x

x

La presunzione fatale

Friedrich A. von Hayek, 1988
La presunzione fatale - Friedrich A. von Hayek
La presunzione fatale - Friedrich A. von Hayek
La presunzione fatale

La presunzione fatale - Friedrich A. von Hayek

Perché leggere questo libro

Pubblicata dal suo autore a quasi novant’anni, La presunzione fatale costituisce il testamento intellettuale di Friedrich A. von Hayek, sintesi e approdo della sua quasi secolare attività di ricerca. In questo libro l’economista e filosofo austriaco sostiene che la nostra civiltà dipende, nella sua origine e nella sua conservazione, dall’ordine esteso della cooperazione umana, un ordine più comunemente conosciuto come capitalismo.

Seguendo le tradizioni morali sorte spontaneamente e sottostanti all’ordine del mercato (tradizioni che non soddisfano i canoni di razionalità accettati dalla maggioranza dei socialisti, come la proprietà e i contratti) noi possiamo infatti generare e raccogliere una quantità di conoscenza e ricchezza immensamente più grande di quella utilizzata in una società pianificata dal centro secondo i dettami della ragione.

Se questo è vero, allora il socialismo è un errore, una nostalgia atavica della vita in piccoli gruppi che l’umanità primitiva ha praticato per decine di migliaia di anni. Secondo Hayek, anche quando sono animati dalle migliori intenzioni i socialisti che avversano l’ordine esteso del mercato e anelano riscrivere a tavolino le regole della morale, del diritto e dell’economia, si troveranno sempre nell’impossibilità di realizzare i loro obiettivi.

 

Punti chiave

  • I costruttivisti sociali e i socialisti sono vittime di una “presunzione fatale” perché credono di poter progettare l’intera società secondo i loro piani
  • Il socialismo fa leva sugli istinti atavici sedimentati nei lunghi millenni di storia in cui gli uomini primitivi hanno vissuto in piccoli gruppi tribali
  • Le regole morali altruiste e solidariste del piccolo gruppo non sono adatte alla grande società
  • L’ordine di cooperazione esteso si è affermato grazie alla selezione evolutiva di regole astratte di condotta
  • I gruppi che adottavano queste regole finivano per prosperare e moltiplicarsi rispetto agli altri
  • Socialisti e costruttivisti non comprendono l’origine e il funzionamento degli ordini spontanei come il mercato
  • La pianificazione sociale è impossibile perché nessuna mente può raccogliere la conoscenza dispersa tra milioni di individui
  • I governi potenti hanno spesso ostacolato l’espansione degli scambi e dei commerci
  • L’antica ostilità per il commercio e il denaro è ancora oggi molto presente tra gli intellettuali
  • Solo il capitalismo ha permesso la moltiplicazione delle vite umane sulla terra
  • L’aumento della popolazione ha determinato una maggiore divisione del lavoro, e quindi una creazione di ricchezza molto maggiore
  • La religione può aver contribuito a tramandare le istituzioni da cui dipende la civiltà, come la famiglia e la proprietà privata
  • Seguire la morale socialista può mettere a rischio il benessere e la sopravvivenza di gran parte della popolazione esistente

 

Titolo originale: The Fatal Conceit: The Errors of Socialism

 

Riassunto

La presunzione fatale

La presunzione fatale costituisce una profonda indagine sulle origini e sulla natura dell’etica e delle tradizioni morali. Con essa, Hayek ha inteso mettere in luce il conflitto tra i sostenitori di un ordine sociale spontaneo basato su una logica concorrenziale (l’ordine di mercato) e i fautori di un ordinamento organizzato dall’alto da un’autorità centralizzata che fa leva sul controllo dirigistico e collettivo delle risorse disponibili (il socialismo).

Questi ultimi, che Hayek chiama socialisti o costruttivisti sociali, sono vittime di inganni cognitivi e di tremendi abbagli valutativi, che li portano a commettere dei molteplici errori. Essi infatti sono intellettualmente incapaci di concepire la natura e le dinamiche degli ordini spontanei come il linguaggio, il mercato, il common law: quegli ordini, mutuando la felice espressione di Adam Ferguson, che sono il prodotto dell’azione umana, ma non del disegno umano.

