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Nuovi documenti in appello: il principio consolidato e i chiarimenti giurisprudenziali

Contezioso tributario
Contezioso tributario

Nel contenzioso tributario, diversamente rispetto ad altri giudizi, è facoltà delle parti produrre in appello nuovi documenti, anche se preesistenti al giudizio di primo grado, purché non costituiscano nuove prove.

 

In tema di contenzioso tributario, l’articolo 58 Decreto legislativo 546/92, rubricato “Nuove prove in appello”, espressamente prevede che:

"1. Il giudice d’appello non può disporre nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile.

2. È fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti.”

La disposizione del secondo comma dell’articolo 58, assai incisiva, fa salva la facoltà delle parti di produrre in appello nuovi documenti, anche ove preesistenti al giudizio di primo grado.

Si tratta di un’eccezione al comma precedente che in parte vanifica il comma precedente, reintroducendo, di fatto, nel procedimento gran parte di quei mezzi probatori che sembravano essere stati esclusi. Tuttavia, si evidenzia che tale produzione deve avvenire nei termini perentori previsti dal Decreto legislativo n. 546/92, ossia fino a 20 giorni liberi prima della data di udienza; se il termine in discorso non viene rispettato, il giudice di appello non può basare il proprio convincimento sul documento che è stato tardivamente presentato.

Sebbene molte perplessità desti il tema della produzione documentale in grado di appello nel processo tributario, è bene osservare che alla luce del principio di specialità, espresso dal Decreto legislativo 546/92, articolo 1, comma 2, - in forza del quale, nel rapporto fra norma processuale civile ordinaria e norma processuale tributaria, prevale quest’ultima - non trova applicazione la preclusione di cui all’articolo 345 Codice di procedura civile, comma 3, (nel testo introdotto dalla L. n. 69 del 2009), essendo la materia regolata dall’articolo 58, comma 2 citato Decreto legislativo, che consente alle parti di produrre liberamente i documenti anche in sede di gravame, sebbene preesistenti al giudizio svoltosi in primo grado.

Sulle esposte coordinate normative, la giurisprudenza di merito e di legittimità è oramai pacifica nel ritenere ammissibile la produzione di nuovi documenti in appello.

Tanto è stato definitivamente chiarito dalla Suprema Corte, con la sentenza n. 26522/2017 che ha enunciato il principio di diritto secondo cui sebbene la nuova formulazione dell’articolo 345 Codice di procedura civile, pone il divieto assoluto di ammissione di nuovi mezzi di prova e di produzione di nuovi documenti, tanto non trova applicazione nell’ambito del processo tributario ove l’articolo 58 Decreto legislativo n. 546/1992 contempla specificamente la produzione di documenti nuovi in appello, così risultando nettamente più permissivo rispetto all’articolo 345 Codice di procedura civile. (v. anche Cass. n. 27774/2017; CTR LAZIO – Roma, 22 giugno 2018, n. 4488).

Tale principio è stato messo in risalto anche dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 199 del 2017, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale e, conseguentemente, ha confermato la costituzionalità del comma 2 citato, laddove consente che la parte possa produrre in appello qualsiasi documento, anche se non già presentato in primo grado oppure prodotto ma non esaminato dal giudice, in quanto tardivo.

E invero, sull’argomento, la CTR Campania aveva sollevato una questione di costituzionalità perché - come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità (tra le altre, le sentenze 21909/15, 12783/15, 665/14 e 16959/12) – l’articolo 58, comma 2, del Decreto legislativo 546/92 riguardante la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti in appello, era in contrasto in riferimento agli articoli 3, 24 e 117 Della Costituzione, in quanto determinava “una disparità di trattamento delle parti con intollerabile sbilanciamento a favore di quella facultata a produrre per la prima volta in appello documenti già in suo possesso nel grado anteriore ed in danno della controparte, limitando e compromettendo la sua difesa per effetto dell’indubbia sottrazione di un grado di giudizio alla sua posizione processuale” (pagina 4 dell’ordinanza n. 943/32/2016).

In particolare, secondo il giudice rimettente, l’omessa produzione documentale in primo grado comportava la violazione di molteplici principi tutelati dalla Costituzione e, in particolare, il diritto di difesa della controparte (articolo 24), cui verrebbe impedito di produrre motivi aggiunti in primo grado, nonché il principio di uguaglianza (articolo 3) e il diritto ad un processo equo (articolo 117).

