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Breve nota a margine delle disposizioni emanate dallo Stato per contrastare la pandemia

Ritratti di architettura. Prospettive reali
Ph. Elena Franco / Ritratti di architettura. Prospettive reali

 

La recente disciplina adottata per arginare e contrastare il diffondersi della pandemia da covid-19 pone diversi problemi. La normativa in parola, infatti, è innovativa per metodo e per contenuto, sia rispetto alle procedure legislative finora seguite in regime repubblicano, sia rispetto all’assunzione del «bene supremo» e in quanto tale regolativo dell’ordinamento costituzionale e della conseguente giurisprudenza.

La «innovazione» (non è l’unica) che nelle prossime righe considereremo è rappresentata da una sempre maggiore restrizione delle cosiddette libertà civili, ovverosia, per esprimerci in modo tecnicamente più corretto, da una sempre maggiore restrizione dei diritti (civili, appunto, cioè in civitate positi[1], dunque … soggettivi secondo la Dottrina positivistica per esempio jellinekiana[2]) nei quali si manifesta e si declina l’amplissimo genus delle libertà individuali; comprese, ovviamente e in primis, quelle cosiddette costituzionali, vale a dire quelle che si ammantano, direttamente o indirettamente, di una «copertura» (positivistica, è ovvio) da parte del verbum Constitutionis.

Non v’è dubbio[3]!

Non solo, infatti, sono stati sempre più limitati i diritti che gravitano attorno all’asse delle libertà personali intese in senso stretto, come per esempio ed evidentemente il diritto alla cosiddetta libertà di circolazione e negli spostamenti all’interno del territorio nazionale, ma sono anche state significativamente compresse, o addirittura «sospese», molte facoltà afferenti ai cosiddetti diritti economici.

Fra queste ultime, invero, se si ponesse mente anche solo alla preliminare libertà di esercizio dell’impresa e alla libertà di organizzazione del lavoro, senza entrare più oltre nel dettaglio, già si avrebbe immediata contezza circa la «portata» delle restrizioni in parola, e ciò, sovrattutto e particolarmente in conseguenza della disciplina normativa entrata in vigore col DPCM del 22 Marzo 2020, la quale ha punto operato una severissima e capillare «sospensione» delle “attività produttive industriali e commerciali, ad eccezione di quelle indicate nell’allegato 1” (art. 1).

Se poi si voglia porre mente alle ulteriori limitazioni concernenti altre e diverse declinazioni delle libertà lato sensu sociali, associative, educativo-formative, et similia (la stampa, a questo proposito, ha mutuata dal mondo anglosassone e ha diffusa l’espressione lockdown) il quadro potrà risultare assai chiaro sotto il profilo prima cennato, ovverosia in ordine a una generale, diffusa e capillare limitazione dei cosiddetti diritti fondamentali operata dalla Legislazione emergenziale: la «chiusura» degli Istituti scolastici, degli impianti sportivi, degli stessi luoghi di ritrovo, per esempio, ma anche delle altre attività e strutture non organizzate in forma di impresa o comunque non direttamente legate al contesto economico-produttivo, ben dànno conto dell’ampliezza delle restrizioni in parola e della loro portata, quindi anche degli effetti che esse hanno sul piano sociale e politico, oltreché economico.  

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Invero, non occorre dilungarsi inutilmente in elencazioni e in dettagli circa le «limitazioni» e le «sospensioni» de quibus per notare – questo è il punto – l’emergenza concettuale e fattuale di un primo dato da registrarsi e sul quale immediatamente riflettere: esso è rappresentato dalla circostanza in virtù della quale la libertà negativamente intesa, assolutamente intesa come autodeterminazione del velle in re propria, e come tale assurta a contenuto di un πρώτος-diritto soggettivo della persona, di un suo diritto umano, non occupa più (?) il posto di vertice nella gerarchia dei valori e dei diritti … dato il «tempo di emergenza»[4].

Gli «strumenti» della legalità, in questo caso, le nuove norme, cioè, che l’Ordinamento ha variamente rese vigenti per contrastare l’emergenza stessa, non si fanno più mezzo per la liberazione dell’individuo dalla regola, qualunque essa sia; mezzo, quindi, per la di lui autodeterminazione volontaristica, quantomeno in rebus privatis, per il libero sviluppo della di lui umanità intesa in senso per esempio mounieriano[5], facendo ovviamente salvi i meri limiti (kantianamente[6]) necessari alla vicinanza non-conflittuale degli individui tra loro.

Ma viceversa le nuove norme in parola si caratterizzano in guisa di limite esse stesse, di ostacolo (così almeno appare prima facie e sotto questo preliminare profilo) all’esercizio e alla fruizione delle libertà medesime, anche di quelle già ampiamente «consolidate», vale a dire anche di quelle già fatte proprie e normate, ergo garantite, dal Sistema dello ius in civitate positum e concernenti l’ambito privato e finanche intimo della persona-soggetto: la sua casa, le sue frequentazioni, gli aspetti più personali della sua vita sociale et coetera.

La c.d. norma emergenziale, infatti, lungi dal «rispettare» la (property-)privacy individuale e dal consentire a ciascheduno di vivere come egli vuole per sé, lasciando che ciascheduno punto assuma i rischi che desidera assumere e che metta la propria salute e la propria vita al posto che predilige nella sua personale (soggettivistica) «gerarchia di valori», è e si fa immediatamente mezzo per limitare la libertà-autodeterminazione dell’individuo… anche in rebus privatis, anche, cioè, all’interno della property lockianamente intesa. Essa (norma), invero, non si fa più strumento per legalizzarla e favorirla, per massimizzarla; per trasformare, dunque, il desiderio in diritto e per promuoverne la concreta realizzazione, sulla base dell’assunzione a priori secondo la quale la libertà negativa sarebbe «il» bene supremo; ma viceversa la normazione de qua, coerentemente con una diversa assunzione – sulla quale dopo torneremo –, la limita, la comprime, la modula, al fine di ridurre e contenere l’esposizione a pericolo di un «bene» diverso.

