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Cautele nella redazione di atti di trust

Tecniche di redazione
Tecniche di redazione

La tecnica redazionale di un atto è materia lasciata alla capacità di chi deve stilarlo. A questo proposito, il lavoro svolto dal prof. Lupoi con il suo formulario ha fatto scuola e la grandissima parte di atti che si leggono lo hanno, più o meno pedissequamente, recepito senza però considerare che esso può rivelarsi uno strumento insidioso nelle mani di chi, non avendo la necessaria padronanza della materia, si limiti così a ricopiare acriticamente le clausole riprodotte il cui impiego deve essere, al contrario ampiamente ponderato. 

In questa sede vogliamo affrontare la redazione di un atto sotto il profilo delle cautele che una giurisprudenza molto spesso ondivaga, le circolari dell’agenzia delle entrate e una produzione legislativa in costante attività impongono di osservare.

Per iniziare dalla giurisprudenza, ci si chiede quale atteggiamento tenere a fronte di spesso improvvide esternazioni di alcune corti di merito (ma purtroppo, da ultimo, anche del supremo Collegio) che sembrano mettere in discussione alcuni punti fermi sui quali non si sentiva invero il bisogno di discutibili e sbrigative prese di posizione.

Intendiamo riferirci al révirement in corso a proposito del trust autodichiarato nonché di alcune recenti pronunce che mettono addirittura in dubbio la legittimità di un trust che non presenti ulteriori elementi di estraneità a eccezione della legge regolatrice. E questo senza parlare di quanto accade per quanto attiene ai profili d’imponibilità per cui, forse per un’eccessiva attenzione verso le ragioni dell’amministrazione fiscale, siamo addirittura giunti alla creazione di una nuova imposta sul vincoli di destinazione  incondizionatamente censurata dalla dottrina unanime e, per la verità, anche di non poche commissioni tributarie che non si sono pedissequamente adeguate al diktat della sezione tributaria della Corte di Cassazione.

Sempre in ambito fiscale, si deve por mente alla circolare 61E e alla precedente 48E che elencano una serie di ipotesi -peraltro frequentemente ricorrenti e tipiche della struttura di un trust- la cui presenza è sanzionata, addirittura,  con l’inesistenza (sotto il profilo fiscale) di tale atto.

Nell’ambito normativo infine, la recente introduzione del nuovo articolo 2929 bis all’interno del codice civile ha rappresentato un ulteriore attacco alla certezza dei rapporti, a incondizionato beneficio, in particolare, del ceto bancario, solo per cercar di rattoppare, in modo sbrigativo, le lacune di un sistema inefficiente.

Si tratta dunque di vedere che cosa sia possibile fare per contrastare una situazione che si pone come oggettivamente destabilizzante.

Le sentenze stravaganti

Si usa questo termine nella sua accezione semantica: extra vagantes, come qualcosa che esce da limiti prefissati o consueti, e ormai acquisiti.

Nel corso del tempo abbiamo ci siamo imbattuti spesso in situazioni di questo tipo. Forse uno degli esempi più eclatanti è rappresentato da quanto accaduto in tema di trust liquidatorio fino alla sentenza della Corte di Cassazione (n. 10105/2014)che ha posto fine alla diatriba. Si ricorderà infatti come nell’intento di esercitare una funzione di supplenza rispetto a carenze che il sistema normativo e giudiziario non erano in grado di superare per opporsi alla pratica di istituire trust liquidatori fasulli,  si era formata una non episodica giurisprudenza secondo cui un trust che non contenesse una clausola di autodistruzione al verificarsi del fallimento della società i cui beni erano stati apportati in un trust, doveva ritenersi nullo, come se la nullità potesse essere decretata al di fuori di una specifica norma che la preveda come sanzione derivante dalla sua violazione.

