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Trattativa Stato-mafia: il procedimento sulla trattativa

Le imputazioni, la memoria dei PM di Palermo e il decreto che dispone il giudizio
Eugène Delacroix, La morte di Ofelia, 1853, Louvre Museum
Eugène Delacroix, La morte di Ofelia, 1853, Louvre Museum

Questo scritto è stato originariamente pubblicato l'8 aprile 2020 dalla rivista Diritto Penale e Uomo. Viene adesso ripubblicato, per gentile concessione della direzione della predetta rivista, nella rubrica "La linea della palma" di Filodiritto" .

 

3. Il procedimento sulla trattativa

3.1. I capi di imputazione

Avviato il procedimento penale 11719/2012 RGNR DDA e concluse le indagini preliminari, la Procura della Repubblica di Palermo esercitò l’azione nei confronti di Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Massimo Ciancimino, Antonino Cinà, Giuseppe De Donno, Marcello Dell’Utri, Nicola Mancino, Mario Mori, Salvatore Riina e Antonio Subranni, chiedendo il loro rinvio a giudizio.

La prima ed essenziale accusa fu quella di concorso in minaccia continuata e pluriaggravata a un corpo politico (individuato nel Governo) allo scopo di impedirne o turbarne l’attività, contestata a Riina, Brusca, Bagarella, Cinà, Subranni, Mori, De Donno e Dell’Utri. Si assumeva che i fatti si erano verificati a Palermo, Roma e altrove, a partire dal 1992 (più precisamente, come chiarito nella memoria di cui si parlerà nel successivo sottoparagrafo, con l’omicidio di Salvo Lima, avvenuto il 12 marzo 1992).

La medesima imputazione fu contestata anche a Bernardo Provenzano e Calogero Mannino ma la posizione del primo venne stralciata a causa della sua accertata incapacità di partecipare consapevolmente al giudizio e quella del secondo fu ugualmente separata avendo l’interessato chiesto e ottenuto di essere giudicato con le forme del rito abbreviato (si parlerà in seguito anche di questo giudizio collaterale).

Concorsero inoltre, secondo la Procura di Palermo, anche Vincenzo Parisi e Francesco Di Maggio, entrambi deceduti, e altri individui rimasti ignoti.

Nella descrizione della fattispecie fu citato ripetutamente Vito Ciancimino, anch’egli deceduto da anni, e gli si attribuì un ruolo di spicco nella realizzazione del reato.

È utile chiarire fin d’ora la veste di ciascuno degli interessati all’epoca dei fatti.

Bagarella, Brusca, Cinà, Provenzano e Riina erano ai vertici dell’associazione criminale mafiosa denominata “Cosa nostra”.

Calogero Mannino era un politico di spicco della Democrazia Cristiana (DC) e membro, con l’incarico di ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno, del Governo guidato da Giulio Andreotti che rimase in carica da aprile del 1991 fino a giugno del 1992.

Vito Ciancimino, anch’egli importante esponente della DC siciliana, era stato sindaco di Palermo e gli si accreditavano frequentazioni importanti in Cosa nostra e capacità di mediare tra questa e istituzioni e politica.

Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, tutti ufficiali dell’Arma dei Carabinieri, operavano nel Raggruppamento operativo speciale (ROS), rispettivamente come comandante, vicecomandante e ufficiale in subordine.

Il prefetto Vincenzo Parisi era il capo della Polizia di Stato.

Francesco De Maggio, magistrato, era il vicecapo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) del Ministero della Giustizia.

Marcello Dell’Utri aveva un ruolo manageriale apicale in FININVEST, holding della famiglia Berlusconi.

La tesi accusatoria può essere così sintetizzata.

Lo scenario in cui si muovevano tutti gli interessati era quello del periodo stragista di Cosa nostra.

