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Trattativa Stato-mafia: il giudizio in abbreviato di Calogero Mannino

Parte sesta: La sentenza di primo grado
Le monde des images, Renè Magritte, 1950, private collection
Le monde des images, Renè Magritte, 1950, private collection

Questo scritto è stato originariamente pubblicato l'8 aprile 2020 dalla rivista Diritto Penale e Uomo. Viene adesso ripubblicato, per gentile concessione della direzione della predetta rivista, nella rubrica "La linea della palma" di Filodiritto" .

 

3.4. L’esito del giudizio abbreviato nei confronti di Calogero Mannino

3.4.1. La sentenza del GIP di Palermo

Il 4 novembre 2015 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo, respinta preliminarmente l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dalla difesa dell’imputato e trattenuta la competenza in applicazione del criterio residuale indicato dall’art. 9, comma 3, c.p.p., emise la sentenza che definì il primo grado del giudizio abbreviato nei confronti di Calogero Mannino[1].

Fu la prima delle tre sentenze finora emesse sulla trattativa.

In modo particolarmente scrupoloso, la motivazione prende in rassegna il materiale acquisito, ne riassume il contenuto e ne indica il rilievo.

Come per gli altri giudizi presi in considerazione, si preferisce, nell’impossibilità di un’esposizione onnicomprensiva, puntare sulla parte conclusiva del ragionamento del giudice.

Le prime considerazioni – e non poteva essere altrimenti data l’importanza centrale loro attribuita dall’accusa – riguardano le complessive dichiarazioni rese da Massimo Ciancimino.

Così le valuta il giudice:

«L’analisi integrale delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, come si è già ripetutamente osservato nei paragrafi relativi, ne ha rivelato l’assenza di coerenza e ha reso palese la strumentalità del comportamento processuale del Ciancimino, la gravità degli artifici adoperati per rendere credibili le sue sensazionali rivelazioni e giustificare le sue molteplici contraddizioni e per tenere “sulla corda” i pubblici ministeri col postergare la promessa di consegnar loro il papello, carpirne così la considerazione e mantenere sempre alta su di sé l’attenzione generale, accompagnato nel suo luminoso cammino dalla stampa e dal potente mezzo televisivo, stuzzicati con altrettanta astuzia.

In particolare sul finire del 2008 creava abilmente nei PM, che lo interrogavano sulla trattativa tra il padre e i due carabinieri del ROS, l’aspettativa del papello, che forniva solo in fotocopia sul finire del 2009, dopo averli riempiti di documenti del padre, selezionati a sua scelta e consegnati nei tempi da lui decisi, e di informazioni modulate a seconda delle evoluzioni del suo racconto e delle contraddizioni in cui andava incespicando.

Non può mancarsi di notare ancora una volta:

  • che l’autore del papello consegnato dal Ciancimino in copia ai PM non è stato identificato. La polizia scientifica, incaricata dalla Procura, ha escluso che il manoscritto fosse di Riina, del Ciancimino o di alcuno dei soggetti presi in considerazione per le comparazioni grafiche;
  • che del signor Carlo/Franco - l’uomo che avrebbe tenuto i rapporti col padre Vito (ma anche con lui) consigliandolo direttamente o facendo da tramite anche con Bernardo Provenzano - Massimo Ciancimino non ha fornito alcun dato autentico e utile ad identificarlo. Le sue indicazioni, date ratealmente ai PM per rintracciare tale misteriosa entità, su schede telefoniche sequestrate dai magistrati inquirenti e non restituitegli, su connotati fisici, luoghi, soggetti frequentati da questa persona etc., hanno dato adito ogni volta a complicate ricerche investigative, rivelatesi, a detta degli stessi PM, defatiganti, dispendiose e del tutto inutili;
  • a ogni piè sospinto di questo singolare percorso processuale, Massimo Ciancimino riferiva di visite di avvertimento di fantomatici uomini in divisa da Carabinieri, accompagnati da emissari del signor Franco/Carlo, di minacce epistolari e verbali di morte e di intimidazioni, nella casa di Palermo e in quella di Bologna, non tempestivamente denunciate per non gettare allarme, a suo dire, a fronte - nota il giudice - della sua messa in circolazione di sospetti di eventi sempre più catastrofici, e dell’ampliamento e dell’innalzamento verso l’alto dalle sue accuse.

Dell’avventura processuale del Ciancimino sono stati rilevati pure il falso predisposto ai danni di Gianni De Gennaro, all’epoca capo della polizia, per cui è imputato e la vicenda dei candelotti di dinamite, fatti rinvenire ai PM nel giardino della sua abitazione a Palermo, nell’aprile del 2011, per la cui detenzione ha già ricevuto una condanna.