I socialisti e tutti coloro che confidano nelle virtù salvifiche di una ragione che non riconosce i suoi limiti (ciò che Hayek ha più volte qualificato come “razionalismo costruttivista”) soffrono di una invincibile “presunzione fatale”: credono di sapere di più di quanto è possibile sapere, e pensano di poter conseguire fini impossibili da raggiungere.

Non comprendono che seguendo le tradizioni morali sorte spontaneamente e sottostanti all’ordine concorrenziale del mercato (come la proprietà privata e i liberi contratti: tradizioni che non soddisfano i canoni di razionalità accettati dalla maggioranza dei socialisti), noi possiamo generare e raccogliere una quantità di conoscenza e di ricchezza più grande di quella che potrebbe essere ottenuta e utilizzata in un sistema sociale diretto centralisticamente.

Questa incomprensione del funzionamento dell’ordine spontaneo esteso li porta a perseguire la distruzione di quelle tradizioni che, attraverso la loro genesi spontanea, la loro evoluzione e il loro adattamento selettivo, hanno consentito agli uomini di svilupparsi e di prosperare. I socialisti anelano infatti a soppiantarle con un sistema morale congegnato razionalmente, le cui promesse seducenti derivano dall’appello agli istinti atavici collettivistici sedimentati nel corso dei lunghi millenni durante i quali gli uomini primitivi hanno vissuto in piccoli gruppi tribali.

 

Il processo evolutivo della tradizione morale

A giudizio di Hayek, la tradizione morale non è né un prodotto della ragione, né un’emanazione delle pulsioni istintive, ma nasce da un processo di evoluzione culturale: «L’uomo non è nato saggio, razionale e buono, ma gli è stato insegnato a diventarlo. Non è il nostro intelletto che ha creato la nostra morale; piuttosto, le interazioni umane governate dalla nostra morale rendono possibile la crescita della ragione e le capacità associate a essa. L’uomo è diventato intelligente perché per lui c’era a disposizione una tradizione da apprendere, una tradizione che giace tra l’istinto e la ragione» (p. 35). È dunque erroneo pensare che la nostra ragione sia in una posizione critica superiore e che possa giudicare quali regole morali siano giuste e quali no, dato che la stessa ragione è, al pari della nostra morale, l’esito di una selezione evolutiva.

Il nostro sistema di tradizione morale non è stato deliberato a tavolino da nessuno, né è stato imposto da qualche autorità illuminata. Al contrario, esso è il retaggio di un sistema di regole astratte di condotta, emerse in via irriflessa e che hanno accompagnato e supportato il percorso evolutivo delle interazioni individuali. Sono precisamente l’emergere e l’affermarsi di queste molteplici regole che hanno propiziato il progresso: esse hanno consentito il passaggio dalla logica del “piccolo gruppo”, tipica di comunità di raccoglitori/cacciatori, in cui a dominare erano gli istinti solidaristici e altruistici che trovavano dispiegamento solo all’interno del medesimo gruppo ristretto, alla logica dell’ordine esteso, rappresentativa di interazioni sociali ben più vaste.

Con il passare del tempo, si svilupparono le tecniche agricole e vennero a costituirsi i primi insediamenti urbani. I traffici, i commerci, gli scambi sorsero in via del tutto naturale e, come logica conseguenza, si assistette a un rapido incremento demografico. A sua volta, questo processo di crescita, assistito da un relativo senso di certezza economica, contribuì a destabilizzare le dinamiche del piccolo gruppo “introverso”, in quanto le persone potevano ora vivere ed operare in un contesto più aperto.

Le regole di cooperazione nel piccolo gruppo chiuso non erano più adatte alle esigenze di comunità diventate “cosmopolite”. Dovette necessariamente imporsi un cambio di paradigma, pena l’isolamento e la stagnazione economica dei gruppi che non si fossero adeguati. Tale cambiamento avvenne, in virtù del processo di evoluzione sociale, con l’adozione di regole astratte di condotta, sorte per via spontanea e poi trasmesse attraverso la tradizione, l’insegnamento e l’imitazione. Queste norme astratte di condotta contribuirono a stimolare l’innovazione e la sperimentazione in tutti gli ambiti toccati dalle nuove logiche di interazione sociale, come la proprietà personale, il contratto, lo scambio, la concorrenza, il profitto, la riservatezza.