I capimafia Riina, Provenzano e Cinà, considerando di potere trarre consistenti vantaggi da quella situazione, da loro stessi determinata, decisero di intavolare una trattativa con le istituzioni finalizzata al raggiungimento di un’intesa così concepita: Cosa nostra avrebbe interrotto le stragi ma in cambio lo Stato, e particolarmente l’Esecutivo, avrebbe adottato un pacchetto di misure con effetti tali da allentare sensibilmente la pressione sugli “uomini d’onore” siciliani; ne facevano parte tra l’altro la revisione della legislazione di contrasto alla criminalità organizzata mafiosa, l’abbandono o il depotenziamento dei rigorosi criteri valutativi della prova che avevano consentito la miriade di condanne nel cosiddetto maxiprocesso palermitano, la dismissione del regime penitenziario restrittivo consentito dall’art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario.

Dal lato istituzionale, le attività per la realizzazione del progetto di trattativa furono materialmente condotte da Subranni, Mori e De Donno, su incarico di esponenti governativi.

Un ruolo centrale in questo senso fu esercitato da Calogero Mannino che indusse esponenti dei corpi info-investigativi ad aprire la trattativa e fece pressioni per allentare l’applicazione del carcere duro ai mafiosi. L’attivismo di Mannino e il suo specifico interesse alla trattativa erano legati alla sua particolare condizione di vittima designata, assieme a numerosi altri bersagli, del programma stragista.

Nella fase iniziale, immediatamente successiva alla strage di Capaci, i tre ufficiali contattarono Vito Ciancimino perché facesse da tramite con i capi di Cosa nostra.

Realizzato il contatto, la trattativa entrò nel vivo e implicò impegni per ambo le parti e tra questi la rinuncia degli apparati di polizia alle ricerche e alla cattura del capomafia latitante Bernardo Provenzano.

L’interlocuzione Stato-mafia durò nel tempo tanto da essere ancora in corso allorché, iniziata la XII legislatura, Silvio Berlusconi formò il suo primo Governo.

In questa fase ebbero un ruolo importante Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca i quali, servendosi di Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri come intermediari, trasmisero al premier le stesse richieste di cui si è detto in precedenza. Dell’Utri, in particolare, ampliò il suo ruolo di mediatore dopo l’assassinio di Salvo Lima e l’arresto di Ciancimino e Riina.

Questo complesso di condotte ebbe un effetto pernicioso: il riconoscimento a Cosa nostra del ruolo di interlocutore dello Stato, implicando la presa d’atto istituzionale dell’efficacia della campagna stragista, si risolse infatti in un indebolimento delle istituzioni e in una compromissione del libero esercizio delle loro prerogative, così realizzandosi gli elementi costitutivi della contestata fattispecie di violenza o minaccia a un corpo politico.

Si segnala, per completezza informativa, che, nonostante la menzione nel testo dell’imputazione del concorso di Vincenzo Parisi e Francesco Di Maggio nella trattativa, in nessun passo si descrivono le modalità della loro partecipazione.

Il secondo capo di accusa fu contestato a Nicola Mancino il quale venne accusato di falsa testimonianza aggravata che avrebbe compiuto deponendo come teste dinanzi il Tribunale di Palermo nel giudizio a carico di Mario Mori e Mauro Obinu che vi erano imputati del reato di favoreggiamento per avere aiutato Bernardo Provenzano a sottrarsi alle ricerche finalizzate a porre fine alla sua latitanza.

Secondo i PM palermitani, Mancino avrebbe falsamente negato di essere a conoscenza delle trattative avviate da Mori e De Donno con Cosa nostra, delle proteste al riguardo del Guardasigilli pro-tempore Claudio Martelli e delle effettive ragioni per le quali il democristiano Vincenzo Scotti, ministro dell’Interno nel Governo Andreotti VII (ultimo Esecutivo della X legislatura), non riottenne il medesimo incarico nel Governo Amato (primo Esecutivo dell’XI legislatura).

Si ricorda, come informazione aggiuntiva, che Nicola Mancino, anch’egli, come Scotti, esponente prestigioso della DC, prese appunto il suo posto come ministro dell’Interno nel Gabinetto Amato e di seguito continuò a rivestire ruoli di vertice tra i quali spiccarono la presidenza del Senato e la vicepresidenza del CSM.

Gli ultimi due capi di imputazione riguardarono Massimo Ciancimino, figlio di Vito.

