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Sono il Signor Palamara, risolvo problemi

Colosseo
Ph. Andrea Pantarelli / Colosseo

City of stars,

are you shining just for me?

City of stars,

there’s so much that I can’t see.

City of stars, da La La Land

(musica di Justin Hurwitz, versi di Benj Pasek e Justin Paul)

 

Alla fine è successo.

Il caso Palamara, esploso a fine maggio 2019 con la diffusione della notizia della perquisizione a casa del magistrato, si presentava fortemente letterario già al suo esordio.

Sarebbe bastato da solo il procedimento penale: la procura di Perugia che indaga su un magistrato della procura di Roma; l’irresistibile vaso di Pandora generato dal trojan inoculato nel cellulare dell’indagato; la possibilità di assistere, sia pure dal buco della serratura, ai fasti e ai vizi di un certo melting pot capitolino.

Ma c’era molto di più. L’indagato era un potente “qualificato”: magistrato, tra i massimi esponenti dell’’associazionismo giudiziario, leader indiscusso della corrente di centro Unità per la Costituzione (UNICOST), componente uscente del Consiglio superiore della magistratura (CSM) e della sua sezione disciplinare.

Al primo lampo mediatico di un anno e mezzo fa è seguito un crescendo drammatico per l’interessato: espulso dall’associazione nazionale magistrati (ANM); destituito dalla magistratura; rinviato a giudizio dinanzi al tribunale di Perugia sebbene per accuse piuttosto ridimensionate rispetto a quelle ipotizzate inizialmente.

Nel frattempo gli stracci raccolti via trojan hanno continuato a volare e sarebbe fatica vana provare a tenere dietro allo stillicidio di sms e chat e relativi commenti e analisi messi a disposizione degli italiani da giornali, pubblicazioni di ogni ordine e grado, blog, piattaforme social e qualsiasi ambito comunicativo si voglia immaginare.

L’uomo al centro di questo tourbillon avrebbe potuto reagire in vari modi, magari distanziandosene e scegliendo il silenzio.

Ha preferito invece assecondare l’ondata e anzi a suo modo cavalcarla e guidarla lui stesso: da qui le sue numerose presenze in programmi televisivi, soprattutto quelli più attenti alle dinamiche giudiziarie, e le sue altrettanto numerose esternazioni alla stampa.

Infine, poche settimane fa, l’uscita del libro “Il Sistema” edito da Rizzoli, congegnato in forma di intervista: Alessandro Sallusti chiede e Luca Palamara risponde.

Un antefatto e un epilogo, in mezzo diciassette capitoli il cui titolo sembra degno dei romanzi di Dumas padre o di Edgar Wallace (Il tradimento, Il ricatto, La regola del tre, Cane non morde cane, tanto per citarne alcuni) e l’imprescindibile indice dei nomi fatto di sei pagine piene zeppe che gerarchizza nel modo più evidente l’importanza di ognuno dei soggetti citati e magari induce qualche preoccupazione aggiuntiva in quelli collocati in prima fila nel pantheon palamariano.

L’intervistato e io narrante mette in chiaro fin dalla prima pagina perché ha deciso di raccontare la sua storia: non vuole portarsi segreti nella tomba e avverte un dovere di verità verso i magistrati che sono rimasti estranei alle tante trame di cui è stato uno (non certo il solo, come preciserà fino allo sfinimento) degli ispiratori ed artefici.

Pare un spiegazione che non spiega granché: il narratore ha un’età in cui normalmente non si pensa al trapasso e non lo si considera un evento con cui misurarsi; la sua pentita costernazione per “i lasciati indietro” della magistratura a causa della non appartenenza a una qualsiasi delle cerchie interne pare una petizione di principio in un libro incentrato sui “carnefici” piuttosto che sulle “vittime”.

Sarebbe già il momento di addentrarsi nella trama che, come in ogni feuilleton che si rispetti, è fitta di colpi di scena, improvvisi cambi di prospettiva, personaggi mutevoli e ombre oscure.

È quasi impossibile tuttavia sintetizzarla in uno scritto di poche pagine e d’altro canto non sarebbe giusto privare i lettori del piacere della sorpresa e gli autori dell’irresistibile aspettativa di gossip su cui fanno affidamento per incrementare le vendite.

Ci si limiterà quindi a mettere a fuoco l’idea forza della storia che Palamara ha scelto di rendere pubblica e sulla quale impegna la sua credibilità.

È quella del tradimento, parola che non a caso (con l’aggiunta del sottotitolo Un abbraccio e uno sguardo) è usata per designare il primo capitolo.

È la fine del 2017 e, per una particolare congiuntura astrale, bisogna provvedere contemporaneamente alla nomina di entrambi i vertici della magistratura italiana, vale a dire il presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione.

Palamara presiede da qualche mese l’ambitissima quinta commissione del CSM, quella cui spetta istruire le pratiche per il conferimento degli incarichi magistratuali direttivi e semidirettivi e presentare le relative proposte al plenum del Consiglio.