Il problema che noi quivi intendiamo sollevare – su questo vogliamo essere il più possibile chiari – non alberga nella limitazione di alcune libertà personali, anche di diritto naturale (cioè proprie dell’uomo in quanto tale), in quanto «restringimento» dello spettro di facoltà legittimamente esercitabili da parte del soggetto: queste limitazioni, infatti, date le circostanze dell’emergenza, sarebbero (e sono!) normali e financo doverose da parte dell’Autorità, e ciò segnatamente in vista della concreta preservazione del bene comune cui essa è naturalmente preposta.

Un tanto, però – ecco il punctum dolens – sarebbe normale e «scontato», come abbiamo detto, perché doveroso, nell’ambito di un Ordinamento informato ai principii del realismo classico. Sarebbe normale e coerente, cioè, qualora, per restare solo a quest’aspetto, la libertà-autodeterminazione non fosse considerata, dall’Ordinamento vigente, alla stregua del bene supremo.

Ciò significa che le restrizioni de quibus sarebbero normali e scontate – si può discutere sul loro quomodo, ma non sul loro an – qualora l’Ordinamento tutto non concepisse il bene della libertà subbiettiva come bene derivante dalla liberazione dell’individuo da ogni regola, come bene – direbbe Danilo Castellano – inverantesi nella libertà negativa[7], ovverosia nella libertà esercitata con il solo criterio della volontà, eppertanto senza criterio alcuno (salvi i limiti esterni funzionali alla «vicinanza geografica» degli individui tra loro).

Il problema invece si pone e fa emergere una effettiva novità – forse la più significativa – insita nella cosiddetto normazione emergenziale, proprio considerando il contrasto tra le limitazioni che essa prevede e l’assunzione, da parte del Sistema-ordinamento, da parte, potremmo dire, del Sistema costituzionale considerato nel suo complesso e nella sua coerente evoluzione[8], del dogma (liberal-radicale proprio del moderno costituzionalismo[9]) della libertà come autodeterminazione del volere assoluto in rebus privatis.

La normazione emergenziale, allora, sotto questo rispetto, non è semplicemente una normazione eccezionale, ma è proprio una «normazione abnorme», una normazione sostanzialmente contrastante con le rationes fondative del Sistema di riferimento (quello attuativo della Carta costituzionale), anche se essa resta formalmente (kelsenianamente) sistematica: essa, cioè, non fa eccezione nell’Ordinamento, magari per preservarlo o adeguarlo a un dato contesto, non è il “male necessario”[10] arendtianamente considerato, ma facendo eccezione all’Ordinamento tutto, ne cambia proprio il paradigma di riferimento, sia pure transitoriamente e con un decorso lato sensu sinusoidale e nondimeno limitato ratione materiae.

E se è pur possibile che la normazione in parola sia formalmente coerente con il cosiddetto sistema delle fonti – anche se la circostanza in ragione della quale le norme derogatorie degli stessi diritti costituzionali sono vieppiù introdotte con la forma della legge ordinaria (quando non del decreto o dell’ordinanza), risulta assai singolare –, essa stessa, però, è profondamente «lontana» dalle rationes ordinamentali prima egemoni e dal sostrato teleologico dello stesso impianto normativo così come concepito fin dalle prime «applicazioni» del Testo costituzionale.

Il limite alla libertà-autodeterminazione (del velle) che la norma de qua impone, infatti, non è più la conseguenza esterna e inevitabile di una norma comunque e necessariamente posta a presidio della libertà interna, dell’autodeterminazione in rebus privatis; ma viceversa esso rappresenta e invera la ratio stessa della norma, il suo fine prossimo – se così possiamo dire – il quale poi, a sua volta, è concettualmente finalizzato al perseguimento e alla preservazione di un fine remoto inverantesi in un bene diverso dalla libertà in quanto tale, in quanto libertà negativa, autodeterminazione assoluta (anche se confinata, per norma, entro gli spazii della privacy).

Altro, infatti, è erigere un «recinto» tra properties individuali affinché ciascheduno goda liberamente la sua senza conflitti, e altro, tutt’altro, è impedire l’esercizio della libertà (negativa) medesima, anche all’interno dei recinti de quibus, per preservare e per tutelare un bene e un valore ritenuti (per norma) superiori sia alla «confinazione amministrativa», sia all’esercizio delle varie facoltà e prerogative lato sensu dominicali.  

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Infatti, le norme poste a presidio della tutela della salute, e limitative di tutte le libertà che, qualora esercitate, possano pregiudicare o anche solo mettere a repentaglio questo bene, sono norme nella ratio fondativa delle quali alberga la preminenza concettuale e valoriale del bene della vita e della salute, rispetto al «bene» delle libertà cosiddette civili, rispetto ai diritti di altra natura (per esempio economici) e rispetto al generale diritto alla privacy inteso – come l’intende per esempio la Corte di Strasburgo – come diritto al rispetto della c.d. vita privata e familiare da parte dello Stato, come diritto alla non-ingerenza, ergo … come diritto alla non-regolamentazione, all’α-giuridicità e finalmente all’anarchia.

E la qualcosa, evidentemente, contrasta con magna pars della legislazione e della giurisprudenza degl’ultimi anni, tutte rivolte – come è noto – alla «liberazione» dell’individuo dalla regola, quando la regola medesima concerna il «suo privato», a massimizzarne le facoltà legali nelle quali esprimere la propria libertà negativa sopra ciò che viene per norma ritenuto «privato», suo di lui, e quindi insindacabile.

