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Appartenenza

Sydney
Ph. Antonio Capodieci / Sydney

“L’uomo è un animale sociale”

Aristotele, Politica I

Quando si parla di collaborazione, come lavoro di squadra, è inevitabile dare per scontato che la sua attivazione sia strettamente connessa allo sviluppo del senso di appartenenza al gruppo: infatti, è sicuro che esso faccia germogliare un clima adeguato per produrre insieme qualcosa di nuovo e creativo.  Per favorire ciò, ad esempio, Luca Attias ad ogni nuovo collaboratore scrive una lettera per informarlo, in 7 punti, sul funzionamento e sulle idee del gruppo di lavoro, “per far sì che si operi con entusiasmo in un clima sereno e collaborativo” (Link).

I gruppi hanno una loro vita, variamente mutevole: nascono, si sviluppano, si mantengono nel tempo oppure si sciolgono. La loro esistenza, in tutti i tempi, si fonda sul dato che l’uomo per natura tende ad aggregarsi ad altri individui: la tendenza alla coesione, comune fenomeno gruppale, può portare alla crescita in ogni individuo del senso di appartenenza ad un club, ad un gruppo di lavoro, ad un’azienda, ad un’istituzione e così via.

Uno dei fattori che sostengono la disponibilità ad impegnarsi in un lavoro, a prescindere dalla remunerazione, è indicato da G.P. Quaglino, proprio nel “legame di appartenenza alla comunità che… si consolida” attraverso le significative relazioni interpersonali che si intrattengono.

Il senso di appartenenza è invocato in tutti i testi sulla vita organizzativa degli ambienti di lavoro, sia in generale in tutti i contributi che trattano l’argomento gruppi.

L’individuo adulto, tuttavia, non è strettamente vincolato e determinato dalla spinta alla coesione, può fare delle proprie scelte: decidere se lavorare con alcuni o con altri, se aderire o meno ad un team, se chiedere di entrare in una determinata istituzione, se proporsi per un’attività o una diversa, delimitando il campo di osservazione al lavoro, ma ciò vale per tanti ambiti della vita quotidiana.

Nella sua vita, però, è sempre stato libero di scegliere, pur tenendo conto dei limiti inevitabili che ci condizionano?

Se pensiamo, banalmente, alla squadra per cui facciamo il tifo, ci accorgiamo che una volta scelta la “squadra del cuore”, di solito nell’infanzia, è difficile anzi pressoché impossibile modificarla negli anni successivi. Si potrebbe dire che quando c’è di mezzo una “passione”, si è molto assoggettati ad essa, i nostri gradi di libertà si riducono parecchio, e poi è socialmente impensabile che uno juventino possa diventare interista o milanista o romanista o laziale e viceversa. Il tifo per una squadra diventa una parte dell’identità individuale, strettamente connessa all’appartenenza emotiva ad un gruppo (città, nazione) che si attiene allo schema rigido e coerente amico/nemico. È un modo di funzionare che si appoggia sulla cosiddetta mentalità di gruppo, costituita da un grumo di emozioni intense, che i singoli inconsapevolmente condividono e che hanno una parte determinante nella sua organizzazione e nella definizione dei suoi obiettivi. Qualora sia esasperata e si colleghi con aspetti aggressivi che possono arrivare fino all’odio, prevalendo sugli aspetti razionali, la mentalità di gruppo può mostrare la faccia preoccupante della stigmatizzazione di coloro che sono considerati diversi per alcune caratteristiche di immediato riconoscimento (i simboli, le bandiere, l’etnia, ecc).

Il senso di appartenenza, così importante nella vita sociale di ogni persona e per la buona qualità della sua vita, può mostrare l’altra faccia della medaglia, come si dice, ovvero essere la base di patti vincolanti per il male.

È superfluo ricordare che se non va di pari passo con l’etica, la razionalità, la flessibilità del pensiero, la gestione virtuosa delle emozioni del gruppo, diventi addirittura un ostacolo alla creatività.

Quale può essere allora il senso di questo bisogno di appartenere dell’individuo, così pressante e costante? Qual è il significato di un modo di ragionare che può contenere in sé schemi cognitivi affatto razionali?

Diventa suggestivo pensare che abbiamo a che fare con modi di funzionamento mentale arcaici ed immaturi, irrazionali ed emotivi, che perdurano nel tempo e sono presenti in qualsiasi età, con una diversità di ampiezza e di vario grado. Se utilizziamo il concetto biologico di neotenia, che indica l’esistenza in una fase di sviluppo avanzato dell’essere vivente di aspetti presenti nelle età precedenti, intravvediamo in tanti comportamenti individuali e di gruppo (che amplifica talora a dismisura atteggiamenti, pregiudizi, impulsività del singolo, facendo quindi vedere meglio alcuni suoi tratti) l’espressione di bisogni impellenti dei primi anni di vita: tra questi vanno ricordati quello di attaccamento, di contatto fisico, di dipendenza assoluta come necessità.

Mantenendoci sempre sul piano biologico, che può essere utilizzato anche nella sua valenza metaforica, osserviamo che l’elemento di base dell’uomo (indipendentemente da differenze di genere, di etnia, di nazionalità) è la sua nascita prematura rispetto alle altre specie: l’immaturità somatica, visibile nei movimenti spastici ed afinalistici, nonché nella presenza di riflessi neurologici che scompaiono con la crescita, per poi ricomparire in seguito a malattie, danni cerebrali o con la vecchiaia, trascina inevitabilmente con sé un’immaturità comportamentale e soprattutto un maggior bisogno di accudimento per poter sopravvivere, a differenza delle altre specie. Questo significa che nel nostro passato e per vario tempo siamo stati in una condizione di debolezza e fragilità, che Freud ha definito con il termine Hilflosigkeit, ovvero stato di impotenza che mette in evidenza la condizione di obiettiva incapacità del cucciolo d’uomo a svolgere azioni volte a soddisfare bisogni primari quali fame e sete.

In qualche modo, crescendo, oscilliamo continuamente fra attaccamento e indipendenza, oscillazione che troverà nelle varie età della vita diverse forme espressive: vorrei qui ricordare il gruppo dei pari, che nell’adolescenza è una forma di aggregazione sociale spontanea tipica, ed ha la funzione di favorire il passaggio dell’adolescente dalla dipendenza dalla famiglia ad una maggiore autonomia dell’età adulta.

Il senso (bisogno) di appartenenza, secondo quanto finora detto, esprimerebbe quella necessità di supporto, sostegno, protezione, che a seconda delle diverse esigenze di ognuno, il gruppo può o potrebbe soddisfare: favorendo, nello stesso tempo, anche lo sviluppo e la stabilità dell’identità.

Una scena del film Pane e cioccolata, commedia drammatica di Franco Brusati, rappresenta bene le radici del tifo/senso di appartenenza e con questa suggestione concludo il mio contributo. Nino Manfredi, che interpreta magistralmente la parte del migrante in Svizzera in una grave situazione di degrado e difficoltà di integrazione, decide di schiarirsi i capelli, come i biondi teutonici, per integrarsi con gli svizzeri. Ma in un bar, assiste alla telecronaca di una partita della Nazionale di calcio italiana, goffamente recitando la parte del biondo elvetico: quando però gli Azzurri fanno goal, non trattiene la gioia irrefrenabile ed esplode in un urlo liberatorio. Indimenticabile lo sguardo di stupore sprezzante di tutti i presenti al bar. Questa scena racchiude in poche immagini quanto intendevo dire.