Si sono pure esaminate le ragioni per ritenere il papello consegnato dal Ciancimino, su cui si fonda buona parte del costrutto accusatorio, ai PM frutto di una sua grossolana manipolazione: lo ha fornito solo in fotocopia senza dare di ciò alcuna motivazione plausibile, posto che la circostanza che si trovasse in cassaforte all’estero non avrebbe impedito la consegna dell’originale; è evidente che le fotocopie, con l’uso di carte e inchiostri datati, impediscano l’accertamento delle epoche degli originali, oggetto della copiatura; lo stesso Massimo Ciancimino ha invece fornito l’originale, e non la fotocopia, del post-it manoscritto a matita dal padre che recita ‘“consegnato spontaneamente al colonnello dei carabinieri Mario Mori dei ROS”, attaccato alla fotocopia del papello; non ha voluto rivelare chi gli avesse spedito il papello dall’estero, come da lui sostenuto, né perché non potesse dirlo ai PM; ha detto di non conoscere l’autore del papello (non glielo ha rivelato, queste volta, nemmeno il signor Franco/Carlo; ndg); E naturalmente non si può non sottolineare come il castello accusatorio si sia fondato su documenti prodotti dal Massimo Ciancimino in semplice fotocopia e non in originale (quanto al contro-papello si fa integrale rimando a quanto osservato nell’analizzare l’interrogatorio del Ciancimino del 1^ ottobre 2009, condotto congiuntamente dai PM di Caltanissetta e di Palermo, in cui emersero tutte le vistose incongruenze, ben messe in luce dai medesimi PM).

Inoltre sono state evidenziate le motivazioni della non attendibilità della fonte primaria di informazione di Massimo Ciancimino, il padre Vito Ciancimino»[2].

Il giudice passa quindi a valutare l’attendibilità di Vito Ciancimino, in quanto fonte primaria delle gran parte delle conoscenze accreditate dal figlio Massimo.

«Riguardo a Vito Ciancimino - che sarebbe comunque, si ripete fonte inattendibile della quasi totalità delle rappresentazioni fatte dal figlio Massimo, sulla trattativa con i carabinieri del ROS e sui suoi risvolti, anche successivi alla uscita di scena del padre -, si sono rilevate l’astuzia e la peculiare personalità manipolatoria del personaggio, lo stretto collegamento e il potere di influenza che esercitò sempre sui capi mafia corleonesi Riina e Provenzano, cui garantì, prima da politico e pubblico amministratore e dopo attraverso lo schermo di altri, il controllo e la partecipazione ai migliori affari, principalmente nel territorio della città di Palermo, che subì a loro opera un letterale saccheggio. Si sono richiamate anche le valutazioni di Falcone su Ciancimino, sintetizzate in una nota del 1985, relativa all’opposizione avanzata da Vito Ciancimino, contro un’istanza rogatoria del magistrato, indirizzata alle autorità svizzere. Questi fatti sono altresì documentati dagli atti della vicenda giudiziaria di Vito Ciancimino, che hanno pure recepito le dichiarazioni dì un numero consistente di storici collaboratori di giustizia, compresi Buscetta, Brusca, Cangemi, Giuffrè etc. e le risultanze, ancora più risalenti, dell’inchiesta della Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia in Sicilia, la cui relazione degli armi ‘70 dedicò al Ciancimino uno dei suoi più importanti capitoli, definendone il profilo di personaggio emblematico dell’ intreccio mafia-politica-affari.

Si è visto che la notizia dell’interlocuzione con i due ufficiali del ROS e del suo progetto di collaborazione per catturare un boss (così si espresse) furono propalate proprio da Vito Ciancimino, nei primi del 1993, quando volle riferirne al neo Procuratore della Repubblica di Palermo Giancarlo Caselli, e come la condotta effettivamente tenuta da Vito Ciancimino in quelle circostanze, anche alla luce di tutta una numerosa serie di altre risultanze processuali, si sia dimostrata impossibile da ricostruire. Ciò in quanto vi sono consistenti elementi indicativi del fatto che Vito Ciancimino, allora in contatto da una parte con i due ufficiali del ROS e dall’altro con Riina e Provenzano, avesse modulato i tempi e i contenuti dei messaggi, riportandoli agli uni e agli altri, che non comunicavano tra di loro, a suo piacimento e ad esclusivo beneficio del suo obiettivo, che era quello di ottenere la revisione dei suoi processi per mafia e corruzione e la restituzione dei beni sequestratigli, e di continuare a trarre vantaggio dalle sue strette relazioni con i capi corleonesi. Ciancimino proclamava sempre essere “I suoi processi tutti inventati’ da Giovanni Falcone, da lui definito uomo di potere, interessato pericolosamente, sosteneva, a porsi a capo di tutti i giudici d’Italia, analogamente a quanto per lui avevano fatto nel campo della politica Andreotti e a Craxi (v. oltre alle sentenze di condanna del Ciancimino di cui si è riferito, il suo scritto ‘“Le Mafie”, i numerosi articoli di stampa degli anni ‘80 e ‘90, tra cui la nota intervista rilasciata per il settimanale L’Espresso a Gianfranco Pansa, pure acquisti durante le indagini, relativi alla sua biografia politica, affaristica e processuale e alle sue propalazioni successive all’omicidio Lima, proseguite dopo le stragi del ‘92 e del ‘93, quando recalcitrava, inascoltato, insistendo per essere ascoltato, in diretta televisiva, dalla Commissione parlamentare antimafia, presieduta da Violante, per dare la sua chiave di lettura su quegli eccidi e su quelli che definiva i padroni d’Italia, in concomitanza con le visite dei ROS e poi degli interrogatori davanti al Procuratore Caselli).