Trattasi di vere e proprie regole negative (“tu non devi”) intese a limitare o a inibire le innate pulsioni istintuali, la cui osservanza aveva sempre garantito al piccolo gruppo di realizzare un fine condiviso. Gli individui del gruppo allargato sperimentarono che l’auto-imposizione di restrizioni alla propria condotta, in realtà, avrebbe agevolato il perseguimento dei propri fini personali: non direttamente, ma soddisfacendo i bisogni di altri individui che inseguivano fini diversi. Tutte queste nuove regole si sono diffuse non tanto in virtù della reale consapevolezza della loro particolare efficacia o utilità, ma perché consentivano ai gruppi che le avevano fatte proprie di riprodursi con maggior successo e facilitavano l’inclusione degli estranei.

 

Le conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali

Per Hayek esistono quindi due distinte fonti di tradizioni morali. La prima è la moralità istintuale innata basata sul solidarismo, l’altruismo e il perseguimento di obiettivi comuni: è la tradizione tipica del piccolo gruppo, del clan, della famiglia, che mira a preservare la propria sopravvivenza interna e a raggiungere scopi ed aspirazioni condivisi. La seconda è la tradizione della moralità evoluta (proprietà, scambi, contratto) che ha promosso l’ordine esteso in cui milioni di persone cooperano senza neanche conoscersi.

Ma è un fatto altrettanto pacifico che la maggioranza delle persone non sia in grado di comprendere la natura, le logiche e i benefici sottesi all’operare di queste tradizioni, specie di quelle affermatesi nel corso del processo evolutivo. È infatti pressoché impossibile, per la mente umana, disporre degli strumenti e di tutte le conoscenze fondamentali per intercettare e dirigere, in maniera ingegneristica, il comporsi imprevedibile degli effetti collaterali di tutte le azioni individuali (“eterogenesi dei fini” o “principio delle conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali”).

Ecco spiegato il motivo per cui, a giudizio di Hayek, il funzionamento dell’ordine esteso supera di gran lunga l’ambito della nostra comprensione e delle nostre percezioni sensoriali, perché incorpora e genera conoscenze che nessuna mente individuale o nessuna singola organizzazione potrebbe inventare o padroneggiare.

 

L’estensione della Grande Società attraverso il commercio

Una volta sorto, l’ordine esteso basato sulla proprietà individuale, la libertà e la giustizia ampliò progressivamente la propria estensione grazie al commercio, il quale apparve molto presto, prima dell’agricoltura e di ogni altra forma di produzione regolare. Il commercio a lunga distanza infatti è molto più vecchio di ogni altro tipo di contatto tra gruppi antichi che si possa attualmente individuare. In Europa ci sono prove di commerci su grandi distanze fin dai tempi del paleolitico, almeno 30.000 anni fa.

Lo stabilirsi di questo processo di mercato non deve essere stato semplice, perché accompagnato da una sostanziale disgregazione delle antiche tribù. Prima che le comunità si adattassero a permettere ai loro membri di portare via articoli desiderabili, posseduti dalla comunità e disponibili per l’uso locale, affinché venissero usati da stranieri, si sono dovute diffondere delle pratiche precedentemente sconosciute. Queste nuove pratiche devono aver incluso, come minimo, ospitalità, protezione e passaggio sicuro.

Queste estese possibilità di trattare vantaggiosamente con gli stranieri contribuirono senza dubbio a rafforzare la rottura, che era già avvenuta, con la solidarietà, gli scopi comuni e il collettivismo dei piccoli gruppi originari. In ogni caso, alcuni individui si separarono, o si liberarono dal passato e dalle obbligazioni della piccola comunità, e cominciarono non soltanto a creare altre comunità, ma anche a porre le fondamenta di una rete di relazioni con i membri di comunità diverse, una rete che in ultima analisi ha coperto tutta la terra.

Questo processo rese possibili nuove specializzazioni lavorative in nuove località, portando a un grande aumento della popolazione rispetto alle comunità chiuse dedite delle alla sola coltivazione della terra. Cominciò in tal modo una reazione a catena: la sempre maggior densità della popolazione, portando alla scoperta di opportunità di divisione del lavoro, produsse ulteriori aumenti della popolazione e del reddito pro-capite, che resero possibile un ulteriore aumento della popolazione, e così via.