Fermo restando che il trust liquidatorio, prima della ricordata sentenza della Cassazione, si muoveva in un ambito di obiettiva incertezza dovuta all’incrociarsi di una normativa pubblicistica con la conclamata (e in parte attuata) privatizzazione della procedura, chi voleva porre in essere un trust liquidatorio difficilmente poteva sottrarsi dall’ inserire quelle clausole la cui fondatezza è stata poi autorevolmente e definitivamente negata.

Peraltro, l’ossequio a questa linea giurisprudenziale, al di là delle perplessità che la stessa poteva suscitare in linea teorica, non comportava, nei fatti, una insopportabile limitazione in sede di redazione dell’atto perché il fallimento avrebbe comunque travolto il trust per l’inderogabilità della disciplina pubblicistica, in ossequio al dettato dell’articolo 15 della Convenzione.

Diverso invece il discorso di fronte alle posizioni che negano la legittimità del trust autodichiarato sulla base dell’errato presupposto per cui l’articolo 2 della Convenzione presupporrebbe la terzietà del trustee. Ora il trust autodichiarato rappresenta un modo di istituzione del trust perfettamente legittimo che rientra pienamente nella previsione legislativa delle leggi straniere che in base alla Convenzione devono disciplinare il trust. Né è richiesta la terzietà del trustee dal momento che l’ordinamento ammette la legittimità di patrimoni separati facenti capo a uno stesso soggetto, in deroga al disposto dell’articolo 2740 del codice civile. Allora, se al medesimo soggetto possono far capo due patrimoni distinti, non si vede perché questi non possano derivare dalla scissione di un patrimonio originariamente facente capo a una sola persona. Ma non solo si sta parlando di una modalità perfettamente legittima, ma di una modalità che ricorre con grande frequenza nell’ambito dei trust liberali, soprattutto di quelli istituti con finalità di protezione del patrimonio e del passaggio generazionale.

In questo caso, accedere all’orientamento giurisprudenziale illustrato equivarrebbe a rendere ancor più difficoltoso il ricorso al trust perché aggiungerebbe un significativo ostacolo dal punto di vista psicologico, oltre a un costo ulteriore dovuto alla quasi necessità di dover ricorrere a un trustee professionista. E non stiamo ad affrontare in questa sede i profili fiscali nei cui confronti però nulla è possibile fare in prevenzione perché, considerando l’attuale posizione della Cassazione, non possiamo ipotizzare, in attesa di un auspicato cambio nella giurisprudenza della Corte, se non l’attivazione di un contenzioso, dagli esiti incerti, con l’amministrazione fiscale.

Circa l’adozione del trust autodichiarato riteniamo invece che non si debba tener conto dell’orientamento negativo emerso, ma che si debbano illustrare al cliente le ragioni della scelta, e i rischi connessi, in modo da metterlo in condizione di poter responsabilmente assumere le proprie conseguenti decisioni. Non dobbiamo dimenticare del resto che la sottoposizione del trust al vaglio del giudice è solo eventuale, comunque non immediata, così che non è dato sapere quali saranno gli orientamenti prevalenti laddove la situazione dovesse formare, in futuro, oggetto di giudicato.