Gli furono contestati il concorso esterno in associazione mafiosa per avere agevolato Cosa nostra, facendo il latore di messaggi e comunicazioni tra il padre e Bernardo Provenzano, e la calunnia continuata e aggravata per avere falsamente incolpato Gianni De Gennaro di avere intrattenuto nel tempo illeciti rapporti con esponenti di Cosa nostra.

Si precisa che, negli anni della trattativa, De Gennaro, dirigente della Polizia di Stato, operò dapprima ai vertici della Direzione investigativa antimafia (DIA), per poi essere promosso prefetto, vicecapo della Polizia e direttore centrale della Criminalpol. Ancora di seguito, ma si era già nel 2000, ricevette dal Governo Amato II la nomina a capo della Polizia e direttore generale del Dipartimento di pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno.

 

3.2. La memoria della Procura di Palermo a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio.

Il 5 novembre 2012 il pool dei magistrati inquirenti che avevano gestito l’indagine, guidato dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia, depositò una breve memoria, destinata al GUP competente, a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio[1].

L’avvio è estremamente assertivo:

«il presente procedimento, giunto ora all’udienza preliminare, costituisce la summa di una lunga, complessa e laboriosa indagine, che comprende la lettura sintetica ed organica di una gran mole di atti processuali di fonte eterogenea (dichiarazioni di collaboratori di giustizia e testimoni, documenti, intercettazioni, telefoniche ed ambientali, sentenze di varie AA.GG.), tutti inerenti la vicenda della c.d. “scellerata trattativa”, sviluppatasi a cavallo delle stragi del ‘92-’93 fra i massimi esponenti di Cosa Nostra ed alcuni rappresentanti dello Stato. Quest’Ufficio non esita ad evidenziare l’importanza della ricostruzione probatoria contenuta in questo procedimento, che rappresenta l’esito di un faticoso ed ambizioso sforzo investigativo».

Seguono una rassicurazione e una constatazione dolente e amara:

«l’approccio di questo Ufficio con il materiale probatorio non è stato certamente pressapochista, né superficiale (come spesso si è inopinatamente affermato, senza rispetto delle energie generosamente profuse da tanti uomini dello Stato), bensì estremamente rigoroso nella valutazione delle prove, come dimostrano anche le ripetute archiviazioni richieste – nel corso degli anni – allorquando, a differenza di oggi, gli elementi di prova erano apparsi inadeguati a sostenere proficuamente l’accusa in giudizio».

Si passa quindi al merito:

«Secondo la ricostruzione emersa dalle risultanze finora acquisite, la trattativa, dal lato di Cosa Nostra, venne originariamente gestita direttamente dall’odierno imputato Salvatore RIINA, all’epoca capo assoluto del sodalizio mafioso, mentre, da parte dello Stato, venne condotta da alcuni alti ufficiali dei Carabinieri ovvero il Comandante del ROS Gen. Antonio SUBRANNI, il suo Vice Col. Mario MORI e il Cap. Giuseppe DE DONNO, a loro volta investiti dal livello politico (ed in particolare dal sen. Calogero MANNINO, all’epoca Ministro in carica ed esponente politico siciliano di grande spicco), che contattarono Vito CIANCIMINO – a sua volta in rapporti con Salvatore RIINA per il tramite di Antonino CINA’ – nel 1992, nel pieno dispiegarsi della strategia stragista. In quello stesso periodo, il medesimo col. MORI venne in contatto – attraverso l’intermediazione del M.llo Roberto TEMPESTA e di Paolo BELLINI – con i capi di Cosa Nostra lungo il parallelo asse costituito da Antonino GIOE’ e Giovanni BRUSCA».

E ancora:

«È stata l’analisi complessiva di tali atti che ha determinato la doverosa instaurazione del procedimento in oggetto, anche sulla base delle risultanze dei processi davanti alle Corti d’Assise di Caltanissetta e Firenze relativi alle stragi del ‘92 e del ‘93, di cui sono state acquisite le relative sentenze. Rilevano, a titolo emblematico, le affermazioni contenute nella motivazione della sentenza depositata il 2 marzo 2012 con la quale la Corte d’Assise di Firenze ha condannato Francesco TAGLIAVIA per concorso nelle stragi del ‘93, ove in premessa si legge che “una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia».

