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Ancora sulla “mafia silente”: escluso il contrasto interpretativo

mafia silente
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Indice

1. La questione posta alle Sezioni unite penali

2. Il provvedimento di restituzione

3. Le ragioni di critica al provvedimento di restituzione

4. Conclusioni sulla teorizzazione della mafia silente

 

Non è bello che tutti si debba pensare allo stesso modo,

è la differenza di opinioni quella che rende possibili le corse dei cavalli. 

Mark Twain

 

1. La questione posta alle Sezioni unite penali

Ad aprile di quest’anno, la prima sezione penale della Corte di cassazione ha trasmesso gli atti alle Sezioni unite chiedendo di chiarire «Se sia configurabile il reato di cui all’articolo 416-bis cod. pen. con riguardo a una articolazione periferica (cd. “locale”) di un sodalizio mafioso, radicata in un’area territoriale diversa da quella di operatività dell’organizzazione “madre”, anche in difetto della esteriorizzazione, nel differente territorio di insediamento, della forza intimidatrice e della relativa condizione di assoggettamento e di omertà, qualora emerga la derivazione e il collegamento della nuova struttura territoriale con l’organizzazione e i rituali del sodalizio di riferimento». Per approfondimenti sul tema si rinvia al relativo contributo pubblicato su Filodiritto.

Il presidente aggiunto della Corte, con un provvedimento del 17 luglio 2019 emesso ai sensi dell’articolo 172 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, ha restituito gli atti alla sezione rimettente, escludendo l’esistenza del contrasto interpretativo rappresentato nell’ordinanza di rimessione.

 

2. Il provvedimento di restituzione

Le parti di interesse delle tre pagine dell’atto presidenziale si riducono a pochissime proposizioni.

Le si riporta testualmente: «A ben vedere, dunque, l’asse ermeneutico si sposta sul tema della corretta valutazione delle evidenze probatorie, trattandosi di accertare le caratteristiche organizzative della “cellula”, i suoi rapporti con la “casa madre” nonché le forme di esteriorizzazione del metodo mafioso che, come affermato dalla sentenza Barranca, può manifestarsi anche in modo “silente”, cioè senza ricorrere a forme eclatanti (come omicidi o attentati di tipo stragistico) «ma avvalendosi di quella forma di intimidazione, per certi aspetti più temibile, che deriva dal non detto, dall’accennato, dal sussurrato, dall’evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere». Tali affermazioni non risultano particolarmente distanti dai principi affermati da Sez. 6, n. 41772 del 13/06/2017, Vicidomini, ascritta all’opposto orientamento, che escludendo la natura di reato associativo “puro” del reato di cui all’articolo 416-bis cod. pen., ha ribadito la necessità che l’associazione abbia già conseguito, nell’ambiente in cui opera, un’effettiva capacità di intimidazione esteriormente riconoscibile, che può discendere dal compimento di atti anche non violenti e non minatori, che, tuttavia, richiamino e siano espressione del prestigio criminale del sodalizio […] In definitiva, il prisma rappresentato dai variegati arresti sul tema, può sostanzialmente ricondursi ad unità là dove si considera il presupposto ermeneutico comune che anche nel caso della delocalizzazione richiede, per poter riconoscere la natura mafiosa dell’articolazione territoriale, una capacità intimidatrice effettiva ed obiettivamente riscontrabile».

Nell’opinione presidenziale, dunque, l’allarme lanciato dal collegio rimettente non ha ragion d’essere poiché sull’unica questione che conti, vale a dire il modo in cui deve essere esteriorizzato il metodo mafioso, la giurisprudenza della Cassazione penale è sostanzialmente unitaria ed esige una rigorosa dimostrazione della capacità di intimidazione.

 

3. Le ragioni di critica al provvedimento di restituzione

Il provvedimento presidenziale si fonda su un preciso ed esplicito presupposto: allorché si contesti l’esistenza di una “cellula mafiosa delocalizzata”, cioè di un gruppo criminale mafioso costituito in un territorio diverso da quello d’origine, i giudici di legittimità affermano senza differenze significative la necessità di provare concrete manifestazioni del metodo mafioso; la prova può discendere o dalla diffusa consapevolezza del collegamento della cellula con la casa madre o dal compimento nel territorio di insediamento di condotte tipicamente mafiose.