Tanto non è stato condiviso dalla Consulta che, invece, ha ritenuto che non sussistesse alcuna disparità di trattamento tra le parti del giudizio (in quanto la facoltà di produrre per la prima volta documenti in appello è riconosciuta a entrambe le parti del giudizio, cosicché non sussiste alcuno «sbilanciamento» processuale); né una compressione del diritto di difesa (in quanto non esiste un principio costituzionale di necessaria uniformità tra i diversi tipi di processo,  essendo rimessa alla discrezionalità del legislatore la disciplina dei singoli istituti processuali, nei limiti della ragionevolezza); né il rischio di compressione del diritto di difesa della controparte legato alla potenziale perdita di un grado di giudizio (per giurisprudenza pacifica, il doppio grado non gode nel nostro ordinamento di copertura costituzionale).

Tale orientamento è stato recentemente avvalorato dalla sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 22 maggio 2019, n. 13783 ove al vaglio della Suprema Corte vi era una pronuncia della CTR Campania con la quale era stato respinto l’appello proposto dal contribuente, avendo i giudici di merito ritenuto legittima la successiva notifica di un avviso di accertamento da parte del Comune, sostitutivo di quello già impugnato.

E invero, in sede di legittimità, il ricorrente censurava la sentenza di secondo grado, tra le altre, per violazione degli articolo 345 e 115 Codice di procedura civile ritenendo, invece, che la successiva notifica dell’avviso di accertamento, sostitutivo di quello già impugnato, fosse da considerarsi quale documento nuovo, inammissibile in appello, ai sensi dell’art, 58 Decreto legislativo 546/92.

Ebbene, la Suprema Corte, richiamando il principio giurisprudenziale ormai consolidatosi della produzione documentale in appello, ha ritenuto infondata la censura che escludeva la legittimità dell’avviso di accertamento integrativo, precisando che “In tema di contenzioso tributario, ai sensi del Decreto Legislativo n. 546 del 1992, articolo 58, comma 2, le parti possono produrre in appello nuovi documenti, anche ove preesistenti al giudizio di primo grado, ferma la possibilità di considerare tale condotta ai fini della regolamentazione delle spese di lite, nella quale sono ricomprese, ex articolo 15 del detto decreto, quelle determinate dalla violazione del dovere processuale di lealtà e probità”.

Tuttavia, a circoscrivere i confini dell’ammissibilità della produzione di nuovi documenti in appello è intervenuta la pronuncia della Commissione Tributaria Regionale Campania che con sentenza n. 4100/2019 ha precisato il limite secondo cui tali documenti non devono costituire nuove prove, alla luce del divieto previsto dal medesimo articolo 58, comma 1, Decreto legislativo 546/92.

La vicenda processuale - che traeva origine dall’impugnazione di sei avvisi di accertamento per Tari 2012-2013 – vedeva il Comune, in qualità di appellante, depositare ex articolo 58, comma 2, Decreto legislativo 546/92 una relazione tecnica comunale (avente valore probatorio) non prodotta in primo grado.

La CTR Campania, riprendendo le censure mosse dalla società appellata, ha ritenuto inammissibile in appello la produzione del suddetto accertamento tecnico da parte del Comune, in quanto in contrasto con l’articolo 58, comma 1, Decreto legislativo 546/92. E invero, a parere dei giudici di secondo grado, la corretta interpretazione dell’articolo 58 citato, permette la produzione di nuovi documenti in appello (comma 2) che, tuttavia, non devono costituire nuove prove (comma 1), salvo che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile.

La CTR Campania, dunque, rilevato che il Comune era già in possesso dell’accertamento tecnico e che non era stata fornita alcuna prova circa un impedimento ad esso non imputabile, ha ritenuto inammissibile l’accertamento tecnico in secondo grado.

Alla luce delle suesposte premesse, partendo da un generale principio di ammissibilità della produzione documentale in appello, cominciano ad esserci pronunce giurisprudenziali che delimitano il raggio d’azione entro cui la suddetta facoltà può esplicarsi, tanto, probabilmente, al fine di “equilibrare” un diritto previsto esclusivamente in materia tributaria.

E invero, si osserva che il comma 2 dell’articolo 58 citato. rappresenta un’eccezione al comma precedente, laddove è consentito alle parti la produzione in appello di nuovi documenti, anche ove preesistenti al giudizio di primo grado, ferma la possibilità di considerare tale condotta ai fini della regolamentazione delle spese di lite, nella quale sono ricomprese quelle determinate dalla violazione del dovere processuale di lealtà e probità.

Ne discende, pertanto, che la rilevanza di tale disposizione è tutt’altro che secondaria, ove si consideri che in una materia tributaria, in assenza di prove orali, quella documentale è la prova per eccellenza.