Primo tra tutti – ça va sans dire – il «diritto» sopra la propria vita e sopra la propria salute … la sovranità – sarebbe più corretto dire – sopra sé stessi e sopra il proprio corpo. Basti pensare – ci limitiamo a un semplice esempio – alla normativa in materia di disposizioni anticipate di trattamento[11] e alle recenti vicende processuali in materia di suicidio assistito[12], per capire immediatamente i termini del problema: ciò che prima dell’emergenza era considerato πάν-privato, eppertanto insindacabile, impossibile da regolarsi senza ledere la dignità dell’individuo (assurdamente fatta coincidere con la di lui autodeterminazione del velle), e anzi era considerato un ambito – la salute e la vita, appunto – nel quale lo Stato doveva farsi parte attiva per consentire, senza sindacarle, la realizzazione delle progettualità individuali[13]; ora, invece, in tempi di emergenza, diviene (come in effetti esso è!) … bene in sé, e quindi bene giuridico, da preservarsi e da tutelarsi anche contro la volontà degli interessati, anche contro l’eventuale desiderio della persona di esporlo a rischi o a pericoli, magari in virtù di una sua diversa (e assurda) «scala valoriale».

L’osservazione a noi pare di preminente rilievo – si badi – non tanto perché essa registra un «aumento» dei cosiddetti limiti di legge, una incrementazione dei divieti, per così dire: tutto l’Ordinamento, infatti, presenta e ha sempre presentato limiti e proibizioni, basti porre mente all’articolato del Codice penale; quanto piuttosto perché con la cosiddetta legislazione emergenziale si è assistito e si assiste – come cennato – a una diversa concezione e della legge in quanto norma e del divieto in quanto proibizione, sia pure «provocata» e per certi versi «esigita» proprio ed essenzialmente dallo «stato di emergenza» e dal clima di paura che esso evoca.

Da un lato, infatti, viene negato che “il primario imperativo costituzionale [… debba essere quello (nda)] di perseguire l’obbiettivo finale della ‹piena› autodeterminazione della persona”[14], e dall’altro, coerentemente, viene abbandonata la «giustificazione» del limite normativo alla libertà individuale, dell’ingerenza dello Stato in rebus privatis, sulla base della necessità di garantire – kantianamente – la libertà a tutti e per tutti … pro quota, giusta un compendio di decisioni assunte democraticamente.

Vero è, che la normazione emergenziale de qua poggia concettualmente e funzionalmente sopra una «giustificazione» per così dire oggettiva: essa, cioè, fa agio sopra una «giustificazione» che invoca, pur senza portarla a compimento e forse nemmeno con una piena considerazione, l’essenza ontologica di un bene in sé quale bene preminente rispetto ai vari fenomeni della libertà. Essa invoca, infatti, il bene della vita e della salute delle persone, quale bene oggettivo e supremo; eppertanto quale bene giuridico da preservarsi e da tutelarsi prima di ogni altro ed eventualmente anche contro la volontà/libertà degli interessati.

La vita, infatti, è condizione sostanziale per l’esercizio anche della libertà negativa …

Non solo: le «forme» che i cosiddetti provvedimenti emergenziali hanno assunto, dimostrano e mostrano anche un ulteriore aspetto – ma ci limitiamo a un cenno – il quale, pur rimanendo in un cono di ombra e pur essendo più sostanziale che formale, quindi di difficile comprensione per ogni «geometra» del diritto, fa comunque timidamente emergere il primato dell’auctoritas, della regalità politica, sulle formule, spesso vacue, dei sistemi moderno-democratici gravitanti attorno alla dottrina della c.d. divisione dei poteri[15].

Al di là, infatti, delle cosiddette coperture normative e delle varie concatenazioni formali tra le diverse «fonti», e al di là, anche, dei processi politologici che pur possono avere determinate alcune «scelte normative», a nessuno sfugge che le decisioni più gravi e «incisive» nel senso prima visto, ovverosia nel senso della limitazione delle cc.dd. libertà civili, e più strettamente caratterizzanti – diremo – la normazione in parola, sono state sostanzialmente sottratte al dibattito parlamentare, il quale, quando esso è avvenuto e per gli aspetti che esso ha considerati, in altro non si è sostanziato, se non in una ratifica degli atti adottati dal Governo attraverso il suo Capo e attraverso i varii Ministri competenti.

Questo noi non contestiamo, almeno in linea di principio – anche qui si può discutere sul quomodo, ma non sull’an: l’emergenza, infatti, richiede decisioni tempestive e un’azione di e del Governo il più possibile «agile», proprio per il bene comune che essa deve preservare –, ma rileviamo che le procedure adottate e conseguentemente il compendio normativo che è entrato in vigore, dimostra come, sovrattutto in determinate circostanze, il bene comune possa essere perseguito e debba essere perseguito solamente attraverso «atti regali» i quali, essendo sottratti alle dinamiche (forse ai mercati) dei consensi, dipendano direttamente da colui il quale l’Autorità politica è chiamato a esercitare responsabilmente.

Invero, anche se il Governo ha ricevute alcune critiche per l’azione che esso ha posta in essere e per i provvedimenti variamente adottati – sulla fondatezza, sul merito e sul metodo delle stesse critiche occorrebbe comunque discutere, previa adeguata analisi – da un punto di vista «sostanziale» non solo i provvedimenti de quibus hanno sortito i loro effetti, hanno, cioè, ottenuta sostanziale ubbidienza da parte dei loro stessi destinatarii (cittadini, Magistrati, forze dell’Ordine, Personale amministrativo et coetera), ma essi nemmeno sono stati seriamente e radicalmente contrastati per la «deficienza democratica» che indubbiamente li ha caratterizzati; né consta che la Corte costituzionale li abbia dichiarati illegittimi sotto questo rispetto. Eppure – si noti – trattasi di provvedimenti lato sensu governativi che hanno limitati i cc.dd. diritti costituzionali di libertà!