Le circolari dell’Agenzia delle Entrate

Ci riferiamo, in particolare, alle citate Circolari 48 e 61 che sanciscono l’inesistenza, sotto il profilo fiscale, del trust al ricorrere di determinate ipotesi con la conseguenza per cui i beni apportati si considerano ancora in capo al disponente, come se cioè non fossero mai usciti dal suo patrimonio. A questo riguardo dobbiamo premettere che le fattispecie che le circolari elencano non hanno nel loro insieme carattere di tassatività e lasciano aperta la possibilità che l’Agenzia possa ritenere fiscalmente inesistenti anche ulteriori fattispecie pur non ricomprese nell’elenco citato. Del resto una conferma viene proprio dal punto 9 della circolare 61 che estende l’inesistenza a “ogni altra ipotesi in cui il potere gestionale e dispositivo del trustee, così come individuato dal regolamento del trust o dalla legge, risulti in qualche modo limitato o anche semplicemente condizionato dalla volontà del disponente e/o dei beneficiari”. Si tratta, com’è dato vedere, di una previsione dalla portata potenzialmente così ampia da ricomprendere quasi ogni tipo di trust. Tanto per limitarsi a qualche esempio, la sola ipotesi -prevista dalla legge di Jersey o dalla consuetudine (UK) - per cui i beneficiari maggiorenni e unanimi che esauriscono le posizioni beneficiarie possono chiedere la corresponsione immediata del fondo in trust (e ciascun beneficiario della quota a lui spettante) rappresenta un condizionamento della volontà del trustee, così come le clausole che prevedono che per alcune decisioni il trustee debba sentire il parere dei beneficiari. Si noti che la previsione è così ampia che il condizionamento ricomprende anche quelle forme di cd undue influence che sfuggono a ogni possibilità di oggettiva rilevazione. E addirittura la stessa nomina di un guardiano potrebbe essere vista come rientrante in questa previsione. A fronte di ciò si deve ribadire che chi istituisce un trust non è, nella maggioranza dei casi, un malfattore che fugge davanti ai creditori o alla giustizia, o al fisco, o quantomeno non è quella fiscale la sua principale preoccupazione. Pertanto che sotto il profilo fiscale si consideri il bene sempre facente parte del patrimonio del disponente non rappresenta un deterrente insormontabile. Al cliente si dovrà proporre una redazione impeccabile dell’atto, rispettosa delle norme vigenti e degli interessi che si intendono tutelare. Una volta impostato così l’atto, si valuteranno col cliente le implicazioni di carattere fiscale che l’atto può comportare per decidere poi se si vogliono mantenere inalterate o se si devono apportare all’atto quelle modifiche che lo rendano meno esposto al rischio di inesistenza sotto il profilo fiscale, ma con l’avvertenza comunque che si tratta di un rischio praticamente ineludibile.

La situazione normativa: articoli 2901 e 2929 bis del codice civile

Più difficile la difesa nei confronti del rischio di revocatoria e dell’espropriazione di cui all’articolo 2929 bis (Espropriazione di beni oggetto di vincoli di indisponibilità o di alienazioni a titolo gratuito) recentemente introdotto.

Sul piano dell’articolo 2901, si è assistito, nel corso dello scorso anno, a un corposo numero di sentenze di accoglimento delle revocatorie degli apporti effettuanti in trust che per la verità si presentavano, quasi sempre, come espedienti posti in essere col solo scopo di sottrarre beni al soddisfacimento dei creditori. Oltre a ciò, tuttavia, la struttura della norma è ispirata a un favor nei confronti del creditore perché subordina l’esercizio dell’azione alla conoscenza, da parte del debitore, del pregiudizio che l’atto arrechi alle ragioni del creditore. Lasciando stare la conoscenza del pregiudizio da parte del terzo (punto 2 dell’articolo in esame) è innegabile che  non è facile dimostrare, da parte del debitore, che un atto che riduce la consistenza del proprio patrimonio non sia potenzialmente suscettibile di arrecare pregiudizio al creditore. Accanto a questa norma si pone il 2929 bis che ha una portata diversa dal 2901, ma per certi aspetti è anche più invasivo. Senza addentraci nel commento della disposizione, sul quale già sono apparsi esaustivi interventi, ci si chiede se e come sia possibile mettersi al riparo da uno strumento che può avere potenzialmente effetti devastanti, pur partendo dalla premessa che ci si muove nell’ambito di trust in cui si presuppone che difetti ogni profilo di elusività.