C’è un primo antefatto: un paio di anni prima, era il 2015, bisognava nominare il nuovo presidente del tribunale di Firenze e, contrariamente alle aspettative della vigilia che davano come favorita Maria Giuliana Civinini di MD, l’aveva spuntata Marilena Rizzo di UNICOST.

Palamara comprende proprio allora che un diverso equilibrio è possibile e che c’è la concreta occasione di “liberarsi del giogo della sinistra giudiziaria o, più correttamente, del massimalismo giustizialista”.

Ma ci sono anche altri antefatti e vanno tutti nella direzione opposta: AREA, una sorta di federazione tra le correnti associative magistratuali di sinistra di cui fa parte Magistratura Democratica (MD), rivendica come suo non negoziabile diritto naturale di esprimere almeno una delle due cariche; dal Quirinale arrivano chiari segnali di gradimento per la nomina di Giovanni Salvi alla guida della procura generale; lo stesso Salvi, esponente di spicco di MD e fratello di Cesare Salvi, già parlamentare del PDS e ministro del Lavoro, invita Palamara ad un incontro sulla terrazza di un albergo romano (il libro non chiarisce di cosa abbiano parlato i due, Palamara si limita a raccontare di non essersi sbilanciato).

Palamara decide di sparigliare le carte, si allea con il consigliere Giuseppe Fanfani e ottiene il risultato sperato: Giovanni Mammone (esponente della corrente moderata Magistratura Indipendente) è nominato presidente della Corte di cassazione, Riccardo Fuzio, di UNICOST, diventa il capo della procura generale presso la stessa Corte.

Un successo epocale che consolida la leadership di Palamara e la sua fama di uomo che sa risolvere ogni problema.

Ma, come sempre, se qualcuno gioisce qualcun altro mastica amaro.

È questo il caso di Giovanni Legnini, vicepresidente del CSM in quota PD, che dopo le due nomine si scaglia contro Palamara, accusandolo di averlo sminuito agli occhi del Quirinale al quale aveva garantito la nomina di Salvi.

Sembrerebbe una reazione temibile ma il peggio deve ancora arrivare.

Palamara si reca in visita da Giuseppe Pignatone, capo della procura di Roma. Questi si congratula con lui per il successo ottenuto ma, alla fine del loro lungo colloquio, lo guarda negli occhi “come solo un siciliano sa fare”, lo abbraccia e, proprio mentre Palamara sta per andarsene, gli rivela che sta indagando tramite la Guardia di Finanza sulle attività di Fabrizio Centofanti ed è venuto a galla anche qualcosa che lo riguarda direttamente: “stiamo indagando sul tuo amico Fabrizio Centofanti e c’è il sospetto che lui abbia sostenuto le tue spese […] è un situazione delicata, vedremo, vedremo”.

Palamara non usa mezzi termini per qualificare l’episodio: “Nel giorno del mio massimo successo, il “Sistema”, con la faccia gentile di Pignatone, mi annuncia che sono arrivato al capolinea”.

Un paio di pagine prima i toni sono anche più drammatici. Sallusti gli chiede se con la doppietta delle nomine in Cassazione ha firmato la sua condanna a morte. La risposta è “Penso di sì, e la sentenza mi arriva la sera stessa” ed è appunto la sera della visita a Pignatone.

La narrazione di Palamara non potrebbe essere più esplicita: le sue manovre in ambito consiliare hanno sovvertito equilibri che sembravano immutabili e questo è dispiaciuto molto al “Sistema” che li aveva creati e consolidati nel tempo.

Un Sistema così vasto e composito i cui esatti contorni sfuggono perfino a un insider di primo rango come Palamara è certamente stato. Se infatti costui si dice certo che ne facciano parte gli stakeholders delle correnti di sinistra della magistratura associata, se attesta che si colloca sulla stessa linea qualcuno che pretende di parlare in nome del Quirinale, non è per contro in grado di decifrare la parte interpretata dal capo della procura romana: “continuo a chiedermi: perché Pignatone è stato a quel gioco, era davvero un uomo libero quando l’ha fatto o era ostaggio di qualcuno?”.

L’immagine del Sistema, finanche inutile sottolinearlo, è il centro del libro e qui la si presenta come tale ma non si vuole comunque rinunciare ad esaminarla criticamente.

Non tanto nel suo sfondo generale, posto che una robusta dose di consociativismo è resa indispensabile dalla conformazione del CSM, dal suo sistema elettorale e dalla presenza nei suoi ranghi di una non trascurabile componente di designazione politica.

Neanche per le degenerazioni di questo consociativismo: proprio l’esplosione del caso Palamara e la diffusione delle tracce digitali delle sue comunicazioni hanno messo a nudo l’esistenza e la sistematicità di prassi fondate su logiche di appartenenza e sull’operatività di cordate in servizio permanente effettivo, entrambe penetrate così in profondità nel tessuto associativo giudiziario da meritare senza esitazioni la qualifica di Sistema.