A fortiori, rileva ora il giudice, i suddetti elementi non comprovano nemmeno il costrutto giuridico, riferito all’imputato Mannino, in base al quale gli abusi che gli vengono attribuiti - in concorso con altri soggetti di parte istituzionale - integrerebbero gli estremi del concorso, ex art. 110 c.p., nelle condotte di reato materialmente realizzate dai coimputati della parte mafiosa, integranti gli estremi delle fattispecie di cui agli artt. 338 e 339 c.p.».[3]

Segue il giudizio sulla credibilità del collaboratore Giovanni Brusca.

«Nei paragrafi dedicati a Brusca, considerato dall’accusa altra principale fonte dichiarativa, sono state analizzate le ragioni che inducono a ritenere la scarsa attendibilità di Brusca, per quanto afferisce, si badi, alla parte delle sue dichiarazioni, rilasciate da una certa epoca in poi, relative alla presenza di Mancino e di altri uomini della sinistra della DC dentro la trattativa di Mori e de Donno con Vito Ciancimino e allo sviluppo che la trattativa stato-mafia avrebbe avuto nel ‘93.

Sempre a proposito di Brusca, sono stati analizzati a fondo e a tratti pedissequamente, alcuni dei numerosissimi interrogatori - cui il collaboratore risulta essere stato sottoposto dagli organi inquirenti e davanti ai giudicanti di diversi uffici giudiziari, incessantemente dall’inizio della sua collaborazione, nel ‘96, in poi- esemplificativi della parabola dell’evoluzione della sue dichiarazioni, e che valgono a mostrarne le oscillazioni e i difetti della memoria (proprio su alcune situazioni che sono state considerate dal Pm cruciali per il processo, come ad esempio sulla collocazione temporale del papello di Riina), la mescolanza che fa tra le sue frammentarie conoscenze e le interpretazione che vi attribuisce, relativamente ai contatti con i politici che Riina avrebbe potuto avere e connessi alla spedizione del papello. Gli stessi interrogatori evidenziano soprattutto l’ingiustificata progressione accusatoria delle dichiarazioni di Brusca, sui temi in parola».[4]

Il giudice prende infine in considerazione tutti i restanti elementi ai quali il PM ha attribuito valore indiziario.

«Nemmeno risultano sufficienti a comprovarne gli assunti gli altri elementi, ritenuti dal PM come ulteriori pregnanti riscontri indiziari del suo costrutto: i timori di Mannino, la consapevolezza della sua vulnerabilità fisica e politica, proveniente dalla rottura dei suoi equilibri elettorali con la parte mafiosa; i suoi pregressi rapporti e il suo darsi da fare anche con i Ros, per tutelarsi dai molteplici rischi che lo assillavano; l’indagine Corvo 2; l’indagine mafia - appalti; la falange armata; la sostituzione di Scotti con Mancino; l’annuncio di Mancino della prossima cattura di Riina; la sostituzione di Martelli con Conso; la destituzione di Nicolò Amato e gli altri avvicendamenti al DAP; le vicende attorno al 41 bis o.p. etc.

Questo elenco afferisce in buona parte a situazioni notorie o pacifiche, che quindi non avrebbero avuto bisogno di essere provate, ovvero probatoriamente poco significative, in quando ad esse i canoni della conoscenza e dell’esperienza possono attribuire varie ragionevoli interpretazioni, alternative e diverse da quelle unidirezionali, e comunque indimostrate, prescelte dal PM. Si è anche rilevato come le medesime situazioni di fatto siano state a loro volta valutate dal PM come riscontri anche reciproci.

In sostanza, nell’articolata ricostruzione del PM elementi del contesto politico vengono caricati di valore dimostrativo (di un complesso disegno sottostante - la trattativa con Cosa nostra - e delle mosse per la sua attuazione - l’adempimento dell’obbligazione relativa al 41 bis o.p. -), accostati ad altri elementi considerati cause presunte della condotta dell’imputato (la scelta di Mancino, essendo un manniniano, la destituzione di Scotti, essendo contro la trattativa), accostati quindi a comportamenti da lui certamente compiuti e significativi della sua mentalità e delle ragioni poco commendevoli che li determinarono (il non denunciare, nascondere la sua paura fingendosi di non avere motivo per sentirsi minacciato dalla mafia, rilasciare interviste di un certo tipo, rivolgersi ai ROS, la pregressa conoscenza di Subranni, la telefonata a Di Maggio); poi tutti questi elementi vengono considerati situazioni probatorie o di riscontro indiziario reciproco, in una sorta di suggestiva circolarità probatoria.