Ora, in entrambi i casi, sembra che un passaggio ineluttabile sia quello di prendere preventivamente contatto con i creditori illustrando che cosa si ha intenzione di fare e fornendo prove sul fatto che l’istituzione di un trust non attenta alle loro ragioni. Questo può avvenire in due modi: o perché i beni conferiti non incidono oggettivamente sulla consistenza economica del disponente con riguardo alla sua esposizione debitoria, oppure perché l’atto da porre in essere si preoccupa di salvaguardare, in primo luogo, le ragioni del creditore del disponente stesso così che il loro rapporto non viene alterato. Per quanto riguarda invece la previsione dall’articolo 2929 bis, si potrà agire su più fronti.

Intanto il fatto che debba trattarsi di atti a titolo gratuito esclude la categoria degli atti gratuiti non donativi o atipici - e in questo senso si potrà lavorare nella redazione dell’atto - nonché i trust di garanzia. Quanto poi all’accertamento del pregiudizio e all’inversione dell’onere della prova (circa la sussistenza dei presupposti che legittimano l’iniziativa del creditore), chi voglia costituire un vincolo di destinazione sui propri beni dovrà porre in essere, in forme da definire, una preventiva opera di trasparenza con i propri creditori - essenzialmente le banche - per convincerle che l’operazione divisata non è per loro pregiudizievole e al tempo stesso agire con opportune clausole da inserire nell’atto con cui va a costituire il vincolo. Vorrei tuttavia concludere con un messaggio rassicurante in particolare sulla portata delle due disposizioni testé citate che, a parere di chi scrive, sono destinate essenzialmente a tutelare i creditori -le banche soprattutto anche perché, rispetto a un privato, sono quelle più in grado di poter tenere sotto controllo la situazione dei loro clienti - nei confronti di comportamenti fraudolenti dei loro clienti - debitori. E infatti operazioni di tal genere sono solitamente organizzate quando la situazione finanziaria del soggetto interessato ha già iniziato a scricchiolare. Se invece non difetta la volontà di sottrarsi ai propri impegni e questo viene dimostrato attraverso quegli accorgimenti cui abbiamo fatto cenno, riteniamo che il rischio di subire una revocatoria o un’espropriazione per chi istituisca un trust sia veramente minimo.

La tecnica redazionale di un atto è materia lasciata alla capacità di chi deve stilarlo. A questo proposito, il lavoro svolto dal prof. Lupoi con il suo formulario ha fatto scuola e la grandissima parte di atti che si leggono lo hanno, più o meno pedissequamente, recepito senza però considerare che esso può rivelarsi uno strumento insidioso nelle mani di chi, non avendo la necessaria padronanza della materia, si limiti così a ricopiare acriticamente le clausole riprodotte il cui impiego deve essere, al contrario ampiamente ponderato. 

In questa sede vogliamo affrontare la redazione di un atto sotto il profilo delle cautele che una giurisprudenza molto spesso ondivaga, le circolari dell’agenzia delle entrate e una produzione legislativa in costante attività impongono di osservare.

Per iniziare dalla giurisprudenza, ci si chiede quale atteggiamento tenere a fronte di spesso improvvide esternazioni di alcune corti di merito (ma purtroppo, da ultimo, anche del supremo Collegio) che sembrano mettere in discussione alcuni punti fermi sui quali non si sentiva invero il bisogno di discutibili e sbrigative prese di posizione.

Intendiamo riferirci al révirement in corso a proposito del trust autodichiarato nonché di alcune recenti pronunce che mettono addirittura in dubbio la legittimità di un trust che non presenti ulteriori elementi di estraneità a eccezione della legge regolatrice. E questo senza parlare di quanto accade per quanto attiene ai profili d’imponibilità per cui, forse per un’eccessiva attenzione verso le ragioni dell’amministrazione fiscale, siamo addirittura giunti alla creazione di una nuova imposta sul vincoli di destinazione  incondizionatamente censurata dalla dottrina unanime e, per la verità, anche di non poche commissioni tributarie che non si sono pedissequamente adeguate al diktat della sezione tributaria della Corte di Cassazione.