Basta però una breve rassegna giurisprudenziale per constatare che gli standard probatori alternativi elencati dal provvedimento in esame sono in più di un caso sostituiti da presunzioni e richiami a presunti fatti notori.

Si richiamano anzitutto Cass. pen., sez. 5, 31666/2015, Bandiera ed altri e Cass. pen. sez. 2, 29850/2017, Barranca ed altri, cioè due delle decisioni più emblematiche dell’indirizzo contestato dalla sezione che ha chiesto l’intervento delle Sezioni unite.

La sentenza Bandiera attribuisce un’elevata importanza al fatto notorio sul quale viene costruito un vero e proprio sillogismo: la ‘ndrangheta è presente in quasi tutto il territorio nazionale; i mass media hanno diffuso e amplificato la sua sinistra fama e la violenza di cui essa è capace; il linguaggio della ‘ndrangheta e la sua valenza intimidatrice sono universalmente noti e in grado di produrre i loro effetti tipici in tutte le aree territoriali in cui essa è presente.

Sicché «pretendere che, in presenza di simile caratterizzazione delinquenziale, con [in]confondibile marchio di origine, sia necessaria la prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento od omertà è, certamente, un fuor d’opera. Ed infatti, l’immagine di una ‘ndrangheta cui possa inerire un metodo “non mafioso” rappresenterebbe un ossimoro, proprio in quanto il sistema mafioso costituisce l’”in sé” della ‘ndrangheta, mentre l’impatto oppressivo sull’ambiente circostante è assicurato dalla fama conseguita nel tempo da questa stessa consorteria».

Una conclusione condivisibile, addirittura scontata: non può esistere, per definizione, un organismo criminale di ‘ndrangheta che non si serva del metodo mafioso e non possegga una capacità di intimidazione in grado di generare assoggettamento e omertà in chi la subisce. È questo infatti il paradigma tipico della fattispecie associativa mafiosa e non è concepibile che vi si possa associare un aggregato che non lo riproduce integralmente.

La forza dimostrativa del sillogismo, però, convince assai meno se si prendono in considerazione gli elementi che, in successivi passaggi, il collegio della sentenza Bandiera ha considerato idonei a dimostrare il riverbero esterno della mafiosità al quale collegare la diffusa consapevolezza della mafiosità del gruppo mafioso.

Li si cita uno per uno:

modulo organizzativo della neo-formazione,

tipici rituali di affiliazione,

ripartizione di ruoli,

detenzione di manoscritti inneggianti alla ‘ndrangheta,

imposizione di regole interne la cui trasgressione veniva sanzionata,

riunioni degli adepti a fini organizzativi,

viaggio in Calabria di una delegazione del gruppo allo scopo di ottenere l’autorizzazione all’apertura di un nuovo “locale” di ‘ndrangheta.

Sono tutti elementi significativi di una condizione mafiosa ma è indiscutibile che la loro valenza si esaurisce per intero all’interno del gruppo, poiché nessuno di essi ha implicato comunicazioni con individui estranei.

Si è quindi distanti dal fatto notorio, cioè la nozione di fatto che, secondo l’articolo 115, comma 2, cod. proc. civ., rientra nella comune esperienza.

Cass. pen. sez. 6, 30181/2013 lo descrive in questi termini: «per aversi fatto notorio occorre, in primo luogo, che si tratti di un fatto che si imponga all’osservazione ed alla percezione della collettività, di modo che questa possa compiere per suo conto la valutazione critica necessaria per riscontrarlo, sicché al giudice non resti che constatarne gli effetti e valutarlo soltanto ai fini delle conseguenze giuridiche che ne derivano; in secondo luogo, occorre che si tratti di un fatto di comune conoscenza, anche se limitatamente al luogo ove esso è invocato, o perché appartiene alla cultura media della collettività, ivi stanziata, o perché le sue ripercussioni sono tanto ampie ed immediate che la collettività ne faccia esperienza comune anche in vista che della sua incidenza sull’interesse pubblico che spinga ciascuno dei componenti della collettività stessa a conoscerlo».

