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Trattativa Stato-mafia: le vicende collaterali e il loro esito giudiziario

Parte seconda: l’accusa di omessa perquisizione del “covo” di Salvatore Riina
Composition 10, Vassily Kandinsky, 1939, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen, Dusseldorf
Composition 10, Vassily Kandinsky, 1939, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen, Dusseldorf

Questo scritto è stato originariamente pubblicato l'8 aprile 2020 dalla rivista Diritto Penale e Uomo. Viene adesso ripubblicato, per gentile concessione della direzione della predetta rivista, nella rubrica "La linea della palma" di Filodiritto" .

 

2. I processi nei quali sono stati trattati temi connessi alla trattativa

2.1. L’ipotizzata omissione della perquisizione del “covo” di Salvatore Riina (processo a Mario Mori e Sergio De Caprio).

Questo procedimento fu la prima occasione di verifica della tenuta delle proposizioni sulle quali sarebbe stato successivamente fondato il processo per la trattativa Stato-mafia.

La sua iscrizione a ruolo nel registro delle notizie di reato avvenne nel 2004 e la sua definizione dibattimentale avvenne il 20 febbraio del 2006 con la sentenza assolutoria del Tribunale di Palermo che qui si commenta, divenuta immediatamente definitiva per assenza di impugnazioni[1].

L’imputazione fu configurata nella forma del concorso dei due imputati in favoreggiamento continuato, aggravato dalla finalità di agevolazione di Cosa nostra.

Secondo la tesi accusatoria la condotta di reato, immediatamente successiva alla cattura, avvenuta il 15 gennaio 1993, del boss latitante Salvatore Riina nei pressi dell’abitazione sita a Palermo in via Bernini n. 54 in cui era rifugiato da tempo, fu realizzata con plurime attività: assicurando falsamente ai magistrati della Procura di Palermo che l’abitazione sarebbe rimasta sotto stretta osservazione e ottenendo in tal modo l’autorizzazione a differire la sua già programmata perquisizione; disponendo, contrariamente all’impegno preso, l’immediata cessazione del servizio di osservazione e disattivando tutti i servizi di controllo visivo dell’obiettivo; omettendo di comunicare ai PM palermitani la cessazione del servizio; traendo in tal modo in inganno i predetti PM e gli addetti dei reparti territoriali palermitani dell’Arma dei Carabinieri e permettendo ad affiliati di Cosa nostra la rimozione dall’abitazione di ogni oggetto di interesse investigativo.

Il reato fu contestato come commesso a Palermo dal 15 gennaio 1993 in avanti e i due imputati furono chiamati a risponderne nella qualità, il Mori, di vicecomandante del Raggruppamento operativo speciale (ROS) dell’Arma dei Carabinieri e il De Caprio (più noto come Capitano Ultimo) di responsabile della prima sezione del reparto criminalità organizzata.

Questa vicenda processuale, già interessante di per se stessa per aver esplorato uno dei momenti cruciali della reazione istituzionale alla stagione stragista, assume ancora più valore se si considera che il collegio prese esplicitamente in considerazione, e la escluse, la possibilità di qualificare la défaillance investigativa che costituiva il cuore dell’imputazione come un segmento della trattativa tra Stato e mafia.

Si riporta di seguito il pertinente passaggio motivazionale, premettendo che si tratta della parte conclusiva della sentenza, quella in cui il collegio, dopo aver constatato l’esistenza dell’elemento oggettivo del reato nei termini proposti dall’imputazione, passa ad esplorare l’elemento psicologico ed il movente:

«quel che più rileva – ad avviso del Collegio – è che non è stato possibile accertare la causale delle condotte degli imputati. In un processo indiziario, l’accertamento della causale è tanto più necessario quanto meno è grave, preciso e concordante il quadro degli elementi che sorreggono l’ipotesi accusatoria, potendo, se convergente per la sua specificità ed esclusività in una direzione univoca, fungere da dato catalizzatore e rafforzativo della valenza probatoria degli stessi in merito al riconoscimento della responsabilità e così consentire di inferire logicamente, sulla base di regole di esperienza consolidate ed affidabili, il fatto incerto.

È stato accertato che il cap. De Donno a cavallo delle stragi di Capaci e di via D’Amelio prese contatti con Vito Ciancimino, tramite il figlio Massimo che conosceva, per avviare un dialogo e che, insieme all’imputato Mori, si recò ad incontrarlo nella sua casa romana in circa tre o quattro occasioni, in agosto, a fine settembre e nel dicembre 1992, appena prima che venisse tratto in arresto.

