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La bigenitorialità: origini e sviluppi

Bigenitorialità
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La bigenitorialità: origini e sviluppi

Il c.d. principio di bigenitorialità, sempre più oggetto di attenzione di dottrina e giurisprudenza, merita di essere inquadrato con maggiore puntualità

Con la legge n. 54/2006, si modifica il sistema previgente dell’affidamento affermando, come principio generale, che l’affidamento dei figli e l’esercizio della potestà compete ad entrambi i genitori, estendendo la normativa anche alle coppie non coniugate.

In realtà, il legislatore del 2006, nella manovra di rinnovamento della disciplina, si allinea sia con i principi sanciti dalla Convenzione sui diritti del fanciullo sia con i principi contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

In particolare, la Convenzione sui diritti del fanciullo, sottoscritta a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con la legge n. 171/1991, stabilisce che gli Stati devono rispettare “il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i genitori” (art. 9, comma 3), anche ove essi risiedano in Stati diversi (art. 10, comma 2), salvo nel caso in cui le relazioni con entrambe le parti siano contrarie agli stessi interessi superiori del minore (art. 9, comma 3). La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, riconosce il diritto dei bambini a ricevere la protezione e tutte le assistenze necessarie per il proprio benessere, il diritto ad esprimere la propria opinione liberamente in relazione agli aspetti riguardanti crescita, formazione e sviluppo, tenendo conto dell’età e della maturità degli stessi (art. 24, comma 1), sancendo specialmente “il diritto per ogni bambino di intrattenere relazioni personali e diretti con entrambi i genitori, salvo che ciò sia contrario al suo interesse” (art. 24, comma 3). A livello europeo, la necessità di intendere la bigenitorialità come un diritto soggettivo del minore da inquadrare nell’ambito dei diritti della personalità, e non come una legittima rivendicazione del genitore escluso dall’affidamento, era stata avvertita da tempo. In tale senso, la relazione che accompagna la riforma del 2006 sottolinea come il nuovo testo dell’art. 155 c.c. avvicini l’ordinamento giuridico nazionale a quello dei principali Paesi europei che prevedono il diritto del figlio alla bigenitorialità (Belgio, Regno Unito, Olanda e Germania). Il legislatore italiano, introducendo il principio della bigenitorialità, prepara il nostro ordinamento ad accogliere qualsiasi strumento volto a consentire il superamento della conflittualità tra le parti; tale apertura è strettamente connessa alla rivalutazione della bilateralità del rapporto parentale, quella bilateralità che dovrebbe indurre l’ordinamento a garantire, anche al di là della crisi della convivenza, il rispetto dell’autonomia della famiglia e del ruolo essenziale dei genitori nell’impostazione e nell’attuazione del legame educativo.

La normativa del 2006, pur concentrando l’attenzione sull’interesse del minore, presenta vistose criticità: nel corso del tempo, la giurisprudenza ha spesso optato per la soluzione “bigenitoriale” nella forma e per quella “monogenitoriale” nella sostanza. Per effetto della più recente riforma introdotta dalla legge n. 219/2012 e dal d.lgs. n. 154/2013, il contenuto del diritto in discussione è stato ampliato, estendendolo alla conservazione, anche in seguito alla separazione, di rapporti significativi con i parenti di ogni ramo genitoriale. A tale proposito, vi è chi sostiene che il diritto del minore di mantenere rapporti significativi con i propri parenti consista in una specificazione del suo diritto di crescere in famiglia: il rafforzamento dei legami familiari affettivi, infatti, incide in modo considerevole sull’equilibrato sviluppo della personalità dello stesso. È interessante constatare come la “centralità della posizione del minore” affiori sotto vari angoli: nell’art. 337-ter c.c., in base al quale nell’ipotesi di separazione dei genitori i provvedimenti inerenti alla prole devono essere adottati con esclusivo riferimento “all’interesse morale e materiale di essi”; negli artt. 337-quater e 337-quinquies c.c., in virtù dei quali il giudice può affidare il minore ad uno solo dei genitori e attribuire il godimento della casa coniugale sempre tenendo presente “l’interesse del minore”; nell’art. 316 c.c., secondo cui il giudice chiamato a risolvere il contrasto tra i genitori “suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare”. In tale prospettiva, la centralità conferita al diritto alla bigenitorialità induce a ritenere che il minore non è più rilevato “come oggetto della c.d. potestà dei genitori e/o del potere officioso del giudice di individuarne l’interesse preminente, bensì quale soggetto di diritto, titolare di un ruolo sostanziale, con rilevanti riflessi processuali, e che “la “potestà” genitoriale […] si traduce in una “comune e costante assunzione di responsabilità nell’interesse esclusivo della prole”, funzionale alla promozione della personalità del minore”.

A titolo esaustivo, il concetto di “bigenitorialità” deve essere letto anche in chiave etico-psicologica. In tale contesto, la genitorialità non rinvia solo alla funzione, giuridicamente neutra, della protezione, cura e crescita della prole all’interno di valori da trasmettere, ma si declina come genitorialità materna e paterna, nonché come sede della condivisione e della trasmissione di “genere”: la maggior parte delle teorie psicologiche convengono nell’accordare spessore alla trasmissione del maschile e del femminile quali elementi basilari della crescita individuale.