Sempre in ambito fiscale, si deve por mente alla circolare 61E e alla precedente 48E che elencano una serie di ipotesi -peraltro frequentemente ricorrenti e tipiche della struttura di un trust- la cui presenza è sanzionata, addirittura,  con l’inesistenza (sotto il profilo fiscale) di tale atto.

Nell’ambito normativo infine, la recente introduzione del nuovo articolo 2929 bis all’interno del codice civile ha rappresentato un ulteriore attacco alla certezza dei rapporti, a incondizionato beneficio, in particolare, del ceto bancario, solo per cercar di rattoppare, in modo sbrigativo, le lacune di un sistema inefficiente.

Si tratta dunque di vedere che cosa sia possibile fare per contrastare una situazione che si pone come oggettivamente destabilizzante.

Le sentenze stravaganti

Si usa questo termine nella sua accezione semantica: extra vagantes, come qualcosa che esce da limiti prefissati o consueti, e ormai acquisiti.

Nel corso del tempo abbiamo ci siamo imbattuti spesso in situazioni di questo tipo. Forse uno degli esempi più eclatanti è rappresentato da quanto accaduto in tema di trust liquidatorio fino alla sentenza della Corte di Cassazione (n. 10105/2014)che ha posto fine alla diatriba. Si ricorderà infatti come nell’intento di esercitare una funzione di supplenza rispetto a carenze che il sistema normativo e giudiziario non erano in grado di superare per opporsi alla pratica di istituire trust liquidatori fasulli,  si era formata una non episodica giurisprudenza secondo cui un trust che non contenesse una clausola di autodistruzione al verificarsi del fallimento della società i cui beni erano stati apportati in un trust, doveva ritenersi nullo, come se la nullità potesse essere decretata al di fuori di una specifica norma che la preveda come sanzione derivante dalla sua violazione.

Fermo restando che il trust liquidatorio, prima della ricordata sentenza della Cassazione, si muoveva in un ambito di obiettiva incertezza dovuta all’incrociarsi di una normativa pubblicistica con la conclamata (e in parte attuata) privatizzazione della procedura, chi voleva porre in essere un trust liquidatorio difficilmente poteva sottrarsi dall’ inserire quelle clausole la cui fondatezza è stata poi autorevolmente e definitivamente negata.

Peraltro, l’ossequio a questa linea giurisprudenziale, al di là delle perplessità che la stessa poteva suscitare in linea teorica, non comportava, nei fatti, una insopportabile limitazione in sede di redazione dell’atto perché il fallimento avrebbe comunque travolto il trust per l’inderogabilità della disciplina pubblicistica, in ossequio al dettato dell’articolo 15 della Convenzione.

Diverso invece il discorso di fronte alle posizioni che negano la legittimità del trust autodichiarato sulla base dell’errato presupposto per cui l’articolo 2 della Convenzione presupporrebbe la terzietà del trustee. Ora il trust autodichiarato rappresenta un modo di istituzione del trust perfettamente legittimo che rientra pienamente nella previsione legislativa delle leggi straniere che in base alla Convenzione devono disciplinare il trust. Né è richiesta la terzietà del trustee dal momento che l’ordinamento ammette la legittimità di patrimoni separati facenti capo a uno stesso soggetto, in deroga al disposto dell’articolo 2740 del codice civile. Allora, se al medesimo soggetto possono far capo due patrimoni distinti, non si vede perché questi non possano derivare dalla scissione di un patrimonio originariamente facente capo a una sola persona. Ma non solo si sta parlando di una modalità perfettamente legittima, ma di una modalità che ricorre con grande frequenza nell’ambito dei trust liberali, soprattutto di quelli istituti con finalità di protezione del patrimonio e del passaggio generazionale.