Ma, si ripete, ciascuno dei fatti “politici” valorizzati dal PM può avere avuto cause diverse, dettate ad esempio dalle consuete logiche di appartenenza delia macchina e della burocrazia partitica, dalla volontà di evitare la linea netta di contrarietà al 41 bis o.p. (come quella che, in realtà, veniva all’epoca propugnava da Nicolò Amato, rivelata dalle note che questi all’epoca scriveva al ministro), ovvero dalla volontà di percorrere una linea meno coraggiosa di quella di Vincenzo Scotti, anche ispirata da scelte di bieco opportunismo politico, senza la necessità di un accordo siglato con una parte mafiosa. E ciò sia se le medesime situazioni si considerino autonomamente l’una dall’altra sia se si considerino nel loro insieme.

Non c’è qualcosa, come delle fonti orali o documentali, che dimostrino il collegamento tra l’iniziativa dei ROS di interloquire con Vito Ciancimino e l’evento ipotizzati dall’accusa di un accordo tra Mannino e Cosa nostra, per salvarsi e attuare un programma politico favorevole a una trattativa, volta a condizionare, partecipando alla volontà ricattatoria stragista della mafia, le scelte del Governo.

Allo stato degli atti appare improvabile, da un punto di vista processuale - che applica i canoni della gravità e della precisione indiziaria degli elementi di fatto su cui fondare un ragionamento probatorio - collegare il fatto che Mannino si raccomandasse con i ROS alla interlocuzione tra i ROS e Vito Ciancimino e alla scelta di sostituire Scotti col manniniano Nicola Mancino e con le dimissioni successive di Martelli. È ragionevole ritenere che i descritti comportanti di Mannino con Guazzelli e con i ROS siano stati determinati dalla volontà di trovare una protezione speciale, approfittando certamente della sua pregressa conoscenza con Subranni e dei privilegi che gli derivavano dal suo ruolo di potente politico.

Anche la telefonata di Mannino a Di Maggio, oggetto della testimonianza di Cristella[5], su cui il PM si è soffermato, indipendentemente dalla sua intrinseca attendibilità, sarebbe comunque suscettibile di rappresentare la volontà di Mannino di condizionare le scelte di non rinnovare i decreti ministeriali applicativi del 41 bis. Il giudice non ha nessuna difficoltà ad immaginare un simile scenario, considerata la biografia politica di Mannino, rivelata dal compendio probatorio ben sintetizzato nell’ordinanza con cui il GIP di Palermo nel 1995 dispose nei suoi confronti la misura cautelare del carcere e nelle sentenze che nello stesso processo lo giudicarono sull’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.

La complessa vicenda di Nicolò Amato - sopra compiutamente analizzata - appare emblematica di come elementi di sospetto, che non abbiano quindi una grave e autonoma natura indiziaria, se invece considerati come se possedessero tali connotati possono prestarsi ad interpretazioni facilmente ribaltabili e tutte analogamente plausibili e in fm dei conti prive di specifico valore dimostrativo processuale.

Ed invero, ricorrendo a criteri indiziari elastici, come quelli utilizzati dal PM, avrebbero potuto individuarsi anche a carico di Nicolò Amato una serie di situazioni sospette ed astrattamente indicative di una sua volontà di favorire l’abolizione del 41 bis, con l’intento di favorire la mafia e quindi la trattativa: Massimo Ciancimino ha ricordato che Amato (il quale dopo la sua destituzione dal DAP intraprese la professione di avvocato) assunse la difesa del padre Vito Ciancimino e che il padre sospettava che fosse imposto da uomini delle istituzioni, ricordando pure che andava nello studio dell’avvocato Amato, per consegnare o prendere buste chiuse; oltre a quella di Vito Ciancimino, Amato assunse la difesa del mafioso Angelo Siino; Amato aveva consegnato al nuovo ministro della giustizia Conso, che era da poco subentrato a Martelli, la famosa nota datata 6 marzo 1993, in cui, si ripete, tra l’altro dichiarava la sua netta contrarietà al regime del 41 bis. Scriveva infatti al ministro: “l’emanazione di questi decreti era certamente giustificata dalla necessità di dare alla criminalità mafiosa, anche all’interno delle carceri, dopo le terribili stragi di Capaci e di via D’Amelio, una risposta severa …Ma non vi è dubbio che la legge chiaramente configura il ricorso a questi decreti come uno strumento eccezionale e temporaneo, appunto emergenziale. Il regime che essi esprimono non può essere protratto indefinitamente, assurgendo a normale regime penitenziario. Non sì giustifica al di fuori delle eccezionali situazioni che lo motivano ... Appare giusto e opportuno rinunciare ora ali ‘uso di questi decreti, salvo ricorrervi successivamente nella malaugurata, deprecabile ipotesi di un ripresentarsi delle situazioni eccezionali che li giustificano”. Continuando, indicava due strade: non confermare i decreti di 41 bis alla scadenza annuale oppure revocarli in blocco. Concludeva esprimendo la sua preferenza per la seconda via: mi permetterei di esprimere una preferenza per la seconda soluzione perché rappresenterebbe un segnale forte di uscita da una situazione emergenziale e di ritorno a un regime penitenziario normale. Incidentalmente scriveva che la stessa soluzione era stata sollecitata in una precedente riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza dal capo della polizia Parisi e, limitatamente a Napoli Secondigliano e Poggioreale, dal ministro dell’Interno Mancino.

