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Persecuzione - Cassazione Penale: sono atti persecutori gli atti finalizzati alla manipolazione dell’identità sociale, umana ed etica della persona

Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione si è pronunciata in materia di atti persecutori, configurando questa fattispecie nel dettaglio e definendo quali comportamenti possono essere considerati in concreto come “persecutori”.

È configurabile come atto persecutorio, ai sensi dell’articolo 612 bis del Codice Penale, qualsiasi atto compiuto allo scopo di violare la riservatezza di altro soggetto, facendo allusioni ad elementi della sua vita privata, creando una situazione di inquietudine e di disagio, di turbamento della quiete familiare, di mortificazione e di sconvolgimento dell’identità umana, etica e sociale della parte offesa e dei suoi familiari, tale da poterne alterare le abitudini e la quotidianità. La condotta dell’imputato va considerata non solo nella sua astratta idoneità a realizzare tale turbamento, ma anche con riferimento alle concrete condizioni di spazio e di tempo in cui la condotta è stata consumata.

Lo ha stabilito la quinta sezione penale della Corte di Cassazione, la quale nel caso di specie è stata chiamata a statuire sul caso di un soggetto che, in quanto collega di lavoro della parte lesa, era stato condannato dalla Corte d’Appello di Genova per aver compiuto atti persecutori nei confronti di costui e della moglie, confermando la sentenza di primo grado.

Nel caso in esame il ricorrente a sua difesa adduceva innanzitutto un vizio di motivazione. Egli era stato condannato per aver inviato al collega lettere anonime e sms contenenti informazioni riguardo ad una relazione extraconiugale della moglie con lo stesso. Egli riteneva che tali messaggi non contenessero elementi individualizzanti il mittente, e che quindi non fosse possibile escludere che altri fossero gli autori. Affermava inoltre che la suddetta relazione era ormai terminata da quattro anni, e che nel frattempo la donna aveva avuto rapporti con un altro collega del marito, il quale aveva ammesso di essere l’autore di due di queste lettere. In conclusione, il ricorrente sosteneva di non essere imputabile sulla base di comunicazioni anonime e di dichiarazioni provenienti da fonti non affidabili.

Tuttavia, dalla ricostruzione dei fatti, la Corte non ha accolto il ricorso dell’imputato, in quanto basato su argomentazioni ritenute non idonee a soverchiare la valutazione dei fatti compiuta dai giudici di merito. Inoltre, in base all’istruttoria dibattimentale, l’imputato è accusato di aver compiuto una serie di atti che sono inequivocabilmente a lui riconducibili. In particolare, di aver lasciato messaggi anonimi sul luogo di lavoro dove anche il collega lavorava, di aver prospettato l’ipotesi che uno dei suoi figli avesse un altro padre naturale, di aver lasciato scritte infamanti sui muri della scuola frequentata dai figli del collega. L’identificazione dell’autore delle lettere, delle scritte e degli sms è stata ricostruita dai giudici di merito in base ad un iter analitico dotato di una particolare efficacia persuasiva. Infatti è stato accertato che tutti i messaggi contenevano informazioni che solo l’imputato poteva conoscere, ed erano dotati inoltre di un contenuto omogeneo che li riconduceva ad un unico mittente.

La suprema Corte di Cassazione ha espresso il seguente principio interpretativo delle norme sul reato di atti persecutori: “È del tutto conforme ad una corretta interpretazione dell’ipotesi criminosa di cui all’art. 612-bis c.p. la qualificazione di questi atti come atti persecutori.[…] costituiti dalla reiterata redazione e dalla ripetuta diffusione di messaggi funzionali ad umiliare i coniugi, a violare la loro riservatezza, a rappresentare la vita sessuale della donna come aperta a soggetti estranei, tanto da rendere incerta la discendenza di uno dei figli”.

La Corte ha pertanto così concluso: “Fondati o meno che siano, tali atti hanno cagionato danno alla riservatezza e all’intimità sessuale delle persone offese con ampiezza, durata e carica dispregiativa tali da rendere i messaggi stessi idonei a creare nei medesimi crescenti stati di disagio, di imbarazzo, di mortificazione, sfociati in un perdurante e grave stato di ansia a fronte del concreto aggravamento e consolidamento della violazione della riservatezza e della manipolazione dell’identità umana, sociale, etica di tutti i componenti della famiglia nel contesto sociale e lavorativo”.

 Rigettato il ricorso, il ricorrente è stato condannato al pagamento delle spese processuali.

