L’avvocato è un imprenditore

L’avvocato è un imprenditore
L’avvocato è un imprenditore

Bologna, 22 maggio 2016

 

L’avvocato è un imprenditore

Premesso che come per ogni rilevamento i dati dell’ultimo Rapporto annuale del Censis sull’avvocatura italiana (marzo 2016) possono essere visti da prospettive diverse con conclusioni divergenti, cerco di limitarmi a leggere quelli che mi sembrano più eloquenti per sviluppare alcuni ragionamenti sull’avvocato e l’avvocatura: come la baionetta per Napoleone, ci si può fare tutto, tranne che sedervisi sopra.

Alla domanda “principali problemi incontrati nello svolgimento dell’attività professionale nell’ultimo biennio” il 71% degli avvocati con meno di 40 anni – la percentuale scende di poco, al 69% per quelli sino a 49 anni – ha risposto “peso crescente dei costi per adempimenti normativi, burocratici e fiscali” (erano possibili più opzioni, ma questa è la percentuale più elevata dopo il ritardato pagamento dei clienti).

Ciò è in linea con l’“assetto organizzativo dell’attività professionale” che vede il titolare unico di studio prevalere nettamente in tutte e tre le aree geografiche con percentuali crescenti da nord a sud per una media del 66,6%; con le “dimensioni dello studio” che nel 63,5% dei casi prevedono la presenza del solo intervistato o, al più, di 2-3 persone e, infine, per quel che mi interessa, con “gli studi professionali dotati di un sito web” a cui una media nazionale del 20,9% risponde “sì ma ha solo finalità di promozione” (secondo me c’è un “ma” di troppo) e il 4,9%, sempre su base nazionale, “sì la finalità è di interagire con i clienti anche attraverso tale modalità”. Quest’ultimo dato è stato ampiamente diffuso dai quotidiani privilegiando l’aspetto negativo, vale a dire che 3 studi su 4 non hanno un sito web.

Sinceramente nessuno di questi dati mi sembra eclatante.

È singolare che la prima risposta, sui principali problemi, sia del tutto corrispondente a quella che avrebbe potuto dare un imprenditore. Questo mi porta a quello che sostengo da sempre (provocando il risentimento di tanti colleghi): che lo si voglia ammettere o no, l’avvocato  è un imprenditore (il discorso può essere esteso agli altri professionisti per i quali la questione è forse più ovvia) e deve sforzarsi di vedere il proprio studio professionale come un’azienda, con le sue diverse funzioni: amministrazione, IT, produzione, qualità, ricerca, marketing e commerciale. Ma come è possibile gestirle con regolarità se non si dispone di organizzazione e risorse sufficienti, interne ed esterne? non è tanto (o almeno non solo, inutile negarlo) una questione economica, bensì di tempo, spesso impegnato dal peso crescente dei costi per adempimenti e incombenti.

Non voglio reclamizzare uno dei tanti corsi/o libri per l’ottimizzazione del tempo e per la gestione dello stress, né proporre di utilizzare un programma gestionale, né ancora invitare alla certificazione degli studi professionali (su questi punti tornerò in futuro). Si tratta di sollecitazioni importanti, ma secondarie, il vero punto fondamentale è che se l’avvocato prende coscienza del suo essere imprenditore incomincia a ragionare diversamente, sin da quando svolge la pratica professionale (e prima sin dall’università, creandosi il bagaglio giusto di competenze) e, d’altro canto, se l’avvocatura lo riconosce e ne trae le conseguenze, incomincerà a sperimentare soluzioni specifiche, anche cercandole in campi diversi.

Faccio due esempi, rivolti all’avvocato e all’avvocatura.

Per quanto il passaparola sia comprensibilmente il modo principale per attrarre clientela, qualsiasi avvocato (meglio, imprenditore) sa bene che deve pensare al futuro e iniziare a rivolgere le risorse in modo da seminare oggi per raccogliere col tempo i frutti. Potrà fare rete (il rapporto evidenzia l’importanza crescente del network, anche con professionisti non colleghi), suddividere i compiti tra i propri collaboratori/colleghi pensando a funzioni, oppure gestire il proprio tempo ri-pensandosi  come amministratore e commerciale (non solo subendo).