Nella stessa ottica indiziaria adottata dal PM, la circostanza che, dopo questa nota del 6 marzo 1993, il 4 giugno 1993 a Nicolò Amato venne revocato l’incarico di direttore del DAP, potrebbe interpretarsi come una volontà del ministro o del governo di eliminare un oppositore del 41 bis o.p., ovvero come uno che costringeva il ministro o il governo a prendere una posizione netta sulla questione, in senso favorevole o contrario. Così facendo, ancora, la circostanza che il ministro Conso a luglio, vale a dire alla prima scadenza annuale dei primi decreti di 41 bis, rinnovò quei decreti (emessi all’indomani della strage Borsellino) potrebbe considerarsi una conferma della divergenza di vedute da Amato e Conso e quindi come una conferma delle ora dette ragioni di rimozione di Amato. Ed ancora la circostanza che tra il 27 e il 28 luglio dello stesso anno vi furono gli attentati di Roma e Milano, e che dopo quegli attentati, a novembre, il ministro Conso, prendendo atto anche del loro collegamento con la strage dei Georgofili del maggio precedente, non rinnovò quei 334 decreti di 41 bis, coerentemente dovrebbe deporre nel senso sostenuto da Conso, che la sua cioè fu una decisione autonoma, presa sotto la pressione del senso di responsabilità che gravava sulla sua coscienza.

D’altra parte un modo elastico di attribuire natura indiziaria ai fatti, dovrebbe portare a prendere in considerazione anche che nello stesso “Appunto” del 6 marzo 1993 Amato aveva indicato in alternativa al 41 bis una serie di misure, come la registrazione dei colloqui e le videoconferenze per evitare il “turismo giudiziario” dei mafiosi (che se ben applicate avrebbero ostacolato concretamente le comunicazioni con i detenuti e quindi ostacolato la mafia), e tale fatto che porterebbe a ribaltare le valutazioni negative su di lui indotte da tutti quegli altri elementi sospetti.

In breve, l’esempio di Amato, ma anche quello di Conso, tra gli altri, dimostrano a quale circolarità inestricabile e a quali vani risultati probatorio porti l’attribuire valore dimostrativo a fatti non gravemente e precisamente significativi dell’assunto da provare»[6].

È il momento delle conclusioni di merito.

«In ultima analisi resta accertato che l’omicidio di Lima, la strage di Capaci, la strage di via D’Amelio e tutti gli eccidi posti in essere da Cosa nostra fino al ‘94, assunsero un’indubbia finalità politico-eversiva ed implicarono una minaccia anche al Governo, che era diretta a condizionare l’azione repressiva contro la stessa organizzazione. Resta inoltre accertato che Mannino fu ben in grado di comprendere, almeno fin dalia fine del 1991, che i corleonesi nutrissero propositi di vendetta anche nei suoi confronti (ne ebbe conferma anche dagli atti intimidatori subiti, di tipico stampo mafioso), e che in tale contesto si rivolse al maresciallo Guazzelli e quindi a Subranni, Mori, a Contrada ed altri, per ottenerne protezione.

Può d’altra parte considerarsi altamente probabile, stando alla sua biografia politica descritta negli atti del processo in cui fu giudicato sull’accusa di concorso in associazione mafiosa, che Mannino caldeggiasse una linea politica di non contrasto alla mafia. E bisogna dar atto inoltre che le dichiarazioni di Violante[7] e quelle della Ferraro[8], a proposito del fatto che anche Borsellino fosse informato dei contatti tra Mori e Ciancimino, ed altresì le dichiarazioni di Violante (allora presidente della commissione parlamentare antimafia) sulla sua insistenza di Mori perché Vito Ciancimino venisse ascoltato, indicano un tentativo di Mori stesso di assecondare le pretese del Ciancimino. Ma si è visto per quali ragioni, comunque, gli elementi concreti per connettere tale fatto all’iniziativa di Mannino di chiedere protezione ai ROS e la “trattativa” tra Mori e Ciancimino appaiono fragili, come pure, si ribadisce, gli elementi per attribuire a Mori una volontà di patteggiare, attraverso Ciancimino, benefici per Cosa nostra.