Il Ciancimino, inizialmente restio, si decise dopo le stragi a fungere da intermediario per un dialogo con “cosa nostra”, allo scopo di accreditarsi agli occhi dei due ufficiali per poterne trarre vantaggi con riferimento alle sue vicende giudiziarie, che lo vedevano in attesa di una sentenza di condanna definitiva e dunque della prospettiva del carcere.

Trovò un interlocutore con il gotha mafioso nel medico, di cui solo successivamente farà il nome, Antonino Cinà che inizialmente reagì con grande scetticismo ed arroganza all’iniziativa assunta dai carabinieri ma poi, stando a quanto riferito dal Ciancimino nel suo manoscritto “I carabinieri” acquisito al giudizio, gli conferì delega a trattare.

Al nuovo incontro che ebbe luogo a casa sua a fine settembre, arrivato ormai il momento di svelare i termini della proposta, gli ufficiali chiesero la resa dei grandi latitanti Riina e Provenzano limitandosi ad offrire, in cambio, un trattamento di favore per le famiglie.

Fu chiaro, allora, al Ciancimino che in realtà non c’erano i margini per addivenire a nessun accordo e che anche la sua posizione, che giocava sull’ambiguità del suo ruolo di interfaccia tra i carabinieri e la mafia, era ormai irrimediabilmente compromessa, cosa che lo indusse a continuare per suo conto la “trattativa”, prospettando falsamente ai capi mafiosi, da una parte, una soluzione politica per le imprese colpite dal fenomeno “tangentopoli”, ai carabinieri, dall’altra, la sua volontà di inserirsi nell’organizzazione per conto dello Stato, decidendo di collaborare efficacemente con la giustizia […]

È di fondamentale rilievo, nel presente giudizio, accertare quali furono le finalità concrete che mossero il nominato col. Mori a ricercare questi contatti con il Ciancimino.

Al riguardo, le ipotesi astrattamente prospettabili sono due, e cioè che il Mori volesse intavolare un vero e proprio negoziato con l’organizzazione criminale, oppure che, tramite l’allettante (per la mafia) pretesto di voler aprire per conto dello Stato un canale di comunicazione con l’associazione, così da addivenire ad una sorta di “tregua” con importanti concessioni, intendesse solo carpire informazioni utili alle indagini ed alla individuazione del Riina.

Nella prima prospettiva, escluso ogni interesse personale dell’imputato che neppure a livello di sospetto è stato mai avanzato, può ipotizzarsi che la “trattativa” avesse un reale contenuto negoziale, i cui termini fossero, dalla parte mafiosa, la cessazione della linea d’azione delle stragi, dalla parte istituzionale, la garanzia della prosecuzione degli affari criminali dell’ente ovvero la salvaguardia della latitanza di alcuni suoi esponenti, oppositori del Riina (così Bernardo Provenzano), tramite l’assicurazione che la documentazione in possesso del boss corleonese, sempre che, in via ipotetica, contenesse informazioni sugli uni e sugli altri, non sarebbe stata reperita dalle forze dell’ordine.

Già, difatti, è stato osservato che, se pure non è stato possibile accertare l’effettiva esistenza ed il contenuto di questi documenti, gli stessi, verosimilmente, erano presenti nella casa e potevano contenere dati rilevanti sulle attività dell’associazione e su altri affiliati o fiancheggiatori della medesima.

Non può quindi escludersi, sul piano delle deduzioni in astratto, che tali documenti contenessero notizie potenzialmente “ricattatorie” per alcuni soggetti, anche appartenenti alle istituzioni e contigui a “cosa nostra” e che vi fosse tutto l’interesse di esponenti dell’organizzazione criminale ad assicurarsene il possesso, anche per garantirsi un’impunità che, quanto al Provenzano ed al Matteo Messina Denaro (indicato dal Provenzano al Giuffré come possibile consegnatario dei predetti documenti) era all’epoca in atto da lungo tempo.

In quest’ottica la consegna del Riina, fautore delle stragi, potrebbe essere stata il prezzo da pagare volentieri per coloro che, nella mafia, intendessero sbarazzarsi del boss per assumere il comando dell’organizzazione, ed al tempo stesso privilegiassero un’opposizione di basso profilo, più produttiva dal punto di vista della salvaguardia degli interessi economici del sodalizio e della sua stabilità. 