 

Come i governi forti hanno soffocato gli ordini estesi del mercato

Questo straordinario processo di civilizzazione è stato realizzato dal coordinamento spontaneo degli sforzi individuali, non dai governi, il cui ruolo è stato molto esagerato nei resoconti storici. Il commercio infatti, non solo è più antico dello Stato, ma si può anche dimostrare che i governi hanno spesso ostacolato lo sviluppo dei commerci su lunghe distanze. I governi potenti hanno ripetutamente danneggiato a tal punto il miglioramento spontaneo che il processo di evoluzione culturale fu condotto a una morte prematura.

Ad esempio Roma durante gli ultimi anni della repubblica e i primi secoli dell’impero, quando era governata da un senato i cui membri erano profondamente coinvolti negli interessi commerciali, dette al mondo il prototipo di un diritto privato basato sulla concezione più assoluta della proprietà individuale. Il declino e il collasso finale di questo primo ordine esteso sopravvenne soltanto dopo che a Roma l’amministrazione centrale si sostituì progressivamente all’iniziativa privata.

Questa sequenza si è ripetuta molte volte. La storia della Cina fornisce molti esempi di tentativi governativi di imporre un ordine così perfetto da rendere impossibile l’innovazione. Nella Cina imperiale grandi avanzamenti civili e tecnologici si ebbero durante i ricorrenti “tempi di disordine”, quando il controllo del governo era temporaneamente indebolito. Ma queste ribellioni o situazioni di anormalità vennero regolarmente soffocate dal potere di uno Stato preoccupato della decisa conservazione dell’ordine tradizionale.

Analogamente, a proposito della rinascita della civiltà europea durante il tardo Medioevo si può dire che l’espansione del capitalismo e della civiltà europea trovi le sue origini e la sua ragione d’essere nell’anarchia politica, come sottolineato da Jean Baechler. Non fu sotto i governi più potenti, ma nelle città del Rinascimento italiano, della Germania meridionale, dei Paesi Bassi e di un’Inghilterra priva di un governo forte, governata cioè da borghesi piuttosto che dai guerrieri, che si sviluppò l’industrialismo moderno. La protezione della libertà individuale, non la direzione del suo uso da parte del governo, ha posto le fondamenta per la crescita di una fitta rete di scambi che ha formato l’ordine esteso.

Niente è più ingannevole, allora delle formule tanto comuni degli storici quando rappresentano il conseguimento di uno Stato potente come culmine dell’evoluzione culturale: esso ha invece spesso segnato la sua fine. Sotto tale aspetto gli studiosi di storia antica sono stati eccessivamente impressionati dai monumenti e dai documenti lasciati dai detentori del potere politico, mentre i veri costruttori dell’ordine esteso sono coloro i quali, il più delle volte, hanno creato quella ricchezza che ha reso possibile la costruzione dei monumenti, sebbene abbiano lasciato testimonianze meno tangibili e vistose delle loro imprese.

 

Il misterioso mondo del commercio e della moneta

Quanto poco la ricchezza dei principali centri commerciali della Grecia antica fosse il risultato di politiche governative deliberate, e quanto poco fosse compresa la fonte stessa della prosperità, è illustrato nel miglior modo dalla totale incomprensione da parte dei filosofi antichi dell’ordine avanzato di mercato nel quale vivevano. Per gli sforzi acquisitivi del mercato, Platone e Aristotele avevano soltanto disprezzo. Anche l’atteggiamento anticommerciale della Chiesa nel Medioevo e all’inizio dell’età moderna, la condanna dell’interesse come usura, il suo insegnamento del giusto prezzo e la sua sprezzante considerazione del guadagno sono espressione dell’antica ostilità verso il mercante.