Inoltre va preso in considerazione il contesto in cui Mori e De Donno si trovavano, che rende molto difficile formulare giudizi negativi o meno sul loro operato. A Palermo vigeva da anni un clima di terrore mafioso, acuitosi tra il ‘91 e il ‘92, i corleonesi potevano uccidere senza esitare chiunque li contrastasse. Il delirio di onnipotenza di Rima, il suo sentirsi a capo di un’organizzazione che potesse contrastare lo Stato, si aggravò in corrispondenza col periodo di massima repressione giudiziaria e di rottura dei vecchi equilibri che l’organizzazione mafiosa aveva mantenuto con il partito di maggioranza assoluta, dovute a tutte le ragioni storico-politiche e giudiziarie esaminate (tutti gli elencati dati, emergono dagli accertamenti giudiziari relativi ai più gravi fatti di mafia degli anni ‘80 e ‘90, comprese le sentenze sulle stragi del ‘92 e del biennio successivo). Non va dimenticato che a Palermo operava la commissione presieduta da Riina, vertice gerarchico di una associazione criminale violentissima e gerarchicamente organizzata su tutto il territorio, che godeva di consenso popolare, con migliaia di adepti ed una rete di professionisti e funzionari pubblici collusi, che Riina fu uno dei principali responsabili della feroce guerra di mafia protrattasi degli anni ‘80. Riina a Palermo, pure nel periodo dei fatti che ci occupano, disponeva di squadre di killer permanentemente dedicate ai suoi ordini omicidiari. Ciò era contrastato da un numero di appartenenti alle forze di polizia e di magistrati assolutamente non dimensionato alla gravità che il fenomeno aveva assunto, nel contesto di uno stato debole”.

Resta il fatto che Mori e De Donno, ufficiali del Ros, corpo dedicato alle investigazioni antimafia e alla ricerca dei più pericolosi latitanti, andarono a rivolgersi a Vito Ciancimino, conoscendo chi fosse e quali interessi rappresentasse, ed ebbero con lui un’interlocuzione che, relativamente a quanto può considerarsi accertato, ebbe come fine la risoluzione di quei problemi dì ordine pubblico e principalmente la cattura di Riina.

Resta pure il fatto che, soprattutto dagli approfondimenti, a suo tempo espletati dal PM della DDA dì Firenze, sulla vicenda del 41 bis nel carcere di Pianosa, emerse non il sospetto che i ROS favorissero la revoca del regime del 41 bis, ma il diverso sospetto che in quei contesti utilizzassero, dentro le carceri o attraverso il ricorso a confidenti, informali metodi polizieschi per ottenere sbrigativamente i risultati desiderati, o quanto meno che i loro capi, e Mori era uno dei capi, mantenessero un particolare riservo su questi sistemi, magari per una sorta di ritegno ad affrontare il problema o di ragion di stato interna.

Può aggiungersi che anche le vicende della mancata perquisizione dell’abitazione di Riina e della mancata cattura di Provenzano (quest’ultima indicata nel capo d’accusa tra le condotte attribuite a Subranni, Mori e De Donno, ma anche a Mannino, in forza della contestazione del concorso ex art. 110 c.p.) si prestano a sospetti dello stesso genere, che come tali comunque non possono portare nel processo ad esprimere giudizi».

Il giudice esprime infine le sue conclusioni sulla qualificazione del fatto contestato e sulla formula assolutoria.

«Indipendentemente dal problema dell’esatta configurazione della condotta descritta nel capo d’accusa sotto le previsioni dell’art. 338 o dell’art. 289 c.p., da un punto di vista naturalistico può affermarsi la sussistenza della minaccia al Governo, in quanto l’omicidio Lima e tutte le stragi di Cosa nostra che seguirono vollero realizzare ogni volta una pressione e una minaccia di violenze ulteriori, dirette anche al Governo. La sequenza degli eccidi conteneva il chiaro messaggio intimidatorio della vendetta e della pretesa di un trattamento di favore e della minaccia di ulteriori stragi. Il messaggio integrato dall’omicidio di Lima era indirizzato a chi conosceva la storia di Lima. I timori di Mannino, le sue iniziative per ricevere tutela da organi di polizia giudiziaria, senza sporgere denunce, le confidenze da lui fatte a Padellaro e a Mancino, confermano che Mannino scorgesse negli eventi i segni della minaccia, proveniente dai vertici corleonesi e che avesse consapevolezza che la minaccia fosse diretta anche al governo ed ai politici, soprattutto a quelli che, secondo cosa nostra, avevano rotto il patto o che pubblicamente si vantavano di essere degli antimafiosi (il 12 marzo 1992 Mannino era ministro in carica del governo Andreotti, con Scotti e Martelli).