In questo caso, accedere all’orientamento giurisprudenziale illustrato equivarrebbe a rendere ancor più difficoltoso il ricorso al trust perché aggiungerebbe un significativo ostacolo dal punto di vista psicologico, oltre a un costo ulteriore dovuto alla quasi necessità di dover ricorrere a un trustee professionista. E non stiamo ad affrontare in questa sede i profili fiscali nei cui confronti però nulla è possibile fare in prevenzione perché, considerando l’attuale posizione della Cassazione, non possiamo ipotizzare, in attesa di un auspicato cambio nella giurisprudenza della Corte, se non l’attivazione di un contenzioso, dagli esiti incerti, con l’amministrazione fiscale.

Circa l’adozione del trust autodichiarato riteniamo invece che non si debba tener conto dell’orientamento negativo emerso, ma che si debbano illustrare al cliente le ragioni della scelta, e i rischi connessi, in modo da metterlo in condizione di poter responsabilmente assumere le proprie conseguenti decisioni. Non dobbiamo dimenticare del resto che la sottoposizione del trust al vaglio del giudice è solo eventuale, comunque non immediata, così che non è dato sapere quali saranno gli orientamenti prevalenti laddove la situazione dovesse formare, in futuro, oggetto di giudicato.

Le circolari dell’Agenzia delle Entrate

Ci riferiamo, in particolare, alle citate Circolari 48 e 61 che sanciscono l’inesistenza, sotto il profilo fiscale, del trust al ricorrere di determinate ipotesi con la conseguenza per cui i beni apportati si considerano ancora in capo al disponente, come se cioè non fossero mai usciti dal suo patrimonio. A questo riguardo dobbiamo premettere che le fattispecie che le circolari elencano non hanno nel loro insieme carattere di tassatività e lasciano aperta la possibilità che l’Agenzia possa ritenere fiscalmente inesistenti anche ulteriori fattispecie pur non ricomprese nell’elenco citato. Del resto una conferma viene proprio dal punto 9 della circolare 61 che estende l’inesistenza a “ogni altra ipotesi in cui il potere gestionale e dispositivo del trustee, così come individuato dal regolamento del trust o dalla legge, risulti in qualche modo limitato o anche semplicemente condizionato dalla volontà del disponente e/o dei beneficiari”. Si tratta, com’è dato vedere, di una previsione dalla portata potenzialmente così ampia da ricomprendere quasi ogni tipo di trust. Tanto per limitarsi a qualche esempio, la sola ipotesi -prevista dalla legge di Jersey o dalla consuetudine (UK) - per cui i beneficiari maggiorenni e unanimi che esauriscono le posizioni beneficiarie possono chiedere la corresponsione immediata del fondo in trust (e ciascun beneficiario della quota a lui spettante) rappresenta un condizionamento della volontà del trustee, così come le clausole che prevedono che per alcune decisioni il trustee debba sentire il parere dei beneficiari. Si noti che la previsione è così ampia che il condizionamento ricomprende anche quelle forme di cd undue influence che sfuggono a ogni possibilità di oggettiva rilevazione. E addirittura la stessa nomina di un guardiano potrebbe essere vista come rientrante in questa previsione. A fronte di ciò si deve ribadire che chi istituisce un trust non è, nella maggioranza dei casi, un malfattore che fugge davanti ai creditori o alla giustizia, o al fisco, o quantomeno non è quella fiscale la sua principale preoccupazione. Pertanto che sotto il profilo fiscale si consideri il bene sempre facente parte del patrimonio del disponente non rappresenta un deterrente insormontabile. Al cliente si dovrà proporre una redazione impeccabile dell’atto, rispettosa delle norme vigenti e degli interessi che si intendono tutelare. Una volta impostato così l’atto, si valuteranno col cliente le implicazioni di carattere fiscale che l’atto può comportare per decidere poi se si vogliono mantenere inalterate o se si devono apportare all’atto quelle modifiche che lo rendano meno esposto al rischio di inesistenza sotto il profilo fiscale, ma con l’avvertenza comunque che si tratta di un rischio praticamente ineludibile.

