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Lo stato d’ebbrezza: percorso a ritroso dal diritto al mito, con digressioni artistiche

stato d'ebbrezza
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Giuridicamente parlando, l’ubriachezza non gode di particolare prestigio. Anzi, proprio per niente

Allo stato di ebbrezza molti ordinamenti ricollegano conseguenze che variano dalla dichiarazione dell’incapacità naturale a un articolato regime sanzionatorio, la cui ratio è intimamente correlata alla diversa percezione del fenomeno sul piano etico e sociale.

Si spazia così dalla condanna tout court del bevitore per il semplice fatto di aver “alzato un po’ troppo il gomito” alla stigmatizzazione dell’evento nelle sole casistiche in cui lo stesso è foriero di ulteriori sviluppi o si incardina in determinate circostanze.

In Italia, oltre a costituire un’aggravante generica piuttosto comune, l’ipotesi è contemplata come fattispecie a sé (depenalizzata dal 1999) dall'articolo 688 del codice penale, che prevede una sanzione amministrativa pecuniaria di modesta entità per “chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, è colto in stato di manifesta ubriachezza.

L’indirizzo è morbido (a meno che non si parli di guida), ma ciò non stupisce: il nostro è il Paese del buon cibo e del buon vino, che strizza volentieri l’occhio a un tasso alcolico in corpo allo stadio “alticcio”, simpaticamente tollerato purché sia sporadico e giustificato dalle occasioni conviviali.

Conviviale come una bella tavolata di familiari e amici o come la magia dell’uva che si fa nettare pregiato e che si rinnova di vendemmia in vendemmia ... quella artigianale, come tradizione comanda. Sempre più rara, praticamente quasi estinta.

Cerimoniale antichissimo, affonda le sue radici nel mito di Dioniso (per i romani Bacco - dal greco Βάκχος, clamore) e Ampelo (da Αμπελος, vite).

Si tratta di una mitologia minore, da cui traspare il lato sconosciuto della chiassosa divinità, ben lontano dagli eccessi dei misteri dionisiaci e ancor più concettualmente distante dallo “spirito dionisiaco” – in antitesi con quello apollineo – su cui Nietzsche ha fondato la sua fortuna filosofica.

Tutto ha inizio quando il baldanzoso dio, nelle sue scorribande bucoliche, s’imbatte tra salti e capriole nel satiro Ampelo, aitante giovinetto di cui si innamora.

L’idillio tra i due, così vivace e giocoso, suscita l’invidia di Ate, che induce l’irruente Ampelo a cavalcare un toro, con mendaci rassicurazioni circa la docilità dell’animale. Accade l’irreparabile: il toro si infuria, disarciona il fanciullo e lo trafigge a morte.

Davanti al corpo esanime dell’amato, Bacco, dilaniato dallo strazio di non poterlo seguire (l’accesso all’Ade gli è precluso in quanto immortale), “impara” la sofferenza (πάθει μάθος, da Eschilo in poi il dolore come fonte d’insegnamento) e, per la prima volta, piange.

Le fitte lacrime, nel mischiarsi al sangue versato a terra, si trasformano in una portentosa miscela, capace di obnubilare la memoria della pena e di riconvertirla in gioia. Il liquido miracoloso fertilizza il suolo: spuntano germogli che diventano tralcio di vite feconda, dispensatrice di risa ed allegria.

Da quel giorno Dioniso, nelle raffigurazioni scultoree e pittoriche (da Prassitele a Velázquez, passando per Michelangelo e Caravaggio), impugna il tirso (il bastone di legno avviluppato dai pampini) e spesso innalza con gesto liberatorio il cantaro (la coppa); talvolta indossa una maschera: un po’ perché è anche dio del teatro ed un po’ – è bello immaginarlo – per testimoniare che il vino svela il volto nascosto della realtà (in vino veritas).

Dono degli dei agli uomini per alleviarli dagli affanni dell’umana condizione, questo piacere, se assunto beninteso con moderazione, regala una sana euforia, una piccola estasi salvifica, un ritrovato entusiasmo (ἐνθουσιασμός, con il dio dentro) di vivere.

Quello stesso entusiasmo che ha permesso a Bacco di superare il lutto per la perdita di Ampelo e di ricominciare, andando a recuperare Arianna a Nasso per poi, in trionfo, brindare insieme al:

Ciò che ha esser convien sia. Chi vuole esser lieto sia, di doman non c’è certezza.