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Venezia

Venezia
Ph. Fulvia Tilli / Venezia

La fragile e unica bellezza di Venezia, da sempre minacciata, da sempre ammirata, in un ritratto impietoso ma a tutt’oggi veritiero, scritto con la passione di un amante.

 

Scrisse uno storico dell’arte, in Inghilterra, alcuni anni fa, che durante la sua storia, “Venezia è stata minacciata da due nemici implacabili, il mare e la barbarie”.

Il mare, quasi ripugna di chiamarlo nemico. È il creatore di Venezia, ne fu il difensore e il custode. Ma ora, le sue acque, che lambiscono le bianche pietre d’Istria, i marmi veronesi, i rossi mattoni cotti, ora non tengono più agli antichi patti, quasi fossero scaduti. Le pietre gloriose traggono giù la vecchia signora, le esili lingue di terra che Cassiodoro vedeva affiorare sulle acque, prima che la città sorgesse, non reggono allo sforzo. Da vent’anni assistiamo all’andirivieni degli “esperti” (esperti, poi, per davvero?) in un vociare di proposte, tra la clinica d’avanguardia e il lamento funebre. Pochi volenterosi restauri per lo più curati e finanziati da enti stranieri, non velano la realtà. Crollano disfatte statue incenerite dall’aria satura di tossici, più fatali ancora ai vecchi marmi che ai polmoni umani. La regione si sente male e s’accascia. Eppure, deve recitare ogni giorno la commedia della buona salute. Ogni alba le rinnova il trucco per la faticosa recita che incombe. Non sempre riesce a nascondere le magagne, ché in Volta di Canal ristagnano sempre gli orrendi rifiuti vaganti sulle acque. Ma i barbari in arrivo hanno fretta, ai particolari non fanno caso, la salute della vecchia dama non interessa, basta che regga, in onor loro, un’altra giornata.

I barbari. La splendida prosperità della Dominante aizzò Dalmati e Turchi, Genovesi e Francesi, i quali ultimi, seppure perpetrarono alcuni gravi furti (alcuni falliti, come quello dei quattro cavalli bronzei, poi ritornati; altri riusciti, come il capolavoro del Veronese sottratto a San Giorgio Maggiore) lasciarono in cambio la splendida eredità dei giardini napoleonici, e di quelle aggiunte neoclassiche che suonano come un giusto finale alla lunga vicenda architettonica della città. Gli Austriaci non poterono far molto, ma fu sotto di loro che Venezia cessò all’improvviso di essere un’isola una manciata di centodieci isole. Parve un miracolo dei nuovi tempi, e divenne una fabbrica di guai.

Infine, vennero gl’Italiani. E, sia detto per la verità, furono i padroni peggiori. I guasti portati da loro avrebbero fato crepare d’invidia un bravo turco, nemico giurato di Venezia. La fine dell’Ottocento, con la sua rugiadosa demagogia edilizia, le regalò le prime case popolari, le fabbriche più tetre, più abbiette che le antiche isole avessero mai visto sulla loro umida pelle. Poi vennero tutti gli altri, pubblici e privati: gl’instancabili distruttori degli orti e dei giardini, i sopraelevatori di grottesche gabbie, sopra il caldo mare di tetti rosso-bruno dell’antica città. I costruttori di alberghi volgari, di fabbriche stolte, gli innovatori che avevan tolto Venezia in cambio d’una città da mezzo Oriente. Vennero gl’interratori delle lagune, per ricavarne sempre nuove aree fabbricative.

E infine, i maniaci del motore a scoppio del progresso, che fracassarono l’isola verde dei Giardini Popadopoli per erigervi quel baraccamento sudamericano che oggi si chiama il Piazzale Roma. L’invasione qui ha la sua testa di ponte. Che non Roma sola, ma l'Italia intera, sia ormai in bilico tra l’Europa e il Terzo, il Quarto, Il Quinto, non so più quale mondo, bisogna vederlo qui. Come se una gigantesca draga ne depositasse sempre nuovi carichi, pescandoli da inesauribile profondità, le orde giungono sul ponte, a bordo d’innumerevoli torpedoni, che scaricano e ripartono verso la terraferma, dove si metteranno in fila, in attesa. Compatte, le orde si avventano vocianti sulla vecchia signora, guidate da sergenti, in calzoni o in gonnella, che agitano bandierine per non farsi perdere dalla truppa. Le strette calli: i ponti esplodono nella ressa: l’incontro di due orde che procedano in senso opposto produce momenti di panico, Piazza San Marco è il logoro teatro di una miserabile recita di turbe pelose e cenciose, che spargono carte unte e rifiuti.

Fuggire, nascondersi, è l’istinto del vecchio innamorato, che i lineamenti della vecchia signora non riconosce più. Finché l’amico, a sera, non lo porti a fare un giro sul battello. Dall’acqua scura, notturna, i barbari non si scorgono quasi più, le luci creano complici aloni violetti, crepe e ferite restano nascoste, la notte prepara il trucco per la recita di domani. La turistica marmaglia che la ricopre serve, dopotutto, a chi vuole illudersi, e dimenticare che la vecchia signora, per quanto ospitale, è sempre più malata e, pezzo per pezzo, se ne va.

Da “Il Giornale”, 14 settembre 1979