Passando dal piano delle mere congetture a quello delle risultanze probatorie, la consegna del boss corleonese, nella quale avrebbe dovuto consistere la prestazione della mafia, è circostanza rimasta smentita dagli elementi fattuali acquisiti al presente giudizio.

L’istruzione dibattimentale ha, al contrario, consentito di accertare che il latitante non fu consegnato dai suoi sodali, ma localizzato in base ad una serie di elementi tra loro coerenti e concatenati che vennero sviluppati, in primo luogo, grazie all’intuito investigativo del cap. De Caprio. […]

La ricostruzione, coerente e supportata da dati di fatto provati, degli accadimenti relativi allo svuotamento della casa ha consentito di accertare, da una parte, che il complesso di via Bernini fu individuato soltanto grazie alle attività investigative del ROS, dall’altra, che la mafia agì sul “covo” ignorando l’inesistenza del servizio di osservazione ed anzi supponendo che fosse in corso.

Questi elementi consentono, pertanto, di escludere che il latitante venne catturato grazie ad una “soffiata” dei suoi sodali sul luogo ove dimorava, non essendo emerso a sostegno di quest’ipotesi alternativa alcun elemento, neppure di natura indiziaria, se non la stessa supposizione, elaborata a posteriori, sui motivi per i quali furono omessi la perquisizione, prima, ed il servizio di osservazione, poi, sul complesso.

Appare altresì coerente con queste conclusioni la circostanza che neppure si verificò la fine della stagione stragista messa in atto dalla mafia, la quale, anzi, com’è notorio, nel maggio 1993 attentò alla vita del giornalista Maurizio Costanzo e fece esplodere un ordigno a via dei Georgofili a Firenze, nel mese di luglio compì altri attentati in via Pilastro a Milano, a San Giovanni in Laterano ed a San Giorgio al Velabro a Roma, mentre a novembre pose in essere il fallito attentato allo stadio olimpico di Roma.

Se la cattura del Riina fosse stata il frutto dell’accordo con lo Stato, tramite il quale era stata siglata una sorta di “pax” capace di garantire alle istituzioni il ripristino della vita democratica, sconquassata dagli attentati, ed a “cosa nostra” la prosecuzione, in tutta tranquillità dei propri affari, sotto una nuova gestione “lato sensu” moderata, non si comprenderebbe perché l’associazione criminale abbia invece voluto proseguire con tali eclatanti azioni delittuose, colpendo i simboli storico-artistici, culturali e sociali dello Stato, al di fuori del territorio siciliano, in aperta e sfrontata violazione di quel patto appena stipulato 

Anche i progetti elaborati dal Provenzano di sequestrare od uccidere il cap. De Caprio, di cui hanno riferito in dibattimento, in termini coincidenti, i collaboratori Guglielmini, Cancemi e Ganci, appaiono in aperta contraddizione con la tesi della consegna del Riina al ROS.

Se così fosse avvenuto, il boss non avrebbe avuto alcun interesse alla ricerca del capitano “Ultimo”, mentre, da quanto sopra, è stato accertato che effettivamente si cercò di individuarlo, tramite un amico del compagno di gioco al tennis.

Se gli elementi di carattere logico e fattuale di cui sopra sono idonei a smentire l’ipotesi della “trattativa” mafia-Stato avente ad oggetto la consegna del Riina, deve concludersi che più verosimilmente l’iniziativa del gen. Mori fu finalizzata solo a far apparire l’esistenza di un negoziato, al fine di carpire informazioni utili sulle dinamiche interne a “cosa nostra” e sull’individuazione dei latitanti.

Sembra confermare una tale interpretazione anche il rilievo che il comportamento assunto dal cap. De Donno e dall’imputato apparirebbe viziato – ponendosi nell’ottica di una trattativa vera invece che simulata - da un’evidente ed illogica contraddizione, solo se si consideri che gli stessi si recarono dal Ciancimino a “trattare” chiedendo il massimo, la resa dei capi, senza avere nulla da offrire.

Forse, proprio sulla scorta di una tale considerazione, gli uomini di “cosa nostra” credettero che in effetti i due ufficiali fossero disponibili, per conto dello Stato, a sostanziali concessioni nei confronti dell’organizzazione pur di mettere fine alle stragi, rimanendo persuasi della “bontà” della linea d’azione elaborata dal Riina che, difatti, verrà portata avanti anche successivamente all’arresto del boss, sperando, verosimilmente, che si potesse giungere, anche con il “capo” in carcere, ad un “ammorbidimento” della lotta alla mafia portata avanti dalle istituzioni.