La qualcosa, allora, porta a riflettere su un altro, connesso aspetto, ovverosia sul fatto in virtù del quale il metodo democratico … è e resta nulla di più rispetto a quello che esso è in realtà: ovverosia un metodo, una forma, una via per la normazione (si può discutere se sia la migliore o meno…), non già il fondamento della stessa, non già ciò che legittima il risultato normativo ed è condicio sine qua non della sua stessa validità sostanziale. La democrazia «buona», infatti, è forma di Governo, non fondamento del Governo[16].

Vero è, allora, che la Legge lato sensu intesa[17] non ha e non deve mai avere (nemmeno in periodo di non-emergenza) per fine essenziale quello di dettare una normazione purchessia, condivisa dalla maggioranza computata secondo le cosiddette procedure costituzionali[18] – questo può esserne il metodo, come detto. E non è escluso che in alcuni casi esso possa essere anche un metodo buono[19]ma ha e deve avere per iscopo il bene comune, il bene che essendo proprio di ogni uomo, esso è comune (ut natura) a tutti gli uomini componenti la comunità politica di riferimento.

Di talché, la legge lato sensu intesa – meglio potremmo dire la norma vigente – resta buona e valida, se essa è buona e valida in sé; se essa, cioè, persegue il fine del bene e se, conseguentemente, per il fine di preservare il bene superiore, limita, comprime, sospende l’esercizio di facoltà che compendiano beni di rango inferiore. 

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Ripigliando le fila del discorso, allora, ed entrando nel vivo di una ulteriore, connessa, questione, dobbiamo rilevare – anche qui con un mero cenno – che qualche cosa di preminente rispetto alla libertà-autodeterminazione e alla privacy nell’ambito della vita privata, consente, legittima e financo esige una loro «compressione» limitativo-modulativa … per norma. Potremmo dire – riprendendo una suggestiva (anche se lontana dal nostro pensiero) immagine di Rodotà – che la normativa emergenziale, sotto questo profilo, ci fa assistere a una compressione del “diritto di avere diritti”[20], a una «sospensione» o a una forma di «ridimensionamento» dei diritti soggettivi normativamente contemplati e preveduti dall’Ordinamento – Gerber direbbe riflessi dall’Ordinamento sui cittadini[21] – nell’ambito dei quali e attraverso i quali assume forma e sostanza il diritto della persona-cittadino di autodeterminarsi nella legalità e attraverso la legalità.

Se su questo dato, però, giusta l’evidenza normativa che lo rende palese (la quale si traduce, come è ovvio che sia, nella capillare attività di controllo e repressione svolta dalle Forze dell’Ordine), probabilmente nessuno ha qualche cosa da obbiettare, ciò che potrebbe invece far sorgere e animare una discussione e ciò che potrebbe dare adito – se non opportunamente chiarito – a una critica sulle nostre precedenti riflessioni, è rappresentato dalla risposta a un duplice quesito: che cosa ha occupato il posto di tale πρώτος-diritto? E quale diritto, quindi, viene a prevalere su quelli lato sensu riferibili alla libertà di autodeterminazione soggettiva?

Le risposte – a volere essere schietti e sintetici – si riducono a tre, anzi … due più una: (a) la salute come bene in sé della persona e quindi come bene giuridico; (b) la salute come requisito per il funzionamento delle «Strutture sociali» (imprenditoriali, amministrative, istituzionali et coetera) e quindi come bene dello Stato-soggetto; (c) la salute come libertà individuale e quindi come bene altrui che non va leso o esposto a pericolo.  

A nostro avviso, infatti, il crinale discretivo della discussione può ricondursi a tre termini di riferimento; anzi, a due più uno – in realtà – giacché uno solo dei tre «esce» dagli schemi categoriali proprii della cosiddetta modernità politico-giuridica, mentre gli altri due ne restano prigionieri, pur declinandola in diverse guise.

Da un lato, allora, potrebbe sostenersi – opzione sub (b) – che il posto in parola sia occupato dal bene dello Stato rappresentato dalla cosiddetta sanità pubblica lato sensu intesa, dall’ordine pubblico-sanitario quale interesse (!) della Persona civitatis, teleologicamente orientato alla stessa auto-conservazione del proprio potere; sia esso il potere demografico, il potere economico, il potere militare, il potere finanziario, il potere mediatico et coetera.

Dall’altro, viceversa e all’opposto – opzione sub (a) –, potrebbe sostenersi che tale posto sia occupato dal bene della salute umana in quanto bene in se, ovverosia dalla vita umana e dalla salute dell’uomo quali beni giuridici proprii di ogni uomo, i quali rappresentano, rispettivamente, la condizione di esistenza del soggetto-persona e l’ordine fisiologico oggettivo, naturale, proprio dell’organismo. Onde l’uomo, per mantenersi nella sua condizione fisicamente normale, ordinata, e per non recare nocumento a sé stesso, deve preservarlo e averne cura, così come l’Autorità politica, per adempiere il suo compito, nell’ambito, appunto, delle scelte di politica del diritto che le competono, deve provvedere affinché il soggetto non abusi della propria libertà ledendo o esponendo a pericolo la propria vita e la propria salute[22].

Sotto un terzo rispetto, invece, in posizione alternativa alla prima, ma sempre nell’ambito della modernità politico-giuridica, potrebbe opinarsi – opzione sub (c) – che tale posto sia invece occupato dalla garanzia esteriore della libertà individuale, quale fine e quale ratio essendi dello Stato e delle Istituzioni pubbliche.

Qui il Lettore – ce ne rendiamo conto – potrebbe avvertire un senso di disorientamento e un dubbio sulla correttezza anche solo logica delle nostre considerazioni: come può opinarsi, infatti, che la limitazione delle libertà supra citata sia finalmente funzionale alla loro guarentigia? Come può opinarsi, quindi, che il posto delle libertà e dei diritti all’autodeterminazione del velle sia occupato … dalla garanzia esterna della libertà individuale, della salute altrui intesa come species dell’altrui libertà?