(Corte di Cassazione, Quinta Sezione Penale, Sentenza 5 marzo 2015, n. 29826)

Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione si è pronunciata in materia di atti persecutori, configurando questa fattispecie nel dettaglio e definendo quali comportamenti possono essere considerati in concreto come “persecutori”.

È configurabile come atto persecutorio, ai sensi dell’articolo 612 bis del Codice Penale, qualsiasi atto compiuto allo scopo di violare la riservatezza di altro soggetto, facendo allusioni ad elementi della sua vita privata, creando una situazione di inquietudine e di disagio, di turbamento della quiete familiare, di mortificazione e di sconvolgimento dell’identità umana, etica e sociale della parte offesa e dei suoi familiari, tale da poterne alterare le abitudini e la quotidianità. La condotta dell’imputato va considerata non solo nella sua astratta idoneità a realizzare tale turbamento, ma anche con riferimento alle concrete condizioni di spazio e di tempo in cui la condotta è stata consumata.

Lo ha stabilito la quinta sezione penale della Corte di Cassazione, la quale nel caso di specie è stata chiamata a statuire sul caso di un soggetto che, in quanto collega di lavoro della parte lesa, era stato condannato dalla Corte d’Appello di Genova per aver compiuto atti persecutori nei confronti di costui e della moglie, confermando la sentenza di primo grado.

Nel caso in esame il ricorrente a sua difesa adduceva innanzitutto un vizio di motivazione. Egli era stato condannato per aver inviato al collega lettere anonime e sms contenenti informazioni riguardo ad una relazione extraconiugale della moglie con lo stesso. Egli riteneva che tali messaggi non contenessero elementi individualizzanti il mittente, e che quindi non fosse possibile escludere che altri fossero gli autori. Affermava inoltre che la suddetta relazione era ormai terminata da quattro anni, e che nel frattempo la donna aveva avuto rapporti con un altro collega del marito, il quale aveva ammesso di essere l’autore di due di queste lettere. In conclusione, il ricorrente sosteneva di non essere imputabile sulla base di comunicazioni anonime e di dichiarazioni provenienti da fonti non affidabili.

Tuttavia, dalla ricostruzione dei fatti, la Corte non ha accolto il ricorso dell’imputato, in quanto basato su argomentazioni ritenute non idonee a soverchiare la valutazione dei fatti compiuta dai giudici di merito. Inoltre, in base all’istruttoria dibattimentale, l’imputato è accusato di aver compiuto una serie di atti che sono inequivocabilmente a lui riconducibili. In particolare, di aver lasciato messaggi anonimi sul luogo di lavoro dove anche il collega lavorava, di aver prospettato l’ipotesi che uno dei suoi figli avesse un altro padre naturale, di aver lasciato scritte infamanti sui muri della scuola frequentata dai figli del collega. L’identificazione dell’autore delle lettere, delle scritte e degli sms è stata ricostruita dai giudici di merito in base ad un iter analitico dotato di una particolare efficacia persuasiva. Infatti è stato accertato che tutti i messaggi contenevano informazioni che solo l’imputato poteva conoscere, ed erano dotati inoltre di un contenuto omogeneo che li riconduceva ad un unico mittente.

La suprema Corte di Cassazione ha espresso il seguente principio interpretativo delle norme sul reato di atti persecutori: “È del tutto conforme ad una corretta interpretazione dell’ipotesi criminosa di cui all’art. 612-bis c.p. la qualificazione di questi atti come atti persecutori.[…] costituiti dalla reiterata redazione e dalla ripetuta diffusione di messaggi funzionali ad umiliare i coniugi, a violare la loro riservatezza, a rappresentare la vita sessuale della donna come aperta a soggetti estranei, tanto da rendere incerta la discendenza di uno dei figli”.

La Corte ha pertanto così concluso: “Fondati o meno che siano, tali atti hanno cagionato danno alla riservatezza e all’intimità sessuale delle persone offese con ampiezza, durata e carica dispregiativa tali da rendere i messaggi stessi idonei a creare nei medesimi crescenti stati di disagio, di imbarazzo, di mortificazione, sfociati in un perdurante e grave stato di ansia a fronte del concreto aggravamento e consolidamento della violazione della riservatezza e della manipolazione dell’identità umana, sociale, etica di tutti i componenti della famiglia nel contesto sociale e lavorativo”.

 Rigettato il ricorso, il ricorrente è stato condannato al pagamento delle spese processuali.

(Corte di Cassazione, Quinta Sezione Penale, Sentenza 5 marzo 2015, n. 29826)