Per comprenderlo basta immaginare la prospettiva di ministri come Mannino, e gli stessi Scotti e Martelli e degli organismi di polizia. Tutti costoro per esperienza e conoscenza diretta, connessa tra l’altro alle loro funzioni istituzionali, erano in possesso degli strumenti cognitivi per inquadrare i fatti nel loro esatto contesto e coglierne il messaggio di avvertimento che se qualcuno non si fosse dato da fare per risolvere i guasti che gli interventi giudiziari e legislativi stavano provocando nell’organizzazione mafiosa, le rappresaglie non si sarebbero fermate. Si ricorderà, tra l’altro, ed è pure documentato in atti, che Giovanni Falcone colse subito il senso della minaccia che la mafia volle mandare ai politici e alle istituzioni politiche attraverso l’uccisione di Lima, tanto che volle incontrare il presidente della DC Ciriaco De Mita per discuterne.

Comunque, la pronuncia di assoluzione di Mannino, dovuta all’insufficienza del suddetto quadro probatorio, supera la questione della corretta individuazione della norma penale, sotto cui andrebbe sussunta la condotta di minaccia, come contestata. Appare però opportuno enunciare brevemente i termini della divergenza interpretativa tra il PM condivisa anche dalle parti civili- e la difesa di Mannino.

Il PM reputa che la previsione dell’art. 338 c.p., secondo cui “Chiunque usa violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ad una rappresentanza di esso, o ad una qualsiasi pubblica autorità costituita in collegio, per impedirne in tutto o in parte, anche temporaneamente o per turbarne comunque l’attività, è punito con la reclusione da uno a sette anni”, incrimini le condotte di violenza e di minaccia (scevra da violenza), contro qualsiasi organismo politico, amministrativo e giudiziario, ed in particolare ritiene che nella locuzione corpo politico rientri anche il Governo della Repubblica.

Reputa inoltre il PM che la fattispecie concretamente contestata non potrebbe rientrare nella previsione di cui ali art. 298 c.p., poiché questa, se tutela il Governo da atti diretti a impedirne il regolare funzionamento, punisce solo gli atti di violenza e non anche le minacce. Conclude che essendosi attribuiti ai coimputati sole condotte di minaccia la loro qualificazione giuridica ai sensi dell’art. 338 c.p. è quella corretta.

I difensori dell’imputato sostengono che nella previsione dell’art. 338 c.p. non rientrerebbero i collegi che, in virtù dei poteri e delle qualifiche loro conferite, godono di apposita protezione penale, per effetto di altre e diverse disposizioni, e che l’esercizio delle attribuzioni o delle prerogative conferite dalla legge al Governo trovi espressa tutela nel n. 1 dell’art. 289 c.p. Più esattamente l’art. 289 c.p., nella previsione successiva alla riforma del 2006, sotto la rubrica ‘‘attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali”, punisce chiunque compia atti violenti (e non anche atti di minaccia; ndg) diretti ad impedire in tutto o in parte, anche temporaneamente: 1) al Presidente della Repubblica o al Governo l’esercizio delle attribuzioni o prerogative conferite dalla legge; 2) alle assemblee legislative o ad una di queste, o alla Corte costituzionale o alle assemblee regionali l’esercizio delle loro funzioni.

La difesa nega perciò che nella nozione di corpo politico richiamata dall’art. 338 c.p. rientri il Governo, osservando tra l’altro che il legislatore nel 2006 ha modificato la struttura del reato di cui all’art. 289 c.p. escludendo dalle condotte punibili la semplice minaccia (nei confronti del Governo e degli altri organi costituzionali dello Stato) e mantenendo l’incriminazione solo per le condotte violente che ne determinino il turbamento. In sostanza, reputa la difesa, il legislatore con tale modifica ha inteso decriminalizzare le azioni di minaccia al Governo, e il PM, con un aggiramento interpretativo non fa altro che riesumare una condotta depenalizzata.

È appena il caso di accennare all’altra questione giuridica, che si sarebbe dovuta affrontare ove fosse stata raggiunta la prova di una condotta dell’imputato definibile come un contributo oggettivo alia minaccia al Governo (attuata materialmente dai membri di Cosa nostra), vale a dire la questione dell’elemento psicologico.

In base ai principi regolatori dell’elemento del dolo (forma di colpevolezza voluta ai fini della punibilità del reato contesto) e della responsabilità concorsuale, ex artt. 110 c.p., perché un soggetto possa rispondere a titolo di concorso del reato realizzato da un altro è necessario non soltanto che abbia posto in essere un comportamento materiale o morale che abbia avuto almeno una qualche influenza nella determinazione della condotta dell’agente, ma anche, sotto il profilo soggettivo, che abbia avuto la coscienza e la volontà di concorrere nella realizzazione del fatto criminoso. In altri termini l’elemento psicologico è un elemento strutturale anche nella fattispecie concorsuale e consiste, secondo la giurisprudenza e la dottrina dominanti, in due componenti: la coscienza e volontà del fatto criminoso e la volontà di concorrere con altri alla realizzazione del reato.

