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Molestia telefonica 2.0

primavera
Ph. Consuelo Corsini / primavera

La Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, con sentenza n. 37974 del 18.03.2021 ha ritenuto configurabile il reato di molestie, ai sensi dell’art. 660 c.p., perpetrato a mezzo di insistenti messaggi inviati tramite l’applicazione di messaggistica istantanea Whatsapp, anche nel caso in cui il soggetto passivo abbia semplicemente ricevuto le notifiche de quibus.

 

Molestia telefonica: il vulnus della condotta di cui all’art. 660 c.p. e l’applicazione estensiva ai mezzi di comunicazione telematica

Il codice penale, all’art. 660 c.p., disciplina il reato di molestia o disturbo alle persone definito attraverso la condotta di colui che, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo.

L’elemento materiale della "molestia" è costituito dall'interferenza che altera insopportabilmente, in modo immediato o mediato, lo stato psichico di una persona. L'atto per configurarsi quale molestia deve non soltanto risultare sgradito a chi lo riceve, ma deve anche essere ispirato da un motivo riprovevole, altresì, pretestuoso e petulante.

Secondo la lettera della norma, per altro, il mezzo telefonico assurge un rilievo preponderante sotto il profilo penalistico, allorché invasivo della libertà di comunicazione del destinatario che non può sottrarsi alla stessa, se non disattivando l'apparecchio telefonico.

Tale comunicazione comporta infatti, una subitanea interazione tra il chiamante e il chiamato, pertanto una irrompente ed immediata intrusione del primo nella sfera delle attività del secondo.

Diversamente, invece, l'invio di un messaggio di posta elettronica ordinaria, non comporta nessuna repentina interazione tra il mittente e il destinatario; l’interazione si perfeziona se e solo quando quest’ultimo connettendosi all'elaboratore e accedendo al servizio, consulti la propria casella di posta elettronica e dunque, si appresti a leggere il contenuto del messaggio di PEO.

Tuttavia, tenuto in debito conto il dirompente sviluppo della tecnologia che oggigiorno permette l’invio e la ricezione delle e-mail anche da qualunque dispositivo mobile, con le stesse modalità degli, ormai sempre più desueti, sms, può oggi farsi rientrare quest’ultima nel concetto di comunicazione sincrona imposta al destinatario; senza alcuna possibilità per lo stesso di sottrarsi alla contemporanea interazione con il mittente e conseguentemente, dunque, configurare a pieno titolo il reato di molestia.

Nell'alveo della previsione incriminatrice in parola rientrano, con lapalissiana evidenza, anche i messaggi Whatsapp o Messenger trasmessi attraverso apparati mobili, in quanto non riconducibili ai messaggi di tipo epistolare atteso che il ricevente è costretto, tanto dal suono d'arrivo che dalla notifica “a comparsa”, a percepirli anche prima di poter apprendere l’identità del mittente.

La notifica “a comparsa” sul display del proprio apparato telefonico, dunque, può prestare il fianco ad una interpretazione estensiva che permette l’applicazione della disciplina della contravvenzione di molestia, poiché trattasi - evidentemente - di una comunicazione avvenuta in modalità sincrona, dando luogo immantinente ad una interazione tra soggetto agente e destinatario; rilevandone il turbamento immediato, sotto il profilo psichico, del soggetto passivo.

 

Molestia telefonica: la decisione della Corte di Cassazione

La vicenda de qua aveva avuto ad oggetto l’insistente, petulante e reiterato invio di messaggi di un soggetto coinvolto in una indagine di P.S. ad un agente del predetto corpo, tale da arrecare a quest’ultimo una pregiudizievole situazione di prostrazione psichica e un considerevole disturbo della quiete anche nel libero ed incondizionato svolgimento della propria vita privata.

L’imputato aveva ritenuto di proporre ricorso avverso la decisione della Corte di Appello di Palermo, lamentando una violazione di legge per falsa applicazione della disciplina della molestia, ai sensi dell’art. 660 c.p.

Diversamente opinando, invece, la Suprema Corte, aveva giudicato pienamente riconducibile la condotta dell’imputato nell’alveo dell’art. 660 c.p. argomentando sull'elemento materiale della “molestia”, costituito nella vicenda de qua, dall’interferenza non accettata che aveva alterato dolorosamente, fastidiosamente o importunamente, lo stato psichico dell’agente di P.S. perché rivestito dal carattere della petulanza, tale da interferire nella sua sfera privata, tenuto - altresì- in debito conto che la ratio della condotta dell’imputato si fondava su un motivo deplorevole (sub species, richieste di accesso documentale che ben avrebbero potuto essere espletate nelle sedi opportune).

Osserva ancora la Suprema Corte come il reato di molestia o disturbo alle persone non ha natura necessariamente abituale e non pretende sempre e comunque una reiterazione di comportamenti intrusivi e sgraditi nella vita altrui, sicché può essere realizzato anche con una sola azione purché particolarmente sintomatica dei motivi specifici che l'hanno ispirata.

Con riferimento all'intento della condotta costituito da biasimevole motivo è sufficiente, infatti, anche il compimento di un unico gesto, come nel caso di una sola telefonata effettuata con modalità rivelatrici dell'intrusione nella sfera privata del destinatario.