Ci sono molte ragioni che spiegano tali atteggiamenti. Le attività che sembrano aumentare la ricchezza “dal niente”, senza creazione fisica e senza sforzo muscolare, sembrano odorare di stregoneria. In realtà, anche se si tratta di un fatto non intuitivo, il commercio aumenta il valore dei beni, cioè la loro capacità di soddisfare i bisogni umani. Il pregiudizio che sorge dal sospetto nei confronti delle misteriose attività commerciali raggiunge i livelli più alti quando viene rivolto verso le istituzioni commerciali più astratte, come la moneta e la finanza. Se il mercante era visto con sospetto per la sua capacità di alterare il valore delle cose, quanto più sarà temuto il banchiere per le trasformazioni che egli opera con la più astratta e immateriale di tutte le istituzioni economiche, la moneta?

Ancora oggi, ciò che gli intellettuali imbevuti di costruttivismo trovano più riprovevole è che gli industriali, i commercianti e i finanzieri non si interessano ai bisogni concreti della gente conosciuta, ma ai calcoli astratti di costi e profitti. Essi però dimenticano, o non hanno mai compreso, che la preoccupazione per il profitto è ciò che rende possibile l’uso più efficiente delle risorse. Attraverso il calcolo dei profitti e delle perdite l’imprenditore si protende, nella sua attività, oltre gli obiettivi vicini e conosciuti, per servire gli innumerevoli fini di un gran numero di persone sconosciute.

Ciò nonostante, un’etica anticapitalistica continua a svilupparsi sulla base di errori, da parte di persone le quali condannano le istituzioni che creano ricchezza, e alle quali esse stesse devono la propria vita, come la libertà individuale, il contratto, la concorrenza, la pubblicità, il profitto, la moneta. Immaginando che la loro ragione possa dire loro come organizzare gli sforzi umani per meglio servire i loro desideri, essi pongono una grave minaccia alla civiltà.

 

L’ordine esteso e la crescita della popolazione

L’ordine esteso della cooperazione umana si è evoluto malgrado l’opposizione proveniente dai nostri istinti, malgrado la paura di tutte le incertezze inerenti ai processi spontanei, malgrado la diffusa ignoranza economica e malgrado tutti questi atteggiamenti siano portati avanti da movimenti che cercano di usare mezzi supposti razionali per raggiungere fini decisamente atavici. Il problema è che l’ordine esteso crollerebbe, e gran parte della popolazione soffrirebbe e morirebbe se questi movimenti avessero successo nel sostituire il mercato. Né il socialismo né alcun altro sostituto dell’ordine di mercato potrebbe sostenere l’attuale popolazione del mondo. Distruggere le sue basi materiali per conseguire i miglioramenti “etici” o istintivamente gratificanti sostenuti dai socialisti equivarrebbe a volere la morte di miliardi di persone e l’impoverimento delle popolazioni restanti.

L’odierna idea che la crescita della popolazione minacci di produrre un impoverimento a livello mondiale è semplicemente un errore. È stato l’aumento del numero degli uomini, e la crescente differenziazione, che ha portato all’aumento della produttività. Gli uomini sono diventati potenti perché sono diventati sempre più diversi tra loro. Le nuove possibilità di specializzazione permettono infatti un uso migliore delle risorse della terra.  Non c’è nessun esempio nella storia in cui un aumento della popolazione abbia ridotto gli standard di vita già raggiunti. Il presunto problema della sovrappopolazione, in ogni caso, si sta già ridimensionando, dato che il tasso di crescita della popolazione si sta ora avvicinando al suo massimo o lo ha già raggiunto.

L’enorme, aumento delle popolazioni che ha luogo nelle baraccopoli o bidonville che circondano città come San Paolo, Città del Messico, Il Cairo, Calcutta, Giakarta, Caracas, Lagos o Bombay deriva dal fatto che le persone che vivono alla periferia delle economie di mercato godono già dei suoi vantaggi (ad esempio, possono accedere a una medicina più avanzata), ma non si sono ancora adattate pienamente ai costumi di queste economie. Sono infatti ancora legate alle pratiche di procreazione legate alla più antica vita rurale, nelle quali bisognava massimizzare il numero dei figli per avere la sicurezza di generare un numero di discendenti sufficienti a provvedere per la vecchiaia.