L’imprenditore non sfrutta forse le risorse esistenti a costo zero o quasi? non lo può fare anche l’avvocato? Io penso di sì: è un mio cruccio che in quindici anni di attività sul web pochi siano i colleghi che hanno inviato a Filodiritto, commentandole, sentenze delle corti di merito, che senza dubbio hanno quotidianamente a disposizione e di cui conoscono bene motivazioni, errori interpretativi, giurisprudenza a favore e contro. Colpa di Filodiritto? Mi sembra che la questione valga per altri siti, forse in maniera lievemente diversa. Mi sono fatto tanti esami di coscienza e mi inventerò iniziative specifiche, ma credo che dipenda soprattutto dalla scarsa propensione a investire sulla propria reputazione e sul proprio nome, che è il marchio del professionista.

Proposta: un’ora al mese dedicata ad un contributo da inviare a Filodiritto o alle altre riviste on line. Un modo intelligente e gratuito per promuovere la propria attività, farsi conoscere e contribuire ad accrescere reputazione e prestigio dell’intera categoria. Che, per inciso è una delle criticità segnalate dal rapporto del Censis.

Quanto all’avvocatura mi soffermo sul tema della formazione, paradigmatico. Il sistema attuale ha senso? I crediti come etti di mortadella. Pura forma, null’altro. L’avvocato deve tenersi aggiornato, certo che sì, ma la questione è di intima consapevolezza, convinzione (non di vuota imposizione) e di organizzazione (aziendale): io cresco se cresce il mio collaboratore a cui ho fatto seguire un corso – anche non accreditato – che mi trasferisce le competenze acquisite. Lui è contento perché matura e perché gli filtro quello che ha imparato con la mia esperienza e io lo sono perché ho potuto distillare quello che mi interessa senza dedicarvi mezza giornata. Il tema invece oggi è: inasprire la sanzioni in caso di mancata formazione, sino alla cancellazione dall’albo. Nella migliore delle ipotesi è puro autolesionismo della categoria.

Gli avvocati non sono professionisti ma imprenditori e gli ordini non riuniscono avvocati ma imprenditori, con diverse esigenze e vocazioni ma pur sempre imprenditori. Estremizzo? volenti o nolenti il futuro è questo, l’alternativa è il declino irreversibile della professione. Tanto è vero che i fondi europei ci impongono di ragionare in quest’ottica.

Alla prossima puntata, perché il rapporto Censis merita ulteriori approfondimenti.

Bologna, 22 maggio 2016

 

L’avvocato è un imprenditore

Premesso che come per ogni rilevamento i dati dell’ultimo Rapporto annuale del Censis sull’avvocatura italiana (marzo 2016) possono essere visti da prospettive diverse con conclusioni divergenti, cerco di limitarmi a leggere quelli che mi sembrano più eloquenti per sviluppare alcuni ragionamenti sull’avvocato e l’avvocatura: come la baionetta per Napoleone, ci si può fare tutto, tranne che sedervisi sopra.

Alla domanda “principali problemi incontrati nello svolgimento dell’attività professionale nell’ultimo biennio” il 71% degli avvocati con meno di 40 anni – la percentuale scende di poco, al 69% per quelli sino a 49 anni – ha risposto “peso crescente dei costi per adempimenti normativi, burocratici e fiscali” (erano possibili più opzioni, ma questa è la percentuale più elevata dopo il ritardato pagamento dei clienti).

Ciò è in linea con l’“assetto organizzativo dell’attività professionale” che vede il titolare unico di studio prevalere nettamente in tutte e tre le aree geografiche con percentuali crescenti da nord a sud per una media del 66,6%; con le “dimensioni dello studio” che nel 63,5% dei casi prevedono la presenza del solo intervistato o, al più, di 2-3 persone e, infine, per quel che mi interessa, con “gli studi professionali dotati di un sito web” a cui una media nazionale del 20,9% risponde “sì ma ha solo finalità di promozione” (secondo me c’è un “ma” di troppo) e il 4,9%, sempre su base nazionale, “sì la finalità è di interagire con i clienti anche attraverso tale modalità”. Quest’ultimo dato è stato ampiamente diffuso dai quotidiani privilegiando l’aspetto negativo, vale a dire che 3 studi su 4 non hanno un sito web.

Sinceramente nessuno di questi dati mi sembra eclatante.