Si richiama la genesi dell’indagine:

«Va altresì evidenziato che l’odierno procedimento è frutto dello stralcio dal procedimento penale n. 2566/98 RGNR (c.d. procedimento Sistemi Criminali): era già allora centrale la vicenda delle interlocuzioni instauratesi fra l’ex Sindaco di Palermo Vito CIANCIMINO e gli ufficiali del ROS. Anche dalle dichiarazioni rese dagli stessi interlocutori (Vito Ciancimino, da una parte, il Col. MORI e il Cap. DE DONNO, dall’altra) si evinceva che le “ambasciate” che RIINA faceva pervenire allo Stato si risolvevano nella minaccia di proseguire nella strategia stragista qualora non fossero state accolte alcune richieste di benefici in favore di “Cosa Nostra».

Si accenna al notissimo “papello”:

«Come è noto, è proprio in tale contesto che si inserisce la vicenda del c.d. “papello” delle richieste che, secondo dichiarazioni di più collaboratori, Cosa Nostra fece recapitare ai suoi “interlocutori” istituzionali per ottenere, in tal modo, i benefici in cambio dei quali avrebbe posto fine alla strategia omicidiaria avviata nel 1992 (circostanze queste di cui collaboratori di giustizia del calibro di Giovanni BRUSCA e Salvatore CANCEMI – già appartenuti alla Commissione provinciale di Palermo di Cosa Nostra – hanno dichiarato di avere avuto notizia personalmente da Salvatore RIINA)».

Si delineano la novità e l’importanza delle dichiarazioni di un personaggio del calibro di Massimo Ciancimino:

«Gli sviluppi investigativi e l’acquisizione di ulteriori elementi hanno consentito di ampliare la visione delle vicende inerenti la trattativa e di coglierne meglio genesi, matrice, obiettivi ed esiti. Un ruolo prodromico di nuove certezze derivava innanzitutto dalle dichiarazioni di un testimone privilegiato dei fatti, l’odierno imputato Massimo CIANCIMINO, fonte di prova dalla controversa attendibilità intrinseca (visto che in questo processo assume anche la veste di imputato del delitto di calunnia), ma a cui, d’altra parte, va riconosciuto di aver fornito notizie e informazioni, che, laddove ed in quanto riscontrate, si sono rivelate preziose: queste hanno infatti consentito di ricostruire genesi, dinamiche ed esito dei contatti intercorsi fra i capi di Cosa Nostra e i rappresentanti delle Istituzioni, attraverso il canale dell’ex Sindaco di Palermo, Vito CIANCIMINO, padre del dichiarante».

Si sottolineano e si rivendicano le rivelazioni di nuovi testi e di collaboratori di giustizia altamente attendibili:

«E di particolare valore e significato sono state, di certo, le successive e conseguenti rivelazioni di “testimoni eccellenti”, alti esponenti delle Istituzioni del tempo, i quali, solo allorquando sono venuti a conoscenza delle dichiarazioni di Massimo CIANCIMINO (in parte divenute pubbliche), sono stati finalmente indotti a riferire, per la prima volta, circostanze che avevano a lungo taciuto e che, una volta inserite nel mosaico probatorio, evidenziavano in modo più chiaro uomini, protagonisti e complici della trattativa. Nel contempo, da ulteriori risultanze, e tra queste in particolare dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di elevata affidabilità ed attendibilità […] si evidenziava che la trattativa non si era affatto conclusa entro il limitato arco temporale del 1992, essendosi invero proiettata anche nel corso del 1993: è questo un anno decisivo per Cosa Nostra, che incontrò sempre maggiori difficoltà operative anche a causa dell’applicazione del duro regime carcerario del 41-bis, che proprio per questo, secondo le dichiarazioni di numerosissimi collaboratori, costituiva una delle norme di cui Cosa Nostra chiedeva l’eliminazione o l’attenuazione, unitamente ad altre, in materia di collaboratori di giustizia, sequestri di beni, e limitazione dei poteri del Pubblico Ministero».