 

Il capitalismo ha moltiplicato il numero delle vite umane

Le città hanno offerto sostentamento a milioni di individui che altrimenti sarebbero morti, o non sarebbero mai nati, se essi o i loro genitori non vi fossero emigrati dalle campagne. Per questa ragione si può affermare che il capitalismo ha dato letteralmente vita al proletariato: non nel senso che ha impoverito una popolazione preesistente privandola degli strumenti di produzione, come sostengono i marxisti; ma nel senso che la maggior parte degli individui che attualmente compongono il proletariato non sarebbero potuti esistere, se prima altri non avessero fornito loro i mezzi di sussistenza. Se ci chiediamo che cosa gli uomini debbano maggiormente alle pratiche morali del capitalismo, la risposta è: la loro vita.

Sebbene queste persone si possano sentire sfruttate, e sebbene i politici possano eccitare questi sentimenti per acquisire potere, gran parte del proletariato occidentale e la maggior parte dei milioni di persone dei paesi in via di sviluppo devono la loro esistenza alle opportunità create dai paesi avanzati. La prontezza con cui la gente comune del Terzo mondo, a differenza degli intellettuali occidentali, accoglie le opportunità offerte dall’ordine esteso, anche se ciò significa trasferirsi dalle campagne alle baraccopoli delle periferie, è del tutto analoga alla reazione che ebbero secoli fa i contadini europei di fronte all’introduzione del capitalismo urbano. Questi comportamenti dimostrano che la gente, se può decidere, sceglie sempre la civiltà.

 

La religione, guardiana della tradizione

Rimane da affrontare un quesito affascinante. Come ha fatto a conservarsi e ad ampliarsi nei secoli l’ordine esteso del mercato? Come poterono tradizioni che non piacevano e che non erano comprese dalla gente, i cui effetti solitamente non venivano apprezzati, e che non potevano essere né visti né previsti, e che ancora oggi sono ardentemente combattuti, continuare a passare da generazione a generazione? Come sono state preservate di fronte alla forte opposizione dell’istinto e poi, più recentemente, di fronte agli assalti della ragione?

Pur essendo un agnostico dichiarato, Hayek ipotizza che un ruolo decisivo sia stato giocato dalla religione. C’è infatti un’indubbia connessione storica tra la religione e i valori che hanno formato e fatto progredire la nostra civiltà, come la famiglia e la proprietà individuale. Questo non significa che vi sia un rapporto necessario tra la religione e questi valori. Tra i fondatori di religioni degli ultimi duemila anni, molti si sono opposti alla proprietà e alla famiglia, ma le religioni che sono sopravvissute sono quelle che sostengono la proprietà e la famiglia.

Il socialismo, anche se ispirato da buone intenzioni, può dunque solo mettere in pericolo standard di vita e la vita stessa di gran parte della popolazione attualmente esistente. Il contrasto tra ordine di mercato e socialismo riguarda addirittura la nostra sopravvivenza. Seguire la morale socialista, conclude Hayek, distruggerebbe gran parte del genere umano attuale e impoverirebbe gran parte di ciò che del genere umano rimarrebbe.

 

Citazioni rilevanti

La cooperazione nell’ordine esteso: si serve per essere serviti

«Nelle nostre attività economiche noi non conosciamo i bisogni cui diamo soddisfazione né la fonte delle cose che utilizziamo. Quasi tutti noi serviamo persone che non conosciamo e delle quali ignoriamo addirittura l’esistenza; e, nel contempo, viviamo costantemente grazie ai servizi di altre persone di cui non sappiamo niente. Tutto ciò è possibile perché ci troviamo all’interno di una grande cornice di istituzioni e tradizioni - economiche, giuridiche e morali - nelle quali ci inseriamo obbedendo a certe regole di condotta che noi non abbiamo mai creato e che non abbiamo mai capito (nel senso in cui “capiamo” il funzionamento delle cose che fabbrichiamo» (pp. 44-45).

 

Il vero scopo del socialismo

«Così il genere umano si vanta di aver costruito il proprio mondo come se esso fosse stato progettato, biasima di non averlo progettato meglio, e adesso è esattamente pronto a ricostruirlo. Lo scopo del socialismo è niente di meno che portare a effetto una completa riprogettazione della nostra morale tradizionale, del nostro diritto e del nostro linguaggio, e, su queste basi, di distruggere il vecchio ordine e quelle assurde e presunte inesorabili condizioni che proibiscono l’instaurarsi della ragione, la realizzazione di se stessi, la vera libertà e la giustizia» (p. 121).