È singolare che la prima risposta, sui principali problemi, sia del tutto corrispondente a quella che avrebbe potuto dare un imprenditore. Questo mi porta a quello che sostengo da sempre (provocando il risentimento di tanti colleghi): che lo si voglia ammettere o no, l’avvocato  è un imprenditore (il discorso può essere esteso agli altri professionisti per i quali la questione è forse più ovvia) e deve sforzarsi di vedere il proprio studio professionale come un’azienda, con le sue diverse funzioni: amministrazione, IT, produzione, qualità, ricerca, marketing e commerciale. Ma come è possibile gestirle con regolarità se non si dispone di organizzazione e risorse sufficienti, interne ed esterne? non è tanto (o almeno non solo, inutile negarlo) una questione economica, bensì di tempo, spesso impegnato dal peso crescente dei costi per adempimenti e incombenti.

Non voglio reclamizzare uno dei tanti corsi/o libri per l’ottimizzazione del tempo e per la gestione dello stress, né proporre di utilizzare un programma gestionale, né ancora invitare alla certificazione degli studi professionali (su questi punti tornerò in futuro). Si tratta di sollecitazioni importanti, ma secondarie, il vero punto fondamentale è che se l’avvocato prende coscienza del suo essere imprenditore incomincia a ragionare diversamente, sin da quando svolge la pratica professionale (e prima sin dall’università, creandosi il bagaglio giusto di competenze) e, d’altro canto, se l’avvocatura lo riconosce e ne trae le conseguenze, incomincerà a sperimentare soluzioni specifiche, anche cercandole in campi diversi.

Faccio due esempi, rivolti all’avvocato e all’avvocatura.

Per quanto il passaparola sia comprensibilmente il modo principale per attrarre clientela, qualsiasi avvocato (meglio, imprenditore) sa bene che deve pensare al futuro e iniziare a rivolgere le risorse in modo da seminare oggi per raccogliere col tempo i frutti. Potrà fare rete (il rapporto evidenzia l’importanza crescente del network, anche con professionisti non colleghi), suddividere i compiti tra i propri collaboratori/colleghi pensando a funzioni, oppure gestire il proprio tempo ri-pensandosi  come amministratore e commerciale (non solo subendo).

L’imprenditore non sfrutta forse le risorse esistenti a costo zero o quasi? non lo può fare anche l’avvocato? Io penso di sì: è un mio cruccio che in quindici anni di attività sul web pochi siano i colleghi che hanno inviato a Filodiritto, commentandole, sentenze delle corti di merito, che senza dubbio hanno quotidianamente a disposizione e di cui conoscono bene motivazioni, errori interpretativi, giurisprudenza a favore e contro. Colpa di Filodiritto? Mi sembra che la questione valga per altri siti, forse in maniera lievemente diversa. Mi sono fatto tanti esami di coscienza e mi inventerò iniziative specifiche, ma credo che dipenda soprattutto dalla scarsa propensione a investire sulla propria reputazione e sul proprio nome, che è il marchio del professionista.

Proposta: un’ora al mese dedicata ad un contributo da inviare a Filodiritto o alle altre riviste on line. Un modo intelligente e gratuito per promuovere la propria attività, farsi conoscere e contribuire ad accrescere reputazione e prestigio dell’intera categoria. Che, per inciso è una delle criticità segnalate dal rapporto del Censis.

Quanto all’avvocatura mi soffermo sul tema della formazione, paradigmatico. Il sistema attuale ha senso? I crediti come etti di mortadella. Pura forma, null’altro. L’avvocato deve tenersi aggiornato, certo che sì, ma la questione è di intima consapevolezza, convinzione (non di vuota imposizione) e di organizzazione (aziendale): io cresco se cresce il mio collaboratore a cui ho fatto seguire un corso – anche non accreditato – che mi trasferisce le competenze acquisite. Lui è contento perché matura e perché gli filtro quello che ha imparato con la mia esperienza e io lo sono perché ho potuto distillare quello che mi interessa senza dedicarvi mezza giornata. Il tema invece oggi è: inasprire la sanzioni in caso di mancata formazione, sino alla cancellazione dall’albo. Nella migliore delle ipotesi è puro autolesionismo della categoria.

Gli avvocati non sono professionisti ma imprenditori e gli ordini non riuniscono avvocati ma imprenditori, con diverse esigenze e vocazioni ma pur sempre imprenditori. Estremizzo? volenti o nolenti il futuro è questo, l’alternativa è il declino irreversibile della professione. Tanto è vero che i fondi europei ci impongono di ragionare in quest’ottica.

Alla prossima puntata, perché il rapporto Censis merita ulteriori approfondimenti.