Si stigmatizza un’amnesia collettiva:

«questo Ufficio è consapevole del fatto che non si è del tutto rimossa quella forma di grave amnesia collettiva della maggior parte dei responsabili politico-istituzionali dell’epoca (un’amnesia durata vent’anni), che avrebbe dovuto arrestarsi, se non di fronte alla drammaticità dei fatti del biennio terribile ‘92-’93, quanto meno di fronte alle risultanze (anche di natura documentale) che confermavano l’esistenza di una trattativa ed il connesso – seppur parziale - cedimento dello Stato, tanto più grave e deprecabile perché intervenuto in una fase molto critica per l’ordine pubblico e per la nostra democrazia».

Si invita ad apprezzare la durata nel tempo della trattativa e la sua sostanziale omogeneità, insensibile ai mutamenti dei Governi e delle maggioranze politiche:

«Il complesso probatorio, seppur non esaustivo, appare sufficiente per ricostruire la trama di una trattativa, sostanzialmente unitaria, omogenea e coerente, ma che lungo il suo iter ha subìto molteplici adattamenti, ha mutato interlocutori e attori da una parte e dall’altra, allungandosi fino al 1994, allorquando le ultime pressioni minacciose finalizzate ad acquisire benefici e assicurazioni hanno ottenuto le risposte attese. In questo quadro, può dirsi che è proprio dal suo epilogo del 1994, che viene ancor meglio in evidenza la vera posta in gioco di tutta la “trattativa».

Si assegna alla trattativa il valore fondativo di un nuovo patto di convivenza tra Stato e anti-Stato:

«Essa non è stata limitata a singoli obiettivi “tattici”, come la tregua per risparmiare gli uomini politici inseriti nella lista mafiosa degli obiettivi da eliminare, o l’allentamento del 41 bis e gli altri punti del papello, ma – assai più ambiziosamente – ha avuto ad oggetto un nuovo patto di convivenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere e traghettare dalla Prima alla Seconda Repubblica. Un patto di convivenza che, da un lato, significava la ricerca di nuovi referenti politici e, dall’altro lato, la garanzia di una duratura tregua armata dopo il bagno di sangue che in quegli anni aveva investito l’Italia».

Si traccia la genesi del progetto secondo la visuale di Cosa nostra e la si individua senza esitazioni nella gravissima crisi indotta dall’esperienza del maxiprocesso, nella sensazione di pericolo mortale che ne avevano ricevuto i boss di vertice e nella conseguente necessità di annientare gli uomini dello Stato cui addebitavano la responsabilità di quel risultato e di annichilirne gli effetti una volta per tutte.

Si spendono aggiuntivamente spiegazioni storiche e geopolitiche:

«Il crollo del muro di Berlino e il disfacimento dell’impero sovietico ridisegnarono gli equilibri politici internazionali sull’intero scacchiere mondiale. La fine della contrapposizione bipolare Est-Ovest, fondata sull’equilibrio nucleare e su una guerra fredda combattuta su più fronti, fu la “grande madre” di una catena di eventi. La grande criminalità aveva approfittato della copertura politica della guerra fredda per intessere, all’interno del sistema politico-istituzionale, una serie di rapporti che hanno fatto dell’Italia uno degli snodi degli interessi macroeconomici del crimine mondiale. Ebbene, fu proprio il crollo del muro di Berlino a determinare la fine della giustificazione storica della “collaborazione” con la grande criminalità. Nel frattempo, nel panorama nazionale, l’eccesso di tassazione, portato dell’utilizzazione distorta della spesa pubblica, aveva determinato la rivolta della borghesia commerciale e della piccola imprenditoria di varie regioni del Nord, espressa nella vertiginosa crescita politica del fenomeno delle Leghe. Anche al Sud l’emergere di un fenomeno politico spontaneo e nuovo come quello della “Rete” si rivelò quale ulteriore sintomo della crisi dei partiti tradizionali. Fu il combinarsi di tutte queste circostanze a far sì che dal cuore del sistema politico nazionale vennero precise indicazioni per “voltare le spalle” alla grande criminalità».

Se ne trae la conseguenza che le stragi furono il linguaggio che Cosa nostra usò per parlare in modo nuovo alla politica e ottenerne l’attenzione:

«Le stragi costituirono la premessa necessaria della ristrutturazione dello scambio dialettico con la politica».