Ora, se si può tranquillamente riconoscere che in larga parte del territorio nazionale si sappia cos’è la ‘ndrangheta, intesa come fenomeno criminale di portata generale, e di quali strumenti si serva, sembra per contro inverosimile che la percezione dell’uomo comune, dovunque egli viva e operi, si estenda alla conoscenza della complessa geografia della ‘ndrangheta, di come sia dislocata sul territorio, di quali organismi stanziati in certe regioni siano collegati ad altri in certe altre regioni, che tipo di legami vi siano in concreto e quale intensità e cogenza li caratterizzi.

Qui il notorio non vale più e la sua affermazione equivale al riconoscimento di un’indebita scorciatoia probatoria che altera sensibilmente l’equilibrio tra le parti processuali.

Analoghe perplessità desta la sentenza Barranca. 

Si consideri ad esempio il passaggio testuale che segue: «I servizi di appostamento effettuati in collaborazione con l’autorità tedesca e le conversazioni intercettate […] hanno consentito di attestare la radicata presenza in Germania di molteplici sodalizi articolati in “società, locali e ‘ndrine” - tutti dipendenti dal “Crimine di Polsi” - ed il distacco di alcuni affiliati; inoltre, l’esistenza di cariche e progressioni di grado e di attriti tra sodali per il predominio territoriale. Tali gruppi criminali utilizzavano gli stessi schemi, adottavano le medesime regole, erano in definitiva strutturati seguendo gli identici modelli organizzativi dell’associazione di ‘ndrangheta calabrese. Proprio detta ripetizione di regole e schemi, oltre ai numerosi contatti tra i rappresentanti dei gruppi tedeschi e i vertici del “Crimine di Polsi”, hanno consentito di ritenere i sodalizi radicatisi in Germania delle articolazioni di ‘ndrangheta dotate all’estero di una certa autonomia per la gestione dei propri affari ma aventi con la casa madre calabra un rapporto di sostanziale dipendenza, sintomatica di un’unitarietà mafiosa. La forza d’intimidazione ed il controllo del territorio ex articolo 416 bis cod. pen. è stata correttamente rapportata alla possibilità - tutt’altro che astratta – per l’associazione nella sua articolazione estera di utilizzare metodi e dinamiche proprie della ‘ndrangheta per raggiungere scopi criminali, contando sull’appoggio della struttura centrale e accrescendo la capacità operativa e le potenzialità di azione del sodalizio nel suo complesso; la disponibilità di armi […] e di soldi da dividere […] sono aspetti che confermano l’operatività sul territorio della cellula tedesca».

Va riconosciuto che l’accusa ha offerto la prova dell’esistenza di collegamenti e affinità ideologiche ed organizzative tra le cellule tedesche e la casa madre. Manca però qualsiasi traccia della diffusa consapevolezza di tali collegamenti nella comunità estera di insediamento o, in alternativa, della commissione di condotte dal chiaro marchio mafioso.

Quel «presupposto ermeneutico comune che anche nel caso della delocalizzazione richiede, per poter riconoscere la natura mafiosa dell’articolazione territoriale, una capacità intimidatrice effettiva ed obiettivamente riscontrabile» ha in realtà ben poco di comune.

 

4. Conclusioni sulla teorizzazione della mafia silente

Si consideri che, ai sensi dell’articolo 65 dell’Ordinamento giudiziario, la Corte di cassazione ha il compito di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo nazionale.

Si consideri ancora che, ai sensi dell’articolo 172, comma 1, delle disposizioni di attuazione del codice procedura penale, «il presidente della corte di cassazione può restituire alla sezione il ricorso qualora siano stati assegnati alle sezioni unite altri ricorsi sulla medesima questione o il contrasto giurisprudenziale risulti superato».

Il provvedimento presidenziale di restituzione degli atti pare inappropriato rispetto ad entrambe le disposizioni.

Permette infatti, sulla base di una motivazione assai discutibile, che permanga una situazione di oggettivo e grave contrasto sull’applicazione di una norma incriminatrice cui conseguono trattamenti sanzionatori di elevata asprezza.

È emesso sulla base di una personalissima interpretazione del concetto di superamento del contrasto che, verosimilmente, è destinata ad essere presto smentita.

La teorizzazione della “mafia silente” continuerà dunque a dividere gli interpreti, chi sarà accusato di partecipare a un gruppo criminale silente saprà che nel suo caso l’uniforme interpretazione della legge è solo un artificio retorico e il requisito della prevedibilità delle decisioni giudiziarie resterà dimenticato in un angolo.