Non può non rilevarsi che nella prospettiva accolta da questo decidente l’imputato Mori pose in essere un’iniziativa spregiudicata che, nell’intento di scompaginare le fila di “cosa nostra” ed acquisire utili informazioni, sortì invece due effetti diversi ed opposti: da una parte, la collaborazione del Ciancimino che chiese di poter visionare le mappe della zona Uditore ove si sarebbe trovato il Riina, verosimilmente nell’intento di prendere tempo e fornire qualche indicazione in cambio di un alleggerimento della propria posizione giudiziaria; dall’altra, la “devastante” consapevolezza, in capo all’associazione criminale, che le stragi effettivamente “pagassero” e lo Stato fosse ormai in ginocchio, pronto ad addivenire a patti.        

Il Collegio ritiene, infine, di non poter condividere la prospettazione della pubblica accusa che, sulla base di imprecisate “ragioni di Stato”, ha chiesto di affermare la penale responsabilità degli imputati per il reati di favoreggiamento non aggravato, da dichiararsi ormai prescritto.

Tali “ragioni di Stato” non potrebbero che consistere nella “trattativa” di cui sopra intrapresa dal Mori, con la consapevolezza, acquisita successivamente, del De Caprio e, dunque, lungi dall’escludere il dolo della circostanza aggravante varrebbero proprio ad integrarlo, significando che gli imputati avrebbero agito volendo precisamente agevolare “cosa nostra”, in ottemperanza al patto stipulato e cioè in esecuzione della controprestazione promessa per la consegna del Riina.

La “ragione di Stato” verrebbe dunque a costituire il movente dell’azione, come tale irrilevante nella fattispecie ex art. 378 C.P., capace non di escludere il dolo specifico ex art. 7 L. n. 203/91, bensì di svelarlo e renderlo riconoscibile, potendo al più rilevare solo come attenuante ove se ne ammettesse la riconducibilità alle ipotesi di cui all’art. 62 C.P., comunque escluse dal giudizio di comparazione.

La mancanza di prova sull’esistenza di questi “motivi di Stato” che avrebbero spinto gli imputati ad agire, ed anzi la dimostrazione in punto di fatto della loro inesistenza ed incongruenza sul piano logico, per le considerazioni già esposte – considerato, altresì, che la controprestazione promessa avrebbe vanificato tutti gli sforzi investigativi compiuti sino ad allora dagli stessi imputati, anche a rischio della propria incolumità personale, e lo straordinario risultato appena raggiunto - non consente di ritenere integrato il dolo della fattispecie incriminatrice in nessuna sua forma.

È palese, infatti, che se vi fu “ragione di Stato” si intese “pagare il prezzo” dell’agevolazione, per il futuro, delle attività mafiose, pur di “incassare” l’arresto del Riina, con la piena configurabilità del favoreggiamento aggravato, ma se non vi fu, gli imputati devono andare esenti da responsabilità penale.

Appare, difatti, logicamente incongruo, già su un piano di formulazione di ipotesi in funzione della verifica della prospettazione accusatoria in ordine alla sussistenza del reato base di favoreggiamento con dolo generico, individuare in soggetti diversi dall’organizzazione criminale nel suo complesso coloro che gli imputati avrebbero inteso agevolare tramite la mancata osservazione del residence di via Bernini, così volendo aiutare individui determinati invece che l’associazione nella sua globalità.

L’impossibilità, già da un punto di vista oggettivo, di discernere i soggetti favoriti (la Bagarella neppure era indagata) dall’associazione mafiosa si ripercuote sul versante soggettivo, apparendo inverosimile che gli ausiliatori abbiano agito non al fine di consentire alla mafia la prosecuzione dei suoi affari, in ossequio al “patto scellerato”, ma volendo solo aiutare, nel momento stesso in cui procedevano all’arresto del capo dell’organizzazione, e senza alcuna apparente ragione, determinati affiliati ad eludere le investigazioni o le ricerche.

Ne deriva che, non essendo stata provata la causale del delitto, né come “ragione di Stato” né come volontà di agevolare specifici soggetti, diversi dall’organizzazione criminale nella sua globalità, l’ipotesi accusatoria è rimasta indimostrata, arrestandosi al livello di mera possibilità logica non verificata.