Si affronta infine il cuore delle imputazioni, con un’importante premessa:

«Venendo alla sostanza giuridica delle contestazioni, occorre rammentare che il presente procedimento non ha per oggetto in senso stretto la trattativa. Nessuno è imputato per il solo fatto di aver trattato. Non ne sono imputati i mafiosi e neppure gli uomini dello Stato».

Si chiarisce quindi che la contestazione di minaccia a un corpo politico deriva non dalla trattativa ma dalle modalità illecite con cui fu realizzata e si richiamano a tal fine i contenuti del capo di imputazione.

Si svela il contenuto del concorso del prefetto Parisi e del Dr. Di Maggio e si adombra un ruolo concorrenziale anche per il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro:

«Per completezza, si segnala, infine, il ruolo di concorrenti nel medesimo reato assunto da altri uomini delle istituzioni oggi deceduti. Ci si riferisce all’allora Capo della Polizia Vincenzo PARISI ed al vice direttore del DAP Francesco DI MAGGIO, che, agendo entrambi in stretto rapporto operativo con l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi SCALFARO, contribuirono al deprecabile cedimento sul tema del 41 bis».

Si passa quindi all’imputazione contestata a Nicola Mancino e se ne chiariscono i retroscena:

«In questo contesto, si inserisce la contestazione di falsa testimonianza a carico dell’odierno imputato Nicola MANCINO. È sicuramente emerso che chi condusse la trattativa fece un’attenta valutazione: il Ministro dell’Interno in carica Vincenzo SCOTTI era ritenuto un potenziale ostacolo, mentre MANCINO veniva ritenuto più utile in quanto considerato più facilmente influenzabile da politici della sua stessa corrente, ed artefici della trattativa come il coimputato MANNINO, e da chi lo circondava, a cominciare dal Capo della Polizia PARISI. E rispetto al ruolo di quest’ultimo, va evidenziato il dato, non trascurabile, che mentre i primi approcci della trattativa erano nati su iniziativa ed ispirazione di chi poteva avere un interesse immediato e personale, in quanto più esposto, nel frattempo il quadro si era aggravato perché all’omicidio LIMA aveva fatto seguito la strage di Capaci. E quindi l’affare non riguardava più solo la sorte dei politici, ma l’intero Stato. È il momento, in cui irrompe sulla scena una male intesa (e perciò mai dichiarata) Ragion di Stato che fornisce apparente legittimazione alla trattativa e che coinvolge sempre più ampi e superiori livelli istituzionali. Ed invero, anche l’ex Guardasigilli Claudio MARTELLI, percepito anche lui come un ostacolo alla trattativa, finisce per essere politicamente eliminato (anche per effetto di un’inusuale collaborazione giudiziaria del capo della P2 Licio GELLI) più in là nel ‘93, quando si tratta di ammorbidire il 41 bis. E nello stesso contesto temporale, viene tolto di scena anche il capo del DAP Nicolò AMATO, ritenuto inizialmente un possibile strumento utile e inconsapevole della trattativa per il suo acceso garantismo, ma poi diventato inaffidabile, anche per avere messo inopinatamente nero su bianco (in una sua nota del 6 marzo 1993 indirizzata al neo-Ministro CONSO) che PARISI aveva espresso «riserve» sull’eccessiva durezza del 41 bis, a margine della riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica del 12 febbraio 1993».

Si prosegue nell’affresco:

«D’altra parte, occorre considerare che la condotta di alcuni protagonisti istituzionali della trattativa del 1992 (MORI e MANNINO, in particolare), non rimase circoscritta entro quei confini temporali in relazione al triangolo di rapporti CIANCIMINO-CINA’-RIINA, ma si protrasse certamente fino al 1993, allorquando, chiusa la Prima Repubblica con la caduta del Governo Amato, e quindi nella successiva fase di debolezza del quadro politico che favorì la formazione di un “Governo tecnico” come il Governo CIAMPI (che fu anche un “Governo del Presidente” e cioè del Presidente della Repubblica, Oscar Luigi SCALFARO), si affievolì il potere dei politici garanti” del primo accordo stipulato a margine della prima trattativa in costanza della Prima Repubblica. Tale ruolo venne più proficuamente assunto e mantenuto, in quel particolare momento, dagli uomini degli apparati” sopravvissuti alla Prima Repubblica. In particolare, il Capo della Polizia Vincenzo PARISI ed il Gen. Mario MORI in questo contesto assunsero un ruolo di particolare protagonismo: gli uomini-cerniera divennero uomini-artefici della trattativa, decisivi nel garantire l’adempimento degli accordi presi, e quindi garanti della controprestazione in termini di allentamento della stretta repressiva, specialmente sul fronte carcerario in materia di 41 bis».