Vediamo d’intenderci, pur senza entrare troppo in profondità nella disamina delle varie questioni, per poi conchiudere con una breve riflessione de iure condito.

Ebbene, nella seconda e nella terza prospettiva – opzioni sub (b) e sub (c) –, evidentemente, si rimane prigionieri, come detto, degli schemi proprii della modernità. Essi, però, si declinano in due guise: una forte, sub (b); e una debole, sub (c).

Secondo i paradigmi della modernità debole (sub (c)), infatti, le recenti disposizioni normative debbono leggersi alla luce del kantismo, giusta il quale – come è noto – il diritto rappresenta lo “insieme delle condizioni per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge universale di libertà”[23]. Di talché, in questo caso, la diffusa limitazione delle cosiddette libertà civili operata mercé la normazione emergenziale sarebbe condizione per la tutela delle libertà individuali, essa sarebbe il recinto eretto a difesa della property, l’intervento della Mano pubblica, quindi, per evitare che l’esercizio della libertà individuale sia di nocumento… ad altri.

Non si tutela, quivi, allora, la salute in sé e quindi in quanto bene dell’uomo, ma si tutela la salute sub specie di libertà altrui, di «libertà dal contagio», se così possiamo dire, onde le restrizioni de quibus non si giustificano e legittimano in quanto tutelano il bene di ogni uomo a conservare la propria vita e la propria integrità fisica, a mantenersi nella condizione di ordine che gli è propria ut natura, ma solamente si «giustificano» in quanto tutelano… l’interesse, la libertà dell’altro, di colui il quale «sta accanto», a non subire lesioni involontarie a danno del diritto di proprietà (rectius, della signoria) che egli esercita sopra il proprio corpo.

Alla domanda, allora, perché non posso fare questo…? Perché non posso andare in quel luogo…? Perché non posso svolgere quella attività…? La risposta è una sola: per non danneggiare o esporre a pericolo di danno gli altri, coloro i quali, d’altronde, sarebbero titolari di una libertà che inizia... dove la tua termina[24].

Viceversa, secondo i paradigmi della modernità forte (sub (b)) il problema sarebbe tutto racchiuso entro la prospettiva dello Stato: il citoyen rousseauiano, infatti, è – possiamo dire – in funzione dello Stato; egli è una frazione del corpo politico, la quale frazione esiste e ha valore solo in quanto «parte» del corpo stesso e solo nella misura nella quale il corpo le dà valore secondo la propria volontà insindacabile.

Di talché, la vita e la salute sarebbero beni giuridici, in questa prospettiva, in tanto in quanto la norma così li qualifichi e secondo la insindacabile qualificazione che essa ne dà… in casibus.

La vita umana e la salute, infatti, non sarebbero e non potrebbero essere beni giuridici in se, eppertanto normativi e regolativi della stessa Legislazione, pena una deficienza di sovranità dello Stato medesimo, eppertanto la di lui negazione concettuale. Di conseguenza – entriamo bruscamente in medias res – la salute, la vita, la integrità fisica del citoyen rilevano e hanno valore «giuridico», in questa prospettiva, nella misura nella quale esse «servano», in un modo o nell’altro, allo Stato, alle sue progettualità interne: esse valgono in quanto «beni» dello Stato; in quanto beni sopra i quali lo Stato stesso esercita le proprie prerogative sovrane e conseguentemente decide e stabilisce se, come, quando e perché vadano o non vadano esposte a rischi, indifferente essendo l’opinione personale dell’interessato, la natura delle cose, le oggettive ragioni di giustizia et coetera.

Il problema, dunque, qui si riduce – come supra cennato – a un aspetto funzionalistico della cosiddetta sanità pubblica, all’ordine pubblico sanitario, quale «ordine» per sé voluto dallo Stato e quale condizione «necessaria» all’auto-conservazione dello Stato stesso; quale mezzo, quindi, pel raggiungimento, da parte sua, degli scopi che esso stesso per sé elegge[25]. Si tratta – come è evidente – di una prospettiva la quale, almeno nella sua formulazione più schietta, appartiene a una concezione della politica e del diritto assai lontana, legata – possiamo approssimativamente dire – al «vecchio positivismo», allo Stato-forte che da decenni ha smessa la sua «veste» autoritaria (abbiamo parlato di «veste»…).

La nostra opinione, allora – tornando al tema e conchiudendo il discorso – ci porta a sostenere che il compendio motivazionale alla base della disciplina emergenziale de qua alberghi, almeno in linea di massima, nell’opzione sub (c), vale a dire nell’opzione propria del positivismo debole, in virtù della quale il sacrificio delle cosiddette libertà civili, imposto dalle norme in parola, sarebbe giustificato dalla mera necessità di tutelare … la libertà altrui, la salute altrui intesa come libertà «di» salute, non come bene giuridico in sé, come bene oggettivo la natura del quale ne impone una protezione «forte» e «sostanziale».

Se è vero, infatti, che un ipotetico ritorno all’autoritarismo palese, «forte», è smentito dallo stesso «stile» adottato dei Vertici delle Istituzioni e ancora di più dagli stessi tentativi di negoziare, magari a posteriori, la medesima disciplina emergenziale, oltrecché, ovviamente, dal compendio di contributi e di regalie che essa disciplina accompagna alle norme restrittive imposte, cercando di perequare le risorse tra le varie lobbies di riferimento; è ancora più vero che pensare a una consapevole riviviscenza del giusnaturalismo classico e a una consapevole tutela, da parte del Governo (quale Legislatore sui generis), del bene della salute come bene veramente indisponibile, a nostro avviso è cosa assai ardita (stavamo per scrivere ottimistica).