La mancanza di una prova positiva sul dolo di favoreggiamento non può essere supplita dall’argomentazione per la quale gli imputati, particolarmente qualificati per esperienza ed abilità investigative, non potevano non rappresentarsi che l’abbandono del sito avrebbe lasciato gli uomini di “cosa nostra” liberi di penetrare nel cd. covo ed asportare qualsiasi cosa di interesse investigativo e dunque l’hanno voluto nella consapevolezza di agevolare “cosa nostra”.

Sul versante del momento volitivo del dolo, una simile opzione rischierebbe di configurare un “dolus in re ipsa”, ricavato dal solo momento rappresentativo e dalla stessa personalità degli imputati, dotati di particolare perizia e sapienza nella conduzione delle investigazioni.

Ma, quanto al momento rappresentativo, già è stato precisato che il servizio di osservazione non sarebbe valso ad impedire l’asportazione di eventuale materiale di interesse investigativo, che poteva essere evitata solo con l’immediata perquisizione, quanto alle abilità soggettive degli imputati, esse non possono valere a ritenere provata una volontà rispetto all’evento significativo del reato che è invece rimasta invalidata dall’esame delle possibili spiegazioni alternative.

Ne deriva che il quadro indiziario, composto da elementi già di per sé non univoci e discordanti, è rimasto nella valutazione complessiva di tutte le risultanze acquisite al dibattimento e tenuto conto anche della impossibilità di accertare la causale della descritta condotta, incoerente e non raccordabile con la narrazione storica della vicenda come ipotizzata dall’accusa e per quanto è stato possibile ricostruire in dibattimento.

In conclusione, gli elementi che sono stati acquisiti non consentono ed anzi escludono ogni logica possibilità di collegare quei contatti intrapresi dal col. Mori con l’arresto del Riina ovvero di affermare che la condotta tenuta dagli imputati nel periodo successivo all’arresto sia stata determinata dalla precisa volontà di creare le condizioni di fatto affinché fosse eliminata ogni prova potenzialmente dannosa per l’associazione mafiosa.

Per le pregresse considerazioni, entrambi gli imputati devono essere mandati assolti per difetto dell’elemento psicologico».[2]

La chiarezza della motivazione renderebbe presuntuoso qualunque commento aggiuntivo sicché ci si può limitare a riepilogare i punti salienti della decisione, intendendo per tali i fatti accertati come esistenti o inesistenti dal collegio giudicante.

Il dato essenziale accreditato dalla sentenza è che non vi fu alcun collegamento tra l’accertata presa di contatto tra esponenti del ROS (Mori e il suo subordinato De Donno) e Vito Ciancimino per il tramite del figlio Massimo e la cattura di Salvatore Riina.

I colloqui tra i due ufficiali e l’ex sindaco di Palermo servirono infatti a far credere a quest’ultimo che fosse ipotizzabile una qualche negoziazione tra le istituzioni e Cosa nostra ma l’unico intento dei primi era di ottenere informazioni utili sulle dinamiche interne dell’organizzazione criminale e sui movimenti dei più importanti latitanti.

L’iniziativa di Mori e De Donno non faceva quindi parte di una più estesa strategia istituzionale finalizzata ad un accordo con Cosa nostra e non le si addiceva affatto di conseguenza la copertura di una sorta di ragion di Stato che peraltro, se fosse davvero esistita, sarebbe stata penalmente rilevante e avrebbe giustificato la condanna dei due imputati.

La cattura di Riina non avvenne pertanto in conseguenza di tale interlocuzione né il boss fu tradito da altri affiliati di Cosa nostra ma fu invece dovuta alle capacità investigative di De Caprio.

È vero infine che le decisioni operative prese dai due imputati dopo l’arresto di Salvatore Riina provocarono un danno oggettivo e rilevante alle investigazioni avendo consentito ai sodali del boss di trafugare senza disturbi il materiale, verosimilmente compromettente, che questi deteneva nel suo rifugio. Ciò nondimeno, a fronte dell’impossibilità di attribuire agli errori compiuti il significato proposto dall’accusa pubblica, si imponeva l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato, difettando la prova dell’elemento soggettivo.

 

[1] La sentenza del Tribunale di Palermo è reperibile a questo link.

[2] Idem, pp. 108 ss.