Senza diffondersi sulle varie forme che la coscienza e la volontà nella realtà possono assumere, è il caso di aggiungere che la responsabilità della minaccia sarebbe certamente attribuibile a coloro che intendessero trattare per far cessare l’attacco stragista ove ciò implicasse la consapevolezza e la volontà di partecipazione al ricatto della prosecuzione della linea stragista. Non potrebbero considerarsi compartecipi e corresponsabili della suddetta minaccia coloro che pur volendo in qualche modo assecondare le pretese mafiose non intendessero condividerne (l’elemento essenziale) della minaccia della prosecuzione delle stragi. L’azione incauta diretta a porre fine ad un’azione criminosa in corso, anche ove dovesse accompagnarsi a condotte di favoreggiamento, guidate comunque da un fine dominante di cessazione del reato altrui, non comporterebbe tout court una responsabilità concorsuale, in assenza di una comprovata volontà di partecipazione dolosa al crimine del soggetto agente.

Si ribadisce che comunque nei confronti di Mannino gli elementi indiziari per affermare che vi fu da parte sua il genere di interferenza di cui è accusato risultano non adeguati. Pertanto l’imputato va assolto per non aver commesso il fatto di cui è accusato»[9].

Una minaccia dunque ci fu, secondo il giudice, ne fu vittima il Governo, ne furono autori i capi di Cosa nostra e il mezzo per attuarla furono gli omicidi e le stragi, a partire dall’assassinio di Salvo Lima.

Il giudice non ha tuttavia ritenuto necessario, in conseguenza dell’esito assolutorio, prendere posizione sulla più corretta qualificazione giuridica della condotta e si è limitato a citare le due opzioni alternative indicate dall’accusa (minaccia a corpo politico) e dalla difesa (attentato contro organi costituzionali).[10]

Le fonti probatorie indicate dall’accusa pubblica, considerate sia singolarmente che complessivamente, non sono per contro idonee a dimostrare che ci sia stata una trattativa illecita nei termini configurati dal capo di imputazione e che ad essa abbia concorso Calogero Mannino.

La stessa conclusione vale per gli ufficiali del ROS che provarono a incunearsi in Cosa nostra nel tentativo di bloccare le stragi.

In ogni caso, afferma il giudice, quand’anche fosse stata data prova che uomini delle istituzioni fossero disposti ad assecondare le richieste della controparte mafiosa, questo non basterebbe a trasformarli in concorrenti del reato di minaccia a un corpo politico in assenza dell’ulteriore prova della loro condivisione della prosecuzione della campagna stragista.

 

[1] La sentenza è reperibile a questo link.

[2] Idem, pp. 501 ss.

[3] Idem, pp. 503 ss.

[4] Idem, pp. 504 ss.

[5] Nicola Cristella, ispettore della Polizia penitenziaria, capo della scorta del Dr. De Maggio.

[6] Idem, pp. 506 ss.

[7] Luciano Violante, ex magistrato, parlamentare, presidente della Commissione bicamerale antimafia dell’XI legislatura (1992-1994).

[8] Liliana Ferraro, magistrato, direttore del dipartimento affari penali del Ministero della Giustizia nel 1992.

[9] Idem, pp. 513 ss.

[10] Per la stessa ragione il giudice ha omesso di pronunciarsi su un ulteriore rilievo segnalato dalla difesa la quale ha osservato che l’art. 4 della l. 85/2006 ha modificato la fattispecie dell’attentato agli organi costituzionali (art. 289 c.p.).  Nel regime previgente la norma era così formulata: «“1. È punito con la reclusione non inferiore a dieci anni, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette un fatto diretto ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente: 1) al Presidente della Repubblica o al Governo l’esercizio delle attribuzioni o prerogative conferite dalla legge; 2) alle Assemblee legislative o ad una di queste, o alla Corte costituzionale, o alle Assemblee regionali, l’esercizio delle loro funzioni. 2. La pena è della reclusione da uno a cinque anni se il fatto è diretto soltanto a turbare l’esercizio delle attribuzioni, prerogative o funzioni suddette”. Con la riforma del 2006 la formulazione è divenuta la seguente: “È punito con la reclusione da uno a cinque anni, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette atti violenti diretti ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente; 2) alle Assemblee legislative o ad una di queste, o alla Corte costituzionale, o alle Assemblee regionali, l’esercizio delle loro funzioni». Mentre, dunque, all’epoca dei fatti qualunque condotta, ivi compresa quella minacciosa, poteva integrare il reato purché diretta al fine indicato dalla norma, dal 2006 in avanti ebbero rilievo penale solo gli atti violenti. Si è quindi in presenza di un’abolizione parziale che giustificherebbe nel caso di specie, ove si propendesse per la fattispecie delineata dall’art. 289, l’applicazione del principio della retroattività favorevole sancito dall’art. 2, comma 2, c.p. La questione è rimasta tuttavia irrisolta.