È la volta di Francesco Di Maggio:

«È in quel momento che si delinea in tutta la sua importanza il ruolo di Francesco DI MAGGIO, uomo fidato dei Servizi di Sicurezza e da sempre legato al ROS dei Carabinieri e uomo forte della Amministrazione Penitenziaria, che darà il suo indirizzo imponendolo a CAPRIOTTI, il nuovo Direttore del DAP, ed al Ministro CONSO. Ciò con l’avallo che gli derivava anche dai suoi rapporti con il capo dello Stato, Oscar Luigi SCALFARO (a sua volta influenzato da PARISI). Capo dello Stato che, come emerso da varie e convergenti deposizioni testimoniali, ebbe un ruolo decisivo negli avvicendamenti SCOTTI-MANCINO e MARTELLI-CONSO, e nella sostituzione di Nicolò AMATO col duo CAPRIOTTI-DI MAGGIO, attraverso i quali seguì l’evoluzione delle vicende del 41 bis strettamente connesse all’offensiva stragista del 1993».

Si giustifica la prosecuzione delle minacce anche dopo le concessioni sul versante penitenziario:

«Ma certamente l’allentamento sul fronte carcerario, con alcune significative mancate proroghe di regime ex 41 bis nei confronti di boss mafiosi di assoluto rango, non poteva esaurire l’iter della trattativa che, dalla parte dei capi di Cosa Nostra, aveva ben più ambiziosi e duraturi obiettivi, mirando ad ottenere garanzie a tutto campo, con la stipula di un nuovo duraturo patto politico-mafioso. Ed è per questa ragione che le minacce di prosecuzione della stagione stragista non si arrestarono e proseguirono fin tanto che, subentrata la Seconda Repubblica ed insediatasi una nuova classe politica dirigente con la quale trattare”, all’ultima minaccia portata al neo-Governo Berlusconi tramite il canale BAGARELLA-BRUSCA-MANGANO-DELL’UTRI, seguì la definitiva saldatura del nuovo patto di coesistenza Stato-mafia».

Si chiude con un’orgogliosa rivendicazione:

«Quanto sinteticamente esposto, e con riserva di ulteriore illustrazione nel corso della discussione innanzi alla S.V., sostanzia le ragioni per le quali si è ritenuto doveroso esercitare l’azione penale nei confronti degli odierni imputati, nella ferma convinzione che l’unica vera Ragione di Stato è quella verità che questo Ufficio non ha mai smesso, e mai smetterà, di cercare».

 

3.3. Il decreto che dispone il giudizio

Il 7 marzo 2013 il GUP del Tribunale di Palermo dispose il rinvio a giudizio di tutti gli imputati per tutti i reati loro contestati[2].

Il relativo decreto è insolitamente lungo – ben 50 pagine – e dettagliato.

È lo stesso estensore a fornire la chiave di lettura della necessità di discostarsi dallo standard:

