca nell’esercizio di un potere direttivo o disciplinare, tale da rendere specularmente ipotizzabile una soggezione, anche di natura meramente psicologica, riconducibile ad un rapporto di natura parafamiliare” (Cassazione Penale n. 43100/2011).
Da un’attenta lettura della massima in argomento, si può facilmente dedurre che la giurisprudenza ha voluto ricondurre la condotta mobbizzante nell’ambito del reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’articolo 572 del Codice Penale ricorrendo ad un ampliamento della sfera di operatività di quest’ultima norma.
Anche da una condotta mobbizzante, può scaturire un danno biologico a colui che la subisce e quindi un vero e proprio pregiudizio alla sfera psico-fisica del lavoratore. Un tipico esempio è rappresentato da un danno da demansionamento.
Sul punto la giurisprudenza di legittimità sottolinea che il soggetto leso deve dimostrare l’esistenza di un nesso di causalità tra il demansionamento ed il danno che nella specie è rappresentato dal danno da professionalità (Cassazione Civile n. 20980/2009), poiché quest’ultimo non può considerarsi in re ipsa, ma richiede la dimostrazione da parte del lavoratore dell’esistenza del danno stesso, come ad esempio può essere un ostacolo alla progressione di carriera. Da tali argomentazioni, ne consegue che il danno professionale va provato separatamente dal danno da demansionamento (Cassazione Civile n. 172/2014).