Sarebbe come dire che l’emergenza in corso ha radicalmente mutate le categorie concettuali consolidatesi negl’ultimi decenni attraverso una Giurisprudenza e una Legislazione pressoché granitiche… salvo eccezioni e contraddizioni tanto rare, quanto felici[26].

Ciò, secondo il nostro intendimento, è pacifico, anche se, indubbiamente, un’esigenza e un effetto dello «ordine naturale» pur residuano – forse perché insopprimibili, forse per l’incapacità di una radicale coerenza – nel compendio normativo del quale stiamo parlando. Vero è che la normazione in parola non risulta perfettamente coerente con la prospettiva «pura» della modernità liberale: essa, cioè, non è così granitica nell’escludere un’apertura, magari accidentale, verso quel realismo di fondo, il quale rappresenta una insopprimibile indigenza e della politica e del diritto[27].

Vediamo d’intenderci.

Ebbene, sotto diversi profili la legislazione de qua proprio smentisce il liberalismo medesimo attraverso una contraddizione di fondo che la caratterizza trasversalmente: l’indisponibilità delle norme a tutela della salute e la loro vincolatività anche rispetto a circostanze del tutto private e intime delle persone ne è eloquente prova. Basti, per ora, questa osservazione: i divieti e le restrizioni imposti dalle norme de quibus hanno carattere generale e inderogabile.

Essi, cioè, impongono cautele, attenzioni e limiti anche a coloro i quali, per le più disparate ragioni, desiderassero, di esporre la propria salute e la propria vita ai pericoli della pandemia. Per esempio le frequentazioni sociali sono vietate, anche tra coloro i quali, consapevoli del rischio, volessero comunque mantenere i proprii contatti interpersonali (familiari e non), con il libero accordo di tutti i convenuti.

Oppure, altro esempio, le attività produttive sono state sospese per norma, senza che agli imprenditori e ai dipendenti fosse consentito di svolgere il loro lavoro, qualora ovviamente essi medesimi avessero voluto comunque esporre a rischio la propria salute, magari sulla base di una diversa scala valoriale e di priorità (prima il profitto, poi la salute).

La norma, in questo caso – si badi bene – non consente l’astensione dal lavoro a chi voglia evitare rischi senza imporla a chi, invece, i rischi desidera correre, come avrebbe dovuto fare se essa fosse stata veramente coerente con le categorie dommatiche del liberalismo radicale, ma impone, a tutti, un divieto inderogabile, operando, per tutti indistintamente, un insindacabile e vincolante giudizio di preminenza valoriale della salute sulle «ragioni» del lavoro (dell’economia, della finanza, dell’impresa…).

Perché?

Certo, si può rispondere – forse in modo un po’ sbrigativo – per evitare i contagi; per preservare, cioè, quella che supra abbiamo chiamata libertà «di» salute; per evitare il mero danno ad altri, il quale è non altrimenti evitabile. Roma locuta, causa finita … Ma questa risposta sarebbe – a nostro avviso – insoddisfacente e parziale: essa, cioè, se offre sì le ragioni di un intervento restrittivo in materia di lavoro, non offre, però, le ragioni in virtù delle quali il divieto de quo è stato imposto in modo generale e inderogabile a tutti, senza consentire a coloro i quali avessero voluto affrontare i rischi in parola di affrontarli liberamente.

La risposta, cioè, non riesce a dire per quale ragione la normativa in disamina abbia inciso sul diritto di autodeterminazione della persona in relazione alla propria vita e alla propria salute.

Dopotutto – dobbiamo rilevare – anche la decisione di affrontare un rischio sanitario è un atto di libertà negativa sul proprio corpo, è una forma di autodeterminazione del velle, è una decisione nella quale si invera la «personalità» più autentica del soggetto il quale, per sé e per il proprio corpo, liberamente decide come egli vuole … La «risposta liberale», cioè, non dice perché, per tutti, per norma, la salute debba ora venire prima del lavoro. Essa non dice perché tutti debbano prima tutelare la propria salute e solo poi «tutelare», se possibile, il proprio interesse lavorativo … anche perché, per tutelare la salute altrui, non sarebbe servito un divieto siffatto, ma sarebbe ampiamente bastato un sistema di isolamento lato sensu inteso per coloro i quali avessero voluto esporsi ai rischi de quibus, magari interno allo stesso complesso aziendale.

Se la vita e la salute, infatti, sono considerati beni disponibili, se essi, cioè, costituiscono l’oggetto di un diritto alla privacy dell’individuo, l’esercizio del quale dev’essere insindacabile, non si comprende perché, nel tempo dell’emergenza e per quanto riguarda il rischio dell’infezione da covid-19, questo non debba, coeteris paribus, valere comunque.

Gli esempi potrebbero proseguire. Tutto ciò, a ogni buon conto, pone e impone una domanda, e con questa una riflessione.

Non è forse possibile che dall’esperienza della pandemia e dalla generale condivisione, anche partitico-sociale, delle norme varate pel suo contrasto, sia opportuno «partire» per una più seria riflessione intorno al valore oggettivo della vita e della salute, intorno alla preminenza di queste rispetto a qualsiasi forma di libertà, e intorno alla naturale indisponibilità di quelli che effettivamente sono beni supremi dell’uomo?

 

[1] L’ovvio riferimento è al paradigma fissato dall’Art. 1 della Déclaration des droits et des devoirs de l’homme et du citoyen del 22 Agosto 1795 (premessa alla c.d. Constitution du 5 Fructidor An III), a mente del quale, per l’appunto, les droits de l’homme en société sont la liberté, l’égalité, la sûreté, la propriété” come a dire che i diritti appartengono all’uomo in quanto… cittadino, in quanto frazione (rousseauiana) del corpo politico.