La situazione normativa: articoli 2901 e 2929 bis del codice civile

Più difficile la difesa nei confronti del rischio di revocatoria e dell’espropriazione di cui all’articolo 2929 bis (Espropriazione di beni oggetto di vincoli di indisponibilità o di alienazioni a titolo gratuito) recentemente introdotto.

Sul piano dell’articolo 2901, si è assistito, nel corso dello scorso anno, a un corposo numero di sentenze di accoglimento delle revocatorie degli apporti effettuanti in trust che per la verità si presentavano, quasi sempre, come espedienti posti in essere col solo scopo di sottrarre beni al soddisfacimento dei creditori. Oltre a ciò, tuttavia, la struttura della norma è ispirata a un favor nei confronti del creditore perché subordina l’esercizio dell’azione alla conoscenza, da parte del debitore, del pregiudizio che l’atto arrechi alle ragioni del creditore. Lasciando stare la conoscenza del pregiudizio da parte del terzo (punto 2 dell’articolo in esame) è innegabile che  non è facile dimostrare, da parte del debitore, che un atto che riduce la consistenza del proprio patrimonio non sia potenzialmente suscettibile di arrecare pregiudizio al creditore. Accanto a questa norma si pone il 2929 bis che ha una portata diversa dal 2901, ma per certi aspetti è anche più invasivo. Senza addentraci nel commento della disposizione, sul quale già sono apparsi esaustivi interventi, ci si chiede se e come sia possibile mettersi al riparo da uno strumento che può avere potenzialmente effetti devastanti, pur partendo dalla premessa che ci si muove nell’ambito di trust in cui si presuppone che difetti ogni profilo di elusività.

Ora, in entrambi i casi, sembra che un passaggio ineluttabile sia quello di prendere preventivamente contatto con i creditori illustrando che cosa si ha intenzione di fare e fornendo prove sul fatto che l’istituzione di un trust non attenta alle loro ragioni. Questo può avvenire in due modi: o perché i beni conferiti non incidono oggettivamente sulla consistenza economica del disponente con riguardo alla sua esposizione debitoria, oppure perché l’atto da porre in essere si preoccupa di salvaguardare, in primo luogo, le ragioni del creditore del disponente stesso così che il loro rapporto non viene alterato. Per quanto riguarda invece la previsione dall’articolo 2929 bis, si potrà agire su più fronti.

Intanto il fatto che debba trattarsi di atti a titolo gratuito esclude la categoria degli atti gratuiti non donativi o atipici - e in questo senso si potrà lavorare nella redazione dell’atto - nonché i trust di garanzia. Quanto poi all’accertamento del pregiudizio e all’inversione dell’onere della prova (circa la sussistenza dei presupposti che legittimano l’iniziativa del creditore), chi voglia costituire un vincolo di destinazione sui propri beni dovrà porre in essere, in forme da definire, una preventiva opera di trasparenza con i propri creditori - essenzialmente le banche - per convincerle che l’operazione divisata non è per loro pregiudizievole e al tempo stesso agire con opportune clausole da inserire nell’atto con cui va a costituire il vincolo. Vorrei tuttavia concludere con un messaggio rassicurante in particolare sulla portata delle due disposizioni testé citate che, a parere di chi scrive, sono destinate essenzialmente a tutelare i creditori -le banche soprattutto anche perché, rispetto a un privato, sono quelle più in grado di poter tenere sotto controllo la situazione dei loro clienti - nei confronti di comportamenti fraudolenti dei loro clienti - debitori. E infatti operazioni di tal genere sono solitamente organizzate quando la situazione finanziaria del soggetto interessato ha già iniziato a scricchiolare. Se invece non difetta la volontà di sottrarsi ai propri impegni e questo viene dimostrato attraverso quegli accorgimenti cui abbiamo fatto cenno, riteniamo che il rischio di subire una revocatoria o un’espropriazione per chi istituisca un trust sia veramente minimo.