«ritenuto che il copioso materiale probatorio a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio formulata dai pubblici ministeri (circa novanta faldoni per un numero di pagine in atti che supera abbondantemente le 300.000) e quello acquisito nel corso della udienza preliminare non è pervenuto al Giudice ordinato per indice dei temi principali del processo o per singole posizioni processuali, ossia in maniera tale da rendere intellegibili eventuali richiami per relationem in sede di decreto che dispone il giudizio; ritenuto, d’altronde, che la memoria scritta del pubblico ministero depositata nel corso della udienza preliminare in data 5 novembre 2012 non affronta neppure il tema della fonti di prova a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio sui diversi punti della piattaforma accusatoria e sulle differenti posizioni processuali, limitandosi a generiche affermazioni sulle finalità e sugli approdi della inchiesta relativa al presente procedimento, nonché ad alcune annotazioni sulle questioni di competenza territoriale e per materia; rilevato che sulla base dell’art. 429 c.p.p. comma 1 lett. d) il giudice, con il decreto che dispone il giudizio, è tenuto alla “indicazione sommaria delle fonti di prova e dei fatti cui esse si riferiscono”; fonti destinate al vaglio dibattimentale sulla ricostruzione dei passaggi fattuali su cui si articola l’impianto accusatorio e sulla attendibilità delle stesse anche attraverso il metodo del contraddittorio tra le parti; che tale onere, nel caso di specie, a parere del Giudice, non può dirsi assolto da un generico rinvio alle scarne indicazioni della richiesta di rinvio a giudizio, anche alla luce dei temi complessi sottesi alle imputazioni […] che, in effetti, nel caso di specie, la fisiologica genericità della indicazione sul punto delle fonti di prova della richiesta di rinvio a giudizio a fronte della oggettiva complessità dei temi di prova proposti dal capo A) della rubrica (che si connota per una pluralità di condotte di cui all’art.338 c.p., tutte aggravate dalle circostanze di cui all’art.339 c.p. e all’art 7 del DL 152/1991 e realizzate in tempi diversi da una pluralità di soggetti) renderebbe meramente apparente una indicazione ex art 429 comma 1 lett. d) c.p.p. basata sul semplice richiamo al tenore delle imputazioni contenute nella richiesta di rinvio a giudizio e a tutti gli atti del fascicolo del pubblico ministero; che, peraltro, non tutti gli atti contenuti in detto fascicolo, per ciò solo, sono utilizzabili in questa fase del giudizio, in virtù del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità sulla “inutilizzabilità patologica” degli atti processuali (a partire dalla sentenza delle SS.UU Cass. 16 giugno 2000, ricorrente Tammaro); che il giudice è chiamato, quindi, a filtrare il materiale utilizzabile ai fini della decisione, escludendo documenti incomprensibili in alcune parti, prove formatesi in violazione di prescrizione nell’assunzione o in presenza di divieti di assunzione; che, in ogni caso, deve essere fatta una selezione del materiale a disposizione del giudice in sede di udienza preliminare per le determinazioni che quest’ultimo è chiamato ad assumere nel momento di definizione della fase, vista la mole imponente dell’incartamento che riguarda anche fonti non pertinenti rispetto al tema processuale; che, tenuto conto della copiosità del materiale processuale esaminato, della complessità dei temi cruciali della contesa e della esigenza di indicare le specifiche fonti di prova alla base del rinvio a giudizio dei singoli imputati con riferimento ai fatti a loro rispettivamente ascritti, il Giudice è tenuto ad evidenziare in modo comprensibile gli elementi dai quali consegue‚ l’idoneità a sostenere l’accusa in giudizio; che, dal punto di vista del metodo espositivo, l’esposizione non intende programmaticamente esplicitare giudizi di attendibilità, coerenza, logicità e collegamento sulle fonti, ne argomentare sull’inquadramento giuridico delle condotte, assolvendo all’onere previsto dall’art. 429 comma 1 lett. d) c.p.p. sulle questioni principali».

Queste sono le ragioni dell’impegno suppletivo che il GUP avvertì il dovere di assolvere ed è difficile dargli torto: non è così che si adempie all’obbligo di agevolare il contraddittorio tra le parti e di consentire al giudice un consapevole e corretto esercizio della sua funzione.

Ma si scorge ancora qualcosa: è come se, nella visione dei PM titolari dell’indagine, l’ampiezza dello sforzo ricostruttivo compiuto, l’enormità dei dati acquisiti e, soprattutto, la rivendicazione della ricerca della verità come unico faro della loro azione e come investitura etica, siano da soli sufficienti a giustificare la prosecuzione di un’esperienza ineguagliabile, senza la necessità di sottostare ai canoni propri dell’udienza preliminare.

 

[1] Il documento è reperibile a questo link.

[2] Il documento è reperibile a questo link.