[2] È noto che per quest’Autore “il diritto subbiettivo […] è la potestà di volere che ha l’uomo, riconosciuta e protetta dall’ordinamento giuridico” (G. Jellinek, Sistema dei diritti pubblici subbiettivi, Milano, S.E.L., 1912, p. 49). Per alcune riflessioni sul tema facciamo rinvio – si vis – a R. Di Marco, L’intelligenza del diritto. Sulla «oggettività» come problema giuridico… oltre il positivismo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2019, passim, in particolare cap. IV.

[3] Vincenzo Baldini, per esempio, ha tempestivamente avvertita la necessità di entrare in medias res, sotto il profilo del diritto costituzionale, per quanto concerne il «sacrificio» imposto per legge ordinaria ai cc.dd. diritti fondamentali; lo ha fatto con un interessante saggio: cfr. V. Baldini,  Prendere sul serio il diritto costituzionale… anche in periodo di emergenza sanitaria, in dirittifondamentali.it, Cassino, Associazione ARDEF, 1/2020, pp. 1272 e ss.

[4] Ovviamente facciamo riferimento – ça va sans dire – alla declinazione del «diritto all’autodeterminazione», la quale possa essere effettivamente contemplata dall’Ordinamento costituzionale vigente: quella, cioè, che afferisce alla fattispecie aperta dei diritti umani, per come direttamente o indirettamente conformati dallo ius positum. Vero è che la libertà negativa quivi rilevante è una libertà negativa «interna al Sistema», non mai contraria allo stesso, anche se essa può germinare al di fuori e poi «entrarvi» attraverso i cc.dd. processi (normativi, ermeneutici, giurisprudenziali…) di riforma. Nessun sistema ordinamentale, infatti, può concepire e contemplare diritti all’anarchia, diritti all’illegalità, diritti extra-Ordinamento, pena la sua stessa negazione teorica e operativa, anche se esso – questo sì – può farsi strumento-Istituzione per l’anarchia sostanziale. E ciò, sia attraverso la «via liberale» concretantesi nella positivizzazione di «diritti volitivi», cioè nella positivizzazione di facoltà sostanzialmente anti-giuridiche, ma legali, nell’ambito delle quali si compendia e si rende normativamente possibile una forma di esercizio della libertà negativa (si pensi al c.d. diritto di abortire o al c.d. diritto di partorire in regime di anonimato); sia attraverso la «via radicale» (che è uno sviluppo coerente del liberalismo) concretantesi, a sua volta, anche nella fornitura, diretta o indiretta, dei mezzi necessarii alla concreta realizzazione dei proprii desiderata, o per meglio dire, al concreto esercizio dei proprii diritti di e alla libertà. Di altra natura, invece, è il «vero» diritto all’autodeterminazione, quello che noi abbiamo chiamato diritto all’autodeterminazione dell’esse (dell’esse personae), e cioè… secundum esse, vale a dire secondo l’ordine proprio della natura umana, in sé e per sé normativa e regolativa della condotta dell’uomo, delle sue scelte, delle sue opzioni, delle sue facoltà. Per un’amplia trattazione del tema facciamo rinvio – si vis – ai nostri precedenti studii, in particolare al lavoro monografico R. Di Marco, Autodeterminazione e diritto, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017 e al saggio R. Di Marco, Sulla crisi dell’Ordinamento giuridico e sulla «metamorfosi» della pretesa in diritto, in L’Ircocervo, Venezia, Fondazione Gentile O.N.L.U.S., 2017, I.

[5] Ergo della sua «animalità», come scriverebbe un Autore colombiano condivisibilmente critico rispetto a un ideale di libertà intesa come esercizio dell’assoluta autodeterminazione del velle. Cfr. A. Ordòñez Maldonado, Hacia el libre desarrollo de nuestra animalidad, Bucaramanga, Universidad Santo Tomàs, 2003.

[6] È noto che per Kant il diritto si sostanzi nello “insieme delle condizioni per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio dell’altro” (I. Kant, Metafisica dei costumi, in N. Bobbio – L. Firpo – V. Mathieu (a cura di), Scritti politici di filosofia della storia e del diritto, Torino, U.T.E.T., 1965, p. 407).

[7] Ricordiamo che “la libertad liberal es […] esencialmente reivindicación de una indipendencia del orden de las cosas, esto es, del ‹dato› ontológico de la creación y, en el límite, independencia de sí mismo. Aquélla […] reivindica […] la soberanía de la voluntad […]. De ahí la reivindicación de las llamadas libertades ‹concretas›” (D. Castellano, La tradición política católica frente a las ideologías revolucionarias, Madrid, Consejo de Estudios Hispánicos Felipe II – Colección De Regno, 2019, pp. 94 e s.).

[8] Essa è evidente e chiara, come Danilo Castellano ha opportunamente mostrato (cfr. D. Castellano, Il «concetto» di persona umana negli Atti dell’Assemblea costituente e l’impossibile fondazione del politico, in D. Castellano, L’ordine politico-giuridico «modulare» del personalismo contemporaneo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2007, pp. 87 e ss.), a partire dagli Atti dell’Assemblea costituente – attraverso i quali si può meglio comprendere il Testo costituzionale –, fino alla più recente Giurisprudenza del Giudice delle Leggi, passando per tutta la normazione applicativa del Dettato costituzionale, anche attraverso la parziale novazione abrogativa delle disposizioni codicistiche ancorate a un tradizionale e naturale «realismo» (inteso come aderenza alla realtà, all’ontologia dell’essere, al carattere intrinsecamente normativo e regolativo della natura rerum).

[9] Una chiara analisi, in questo senso, è stata offerta dagli studi di Ayuso Torres, onde si fa rinvio a due sue Opere: cfr. M. Ayuso Torres, L’Àgora e la piramide. Una “lettura” problematica della Costituzione spagnola, Torino, Giappichelli, 2004 et M. Ayuso Torres, Costituzione. Il problema e i problemi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2019.