Eppure, a dispetto di tutto questo, i conti non sembrano tornare per almeno alcuni dei corollari che, nelle intenzioni di Palamara, dovrebbero rendere più vivida e convincente la raffigurazione del Sistema e della parte che lui stesso ha avuto nella sua edificazione.

Non torna prima e sopra di ogni altra cosa – sia consentito dirlo – che la rivolta contro lo strapotere della sinistra giudiziaria sia avvenuta per liberarsi del “massimalismo giustizialista: la semplice lettura dell’intervista-confessione di Palamara basta a dimostrare che il suo intero percorso associativo si è svolto all’insegna della più totale indifferenza per la buona amministrazione della giustizia, la selezione e valorizzazione dei candidati migliori, la tutela dell’autonomia dell’ordine giudiziario, la correttezza della giustizia disciplinare.

Impossibile credere che chi ha creato e consolidato un meccanismo di pura gestione del potere possa al tempo stesso avere agito per mettere i cittadini al riparo da straripamenti e invasioni di campo della magistratura e in particolare della sua parte inquirente.

Non convincono – per difetto assoluto di prova e per l’impeccabile storia personale e politica del diretto chiamato in causa – le pretese pressioni del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a favore della nomina di Giovanni Salvi.

E manca qualunque straccio di prova su altri passaggi essenziali tra i quali l’incontro in terrazza con lo stesso Salvi e il redde rationem con Pignatone.

Proprio in relazione a quest’ultimo episodio emerge un’ulteriore caratteristica che certo non aiuta la credibilità di Palamara: quell’indulgere su dettagli iconici come lo sguardo prolungato, l’abbraccio, la velata minaccia lasciata cadere con noncuranza alla fine di un colloquio di ore, l’accenno alla “sicilianità” di Pignatone. Tutto suona forzato, una mediocre sceneggiatura che prende a prestito qua e là immagini evocative scelte un po’ alla rinfusa tra il duello all’Ok Corral, la Cavalleria rusticana, il Padrino e chissà cos’altro ancora.

A questo primo capitolo seguono molte altre storie e chi le leggerà potrà rendersi conto della forte, a tratti disperata, determinazione di Palamara a rafforzare l’idea del tradimento.

Egli è caduto – di questo ha il bisogno di convincerci – non per avere ecceduto in nefandezze e comportamenti sbagliati, non per essere stato un signore dei voti e delle tessere, non per avere contribuito a trasformare l’associazionismo giudiziario e il CMS in ambiti dominati da lobby e cordate di ogni tipo, non per essersi riunito in salotti e salette, ma per non averlo fatto fino in fondo, per non aver saputo raggiungere l’ultima sala del tempio lì dove siedono gli intoccabili, per avere solo lambito il potere che altri hanno afferrato e tenuto ben saldo nelle mani, per non aver compreso che avrebbe dovuto inginocchiarsi davanti ai veri potenti anziché combatterli e rimanere stritolato.

Può essere, tutto è possibile, e del resto lo stesso Palamara, giunto quasi alla fine dell’intervista (pag. 253) si premura di ricordare che “Ad ogni cambio di telefono inevitabilmente si perde qualcosa del contenuto, su quello sequestrato si parte da marzo 2017 ma, e non lo dico per creare nuove apprensioni, spero di recuperare quello precedente, che al momento non trovo”.

C’è da scommettere, visto il boom di vendite del libro, che la speranza non rimarrà delusa.

Intanto abbiamo letto questa prima storia e l’impressione è di essersi confrontati con un vuoto senza pari.

Quello di un uomo che ha inseguito e assecondato il potere e si è accorto della sua natura intrinsecamente corrotta solo dopo essere stato spinto ai margini e identificato, almeno per ora e secondo una logica che all’uomo qualunque appare meschina, come artefice solitario di un sistema che avrebbe potuto funzionare solo a condizione di vasti concerti e condivisioni.

Ma anche quello di una rappresentanza associativa e di un autogoverno, quelli dell’ordine giudiziario, che non hanno saputo sfuggire alla tentazione di farsi appunto sistema.

Quando Palamara ci dice – e aspettiamo che ci si chiarisca se mente o racconta la verità – che a capo delle grandi procure italiane si va per appartenenza e non per merito o senso della giustizia, quando aggiunge che l’esercizio dell’azione penale è obbligatorio solo per i nessuno della terra o, all’estremo opposto, per i potenti che al Sistema non piacciono – e anche per questo aspettiamo di avere parole di verità – è come se dipingesse un immenso deserto dominato dal nulla.

È diritto di tutti, non solo dei giuristi che si affannano (e non sempre ci riescono) a trarre senso da questa o quella decisione giudiziaria, da questo o quell’indirizzo interpretativo, sapere chi decide delle loro vite e dei loro beni e sperare che chi decide lo faccia secondo giustizia.

Per intanto siamo stati posti di fronte al vuoto.