 

L’immensa complessità dell’ordine esteso di mercato

«Per quanto ne sappiamo, l’ordine esteso è probabilmente la più complessa struttura che esiste nell’universo – una struttura nella quale gli organismi biologici, che sono già molto complessi, hanno acquisito la capacità di imparare, di assimilare parte delle tradizioni sovrapersonali che li rendono capaci di adattarsi, da un momento all’altro, in una struttura sempre in cambiamento, che possiede un ordine a un livello ancora più alto di complessità» (p. 207).

 

Il grado di civiltà dipende dal numero degli individui

«noi possiamo essere pochi o selvaggi, o molti e civilizzati. Se fosse ridotto alla sua popolazione di diecimila anni fa, il genere umano non potrebbe preservare la civiltà. Difatti, anche se la conoscenza già ottenuta fosse custodita nelle biblioteche, l’uomo non potrebbe utilizzarla senza i numeri necessari per occupare i lavori richiesti da un’estesa specializzazione e divisione del lavoro. Tutta la conoscenza disponibile nei libri non impedirebbe alle diecimila persone che si fossero salvate da qualche parte, dopo un olocausto atomico, di dover ritornare a una vita di cacciatori e di raccoglitori, sebbene una siffatta conoscenza probabilmente ridurrebbe l’ammontare totale di tempo in cui gli uomini dovrebbero rimanere in condizioni del genere» (p. 216).

 

L'autore

Hayek

Friedrich August von Hayek (1899-1992) nasce a Vienna l’8 maggio del 1899 da una famiglia dell’aristocrazia austriaca. Durante la Prima Guerra Mondiale combatte come ufficiale sul fronte italiano. Conclusa l’esperienza della guerra, consegue la laurea in Giurisprudenza e Scienze politiche presso l’Università di Vienna. In questo periodo entra in contatto con i più grandi economisti austriaci, come Friedrich von Wieser, Eugen von Böhm - Bawerk e Ludwig von Mises. L’incontro con Mises si rivelerà fondamentale sul piano umano, professionale e intellettuale.

Nel 1931, su invito di Lionel Robbins, si reca in Inghilterra per tenere una serie di lezioni alla London School of Economics. Nel 1944 La via della schiavitù gli procura una grande notorietà in quasi tutto il mondo. Per diffondere le idee del liberalismo Hayek fonda nel 1947 la Mont Pelerin Society, che riunisce ogni anno, nell’omonima località svizzera, i maggiori pensatori liberali del mondo. Tre anni dopo si trasferisce negli Stati Uniti con l’incarico di professore di scienze sociali all’università di Chicago.

Nel 1962, dopo dodici anni di permanenza negli Stati Uniti, torna definitivamente in Europa per insegnare politica economica all’università di Friburgo in Germania. Nel 1974 gli viene conferito il Premio Nobel per l’Economia, riconoscimento che rilancerà in tutto il mondo le idee della Scuola Austriaca. Muore a Friburgo, il 23 marzo 1992. 

 

INDICE DEL LIBRO

Premessa all’edizione italiana, di Dario Antiseri

Premessa editoriale, di W.W. Bartley, III

Prefazione, di F.A. Hayek

 

Introduzione – Il socialismo è stato un errore?

 

I. Tra istinto e ragione

II. Le origini della libertà, della proprietà e della giustizia

III. L’evoluzione del mercato: commercio e civilizzazione

IV. La rivolta dell’istinto e della ragione

V. La presunzione fatale

VI. Il mondo misterioso del commercio e della moneta

VII. Il nostro linguaggio avvelenato

VIII. L’ordine esteso e la crescita della popolazione

IX. La religioni e I guardiani della tradizione

 

Appendici

Bibliografia

Indice dei nomi

 

Vuoi leggere centinaia di riassunti come questo riguardanti i più importanti libri di saggistica? 

Abbonati a Tramedoro. I grandi libri delle scienze sociali in pillole!

NOTA BIBLIOGRAFICA

Friedrich A. von Hayek, La presunzione fatale. Gli errori del socialismo, Rusconi Editore, Milano, 1997, traduzione a cura di Fabrizio Mattesini, p. 263.