[10] H. Arendt, Che cos’è la politica?, Milano, Edizioni di Comunità, 1995, p. 23.

[11] In materia di disposizioni anticipate di trattamento sub L. 219/2017, facciamo rinvio – si vis – a un nostro scritto: cfr. R. Di Marco, Su taluni problemi (bio-)giuridici delle cc.dd. disposizioni anticipate di trattamento. Brevi cenni per un primo «schema» di riflessione, in Tigor: rivista di scienze della comunicazione e di argomentazione giuridica, Trieste, E.U.T. Edizioni Università di Trieste, 2018, 2.

[12] Cfr. D. Castellano – R. Di Marco, Le motivazioni della Corte costituzionale sul suicidio assistito: ulteriore atto di “protezione dell'anarchia” da parte del giuspositivismo assoluto, in Osservatorio tre Bio, Bologna, Filodiritto, 1, 2019.

[13] Come è noto, per esempio, per Kant “ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona” (I. Kant, Sopra il detto comune “questo può essere giusto in teoria ma non vale per la pratica” in N. Bobbio – L. Firpo – V. Mathieu (a cura di), Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto,  Torino, U.T.E.T., 1965, p. 255)

[14] 2 Aprile 1993, Corte Costituzionale, Sentenza № 163, Presidente: Casavola, Redattore: Baldassarre.

[15] A questo proposito merita di essere ricordata la Dottrina politico-giuridica di Danilo Castellano, dalla quale emergono, chiarissimi, gli errori delle tesi costruttivistiche che, da Montesquieu in poi, fanno della divisione dei poteri l’essenza stessa delle Costituzioni. Vero è che “il potere non può essere controllato con il potere (cioè dall’esterno), poiché, da una parte, mancano i veri criteri per esercitare un reale controllo e, dall’altra, il potere che riesce a ‹limitare› il potere sarebbe comunque potere arbitrario” (D. Castellano, Costituzione e costituzionalismo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2013, p. 66)

[16] Sul punto un sicuro insegnamento può essere tratto dal magistero di Danilo Castellano. Cfr. D. Castellano, Democrazia moderna e bene comune, in D. Castellano, L’Ordine della politica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1997, pp. 91 e ss.

[17] Quindi anche quella che, come i Decreti-Legge, i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, le Circolari o i Decreti ministeriali et coetera, all’interno di un dato Ordinamento, non ne porta il nomen formale perché resa vigente in forza di procedure particolari (e financo eccezionali).

[18] Non a caso san Tommaso l’ha definita “rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam communitatis habet promulgata” (San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, II, q. 90, a. 4).

[19] È noto, per esempio, l’insegnamento di Sinibaldo de’Fieschi secondo il quale “per plures melius veritas inquiritur”.

[20] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma – Bari, Laterza, 2012.

[21] Gerber, infatti, parlando dei “diritti civili generali” (C. F. von Gerber, Diritto pubblico, Milano, Giuffrè, 1971, p. 132), cioè del “diritto spettante ad ogni singolo cittadino di partecipare dei vantaggi che derivano anche al popolo dall’attività del potere statale” (Ibidem) afferma che essi “sono il riflesso del potere statale stesso” (Ibidem).

 

[22] Esempii, peraltro, in questo senso ve ne sono parecchi, anche al di fuori della legislazione emergenziale: basti pensare alle inderogabili e indisponibili discipline giuslavoristiche in materia di dispositivi di protezione individuale e di c.d. sicurezza nei luoghi di lavoro per averne immediata contezza; o anche a quelle che impongono l’uso di determinate provvidenze (casco protettivo e cinture di sicurezza) in relazione alla conduzione di veicoli a motore et coetera per altre conferme in tale senso.

[23] I. Kant, Metafisica dei costumi, Bari, Laterza, 1970, pp. 34 e s..

[24] Notiamo solamente a modo di chiosa che una siffatta impostazione nega ex se la stessa possibilità concettuale della comunità politica: essa, infatti, coerentemente, non sarebbe comunità di persone che vivono le une assieme alle altre secondo l’ordine proprio della comunità medesima, ma insieme di individui i quali stanno l’uno accanto all’altro, essendo impossibile l’eliminazione dell’altro stesso.

[25] Per esempio, il delitto di automutilazione preveduto dai Codici penali militari (di pace e di guerra), sotto questo profilo, era un tempo giustificato concettualmente, ed era concepito normativamente, come delitto che lede l’interesse militare dello Stato, nuocendo, l’atto di automutilazione medesimo, all’organico delle Forze Armate. L’art. 5 c.c., il quale vieta gli atti dispositivi del proprio corpo coi quali, non essendo necessaria, si provochi una mutilazione all’organismo umano, sotto questo profilo, mutatis mutandis, era altrettanto giustificato da un interesse dello Stato all’efficienza fisica dei cittadini: sia esso considerato sotto il profilo dell’interesse procreativo-demografico, sotto il profilo dell’interesse lavorativo, dal punto di vista militare, previdenziale, economico et coetera. Dopotutto, era il cittadino considerato in funzione dello Stato e non viceversa

[26] La disciplina del DPR 211/2003 in materia di esperimentazione farmacologica e clinica, per esempio, rappresenta un’eccezione inderogabile a tutela del bene giuridico della salute, proprio in quanto essa vieta l’appalto del proprio corpo e dunque ne vieta, in parte qua, una forma di arbitraria disposizione; la stessa disciplina codicistica in materia di perseguibilità d’ufficio per i reati di lesione personale grave e gravissima pure sottrae alla scelta dell’offeso la perseguibilità dell’offensore, sul presupposto che il bene giuridico tutelato non sia almeno pienamente disponibile.

[27] Cfr. D. Castellano, Sul realismo del Codice civile italiano, in D. Castellano, Quale diritto? Su fonti, forme, fondamento della giustizia, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015, pp. 93 e ss..