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Vecchi e giovani

Ronald Reagan
Ronald Reagan

Una meditazione sull’appena eletto Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, con echi e frange che riportano a una sorta di odierno eterno presente. Era il novembre del 1980.

 

Leggo e contemplo le scene dell’Inauguration di Reagan, senza permettermi commenti pettegoli: grato, però, di aver sottratto per un attimo il posto d’onore delle nostre cronache ai brigatisti, ai docenti delinquenti, alle fidanzate dei docenti, ai terroristi pentiti, alle fidanzate, madri e spose dei pentiti, ai capi storici, ai capi dei capi. C’è pure, nel mondo, qualche paese dove il menù della storia non è composto soltanto di terremoti o banditi. Qualche paese, dove qualcosa cambia.

Come cambia , ecco il problema. Più che indiscreto, sarebbe futile chiedersi se il nuovo Presidente si rendeva conto, mentre ripeteva la formula letta dal pittoresco pastore presbiteriano, che quella “Constitution” cui giurava fedeltà, più che un nobile relitto storico, è un feticcio pericoloso, che impedirebbe, se applicata alla lettera, se applicata alla lettera, di governare l’ America quale è diventata nei due trascorsi secoli da allora: quella “Constitution” che, brandita come l’arma della vendetta lungo la Via crucis di Richard Nixon, è lo specchio dell’atmosfera puritana, di cui doveva perpetuare i virtuosi sentimenti e le pie illusioni.

Oggi, l’illuminismo utopistico dei Padri fondatori riflette soltanto la mostruosa inadeguatezza dello Stato che pretendeva di cristallizzare per l’eternità a misurarsi con gl’immensi compiti di un impero del ventesimo secolo. Intrisa, com’è, dell’odio per il segreto nelle cose del governo e della diplomazia, dell’orrore puritano per la “ragion di Stato”, che i Padri fondatori riguardavano come un ammasso di turpitudini e di vizi europei, istinto di cinismo papista.

Grazie allo spirito della “Constitution”, la morale ufficiale della morale ufficiale della politica americana è rimasta ferma all’infanzia illuminista, alle fisime di un’età in cui Federico il Grande intratteneva rapporti affettuosi con un Voltaire, una confutazione di Machiavelli.

Quella “Constitution”, pensavo guardandolo giurare, potrebbe autorizzare domani qualsiasi tanghero comunista o radicale, purché coperto d’una toga di giudice, ad ingiungere al Presidente di rivelargli e consegnargli qualunque documento del Governo. Se rifiutasse, il Presidente potrebbe dover affrontare un calvario simile a quello che magistratura e stampa, coalizzate e coordinate, fecero passare a Nixon.

Magistratura e stampa, dico. Perché non c’è dubbio che in quella forsennata caccia che ridusse in pezzi e Nixon e, con lui, il potere presidenziale, i due “poteri” alleati cercarono, e si presero con dovizia trionfale, l’uno, rivincite di vanità e prestigio lungamente covate, per una “parità” che secondo i giudici era stata ingiustamente dimenticata; l’altro, vendette lungamente attese. Dovevano punire Nixon in nome della mafia radicale dei miliardari progressisti della costa orientale, dei politici bostoniani, degli accademici delle grandi università sinistreggianti. Gente che Kennedy aveva insediato alla Casa Bianca e Johnson scacciato, aspettava, con l’immolazione di Nixon, la via del ritorno.

Quel Nixon che, appena eletto al Congresso del 1947, aveva denunziato uno di loro, Alger Hiss, ch’era stato consigliere speciale di Roosvelt a Yalta, e l’aveva fatto condannare a cinque anni per false testimonianze e attività a favore de russi, fin dal 1938. Eh, la storia ha le code lunghe.

Quando mi occupavo assiduamente di questi temi, avevo cominciato a buttare giù gli appunti di un saggio, che poi non scrissi. Volevo dimostrare che la crisi che aveva distrutto Nixon non era un caso isolato: il meccanismo che l’aveva permessa rimaneva intatto, il caso poteva ripetersi. Perché, sarà bene ricordare: astraendo da indiscutibili indelicatezze, avidità, ed errori dell’uomo privato Nixon (ma qualunque altro uomo, la cui vita pubblica e privata fosse passata al setaccio da un’indagine altrettanto ossessiva e spietata, lascerebbe tra le maglie della rete molti avanzi sgradevoli), tutta la selva d’inchieste, procedure e scandali che s’intitolarono “Watergate”, ebbe come fonte comune la necessità, in cui presidenza e governo degli Stati Uniti si trovarono, di ricorrere a metodi illegali e incostituzionali per difendere segreti e, dunque, interessi dello Stato: che venivano divulgati per ragioni “ideologiche”, o ancora più abbiette, che la “Constitution” era inadeguata a reprimere e perseguire.

Da questa sola origine scaturirono tutti gli abusi, le scorrettezze, e infine (oh, scandalo) “la menzogna”. Nixon fu accusato di avere mentito per soffocare lo scandalo e, più tardi (allora si trattava del Cile), Kissinger fu accusato di “avere mentito alla commissione Inquirente del Senato”. Perché mentirono? Perché non avevano altro modo di compiere il loro dovere; che era di mantenere (almeno loro) il segreto.

La tecnica della distruzione apparve, infatti, questa: costringere il governo a mentire, e poi perseguirne i membri per mendacio.

IL meccanismo è pericolosamente intatto. Ecco che cosa pensavo, osservatore ormai lontano, contemplando Ronald Reagan che giurava fedeltà alla Costituzione.

Il teme non è nuovo. Il disfattismo è un rovescio patologico dell’imperialismo. Nell’antica Roma, i Mansfield, i Cooper, i Church di allora chiesero l’incriminazione di Giulio Cesare, per una mancanza di fede promessa ai Galli, e proposero la consegna del Proconsole al nemico, che lo processasse secondo le sue leggi.

Ma lo Stato romano sopravvisse, a prezzo di una guerra civile, del mutamento della Costituzione (che, per fortuna, non ebbe mai, come gl’inglesi, un documento scritto) e di tutte le sue istituzioni, che rimasero soltanto di nome le stesse. Gli Stati che hanno l’istinto della sopravvivenza sono guidati da moti profondi, che trovano gli uomini più imprevisti per incarnarli. Mi chiedevo se Reagan, al di là del patetico volontarismo di “America in piedi!”, possegga questo istinto.

Rovesciando un incontrollato luogo comune, oso affermare che almeno un punto a suo favore, egli lo possiede: è il più vecchio dei Presidenti di questo secolo. Kennedy fu il più giovane.

Sono i vecchi che hanno il vero coraggio delle grandi decisioni, là dove i giovani, vanitosi e opportunisti, esitano, paventano e traccheggiano: Controllate la storia, tranne poche eccezioni, se volete.

Da “Il Giornale”, 23 gennaio 1981