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L’incapacità preordinata di intendere e di volere

Le actiones liberae in causa
Il Codice Penale costituisce l’insieme di norme giuridiche create con la finalità di combattere e prevenire atti criminosi, mediante l’intimidazione dell’applicazione di sanzioni specifiche, quale stimolo per la tutela dell’ordine e della sicurezza sociale. Pertanto, presume sempre l’imputabilità di ogni individuo, purché maggiorenne, in quanto, sostanzialmente, con la maggiore età dovrebbe essere acquisita la maturità psichica, indipendentemente dalle caratteristiche peculiari della persona.

E’ considerato imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere in quanto "nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile" (art. 85 codice penale "Capacità di intendere e di volere").

L’imputato quindi, per essere considerato tale, deve possedere l’idoneità psichica a volere un determinato comportamento e a comprenderne il significato nonché il valore delle conseguenze materiali e morali che ne potrebbero derivare.

Quindi, l’insieme della capacità di intendere e di volere è considerato come requisito essenziale, configurante la normalità psichica, che attiene al soggetto in astratto, e che si manifesta attraverso un comportamento mentalmente sano, distinguendosi da "coscienza e volontà", richieste dall’articolo 42 del codice penale, che invece, attengono in concreto alla condotta criminosa. Ne consegue che, in senso giuridico, l’intendere ed il volere rappresentano due elementi essenziali e complementari di un unico aspetto, inscindibili ai fini dell’imputabilità.

Pertanto l’imputabilità rappresenta la conditio sine qua non (condizione senza la quale non si può essere responsabili) affinché il reo possa essere condannato. E poiché ogni comportamento illecito deve essere valutato ai fini della responsabilità sia da un punto di vista fisico che psicologico, va da sé, che dovranno essere verificati la sussistenza del rapporto di causalità giuridico-materiale e il riconoscimento dell’effettiva responsabilità dell’imputato per dolo, colpa o per delitto preterintenzionale (art. 42 codice penale primo comma).

Se è vero che ogni atteggiamento umano rispecchia la personalità stessa dell’agente nella sua complessità, quale risultante di vari fattori (sociali, pedagogici, culturali, ecc.), che prescindono dalla sfera intellettiva e volitiva e che possono nel tempo modellare il proprio sentire, suscitando anche azioni illecite, è pur vero che la legge penale, non nasce per comprendere la personalità e l’assetto psichico, né il vissuto del reo, ma piuttosto per punire ogni atto criminoso, al fine di prevenire e reprimere il consumarsi di altri reati.

Si presume, pertanto, l’imputabilità psichica, nonostante siano previste diverse condizioni che escludono o scemano grandemente l’imputabilità.

Innanzitutto, rispetto all’età le cause di esclusione dell’imputabilità possono essere di ordine fisiologico o patologico: per i minori degli anni quattordici sussiste presunzione assoluta di non imputabilità (art. 97 codice penale comma secondo), mentre per i minori, di età compresa fra i quattordici e i diciotto anni, l’imputabilità va accertata di volta in volta (art. 98 codice penale comma terzo). In quest’ultimo caso bisogna valutare la maturità psichica e l’effettiva capacità di autocontrollo e di giudizio, in quanto, nel minore, contrariamente al maggiorenne, è considerata fisiologica l’incapacità a controllare le proprie emozioni e pulsioni istintive.

Per gli adulti, invece, le cause che possono escludere l’imputabilità debbono essere di ordine patologico.

In particolare, in relazione all’uso di alcolici e di sostanze stupefacenti, il trattamento penale è diversificato: altro per chi è considerato affetto da infermità di mente, altro per chi conserva le proprie capacità intellettiva e volitiva, anche se solo in parte.

La perdita o la riduzione delle capacità di intendere e di volere, indotte da una volontaria intossicazione acuta, rendono responsabile chi ha commesso il reato in quanto capace di prevedere, prima dell’assunzione, le possibili conseguenze negative del suo comportamento anche se il reato veniva commesso quando ormai la condizione psichica non era più tale da determinare un’azione libera dettata da una cosciente capacità di intendere e di volere (actiones liberae in causa).

Analizziamo, quindi, il principio della punibilità delle c.d actiones liberae in causa, introdotte dal codice penale del 1930 con l’art 87 che, in deroga al principio generale dell’art. 85 (è imputabile colui che al momento della commissione del reato è capace d’intendere e di volere) statuisce che deve essere considerato imputabile e quindi punibile il soggetto che si è posto in stato di incapacità di intendere e di volere al fine di commettere un reato.

In base a tale disposizione colui che al fine di commettere un reato o di prepararsi una scusa si è pone in stato d’incapacità d’intendere e di volere, e in tale stato commette un reato, è chiamato a rispondere del reato medesimo come se lo avesse commesso in stato di piena imputabilità.

La locuzione latina actio libera in causa indica il fenomeno che si verifica allorquando taluno si pone in stato di incoscienza al fine di commettere un reato o di procurarsi una scusante. In tal caso viene applicata la pena sebbene chi abbia commesso il fatto era in stato di incapacità di intendere e di volere al momento del compimento della condotta.

La teoria delle actiones liberae in causa era già utilizzata in diritto canonico dai moralisti della tradizione cristiana per giustificare l’applicazione della pena nei casi di peccati commessi da soggetti incapaci di intendere o di volere, che si erano posti volontariamente in stato di incoscienza al fine di commettere il peccato o di scusarne la condotta. Nel diritto italiano la teoria è stata accolta nell’art. 87 del codice penale.

L’art. 87 del codice penale recita: “la disposizione della prima parte dell’art. 85 non si applica a chi si è messo in stato di incapacità di intendere e di volere al fine di commettere un reato o di prepararsi una scusa”.

E’ questa l’ipotesi che in dottrina viene indicata sotto il nome di “actio libera in causa” ovvero incapacità preordinata di intendere e di volere, che si verifica quando il soggetto si pone in stato di incapacità al fine di commettere un delitto o di prepararsi una scusa.

In dottrina esistono varie teorie che hanno cercato di dare una giustificazione a tale norma.

Secondo la teoria tradizionale, l’ipotesi dell’actio libera in causa costituisce una eccezione alla regola, secondo la quale l’agente deve essere imputabile nel momento della commissione del fatto. Il soggetto, quindi, viene punito per l’azione che precede il fatto illecito. In sostanza, dall’azione compiuta in stato di incapacità di intendere e di volere si risale all’azione libera che ha preceduto. Pertanto, la responsabilità trova la sua giustificazione nel principio “causa causae est causa causati” ovvero chi determina volontariamente una situazione dalla quale deriva un evento lesivo, è chiamato a rispondere dell’evento stesso, a prescindere dalla eventuale volontarietà dell’evento.

L’ANTOLISEI nega che nell’actio libera in causa si punisca una condotta precedente all’esecuzione del reato. Secondo questo autore, la punibilità di tale azione non rappresenta una eccezione alla regola, bensì è una ulteriore applicazione dell’art. 86 del codice penale, in quanto il soggetto si serve di se stesso per eseguire il reato. La caratteristica dell’actio libera in causa consiste, quindi, nel fatto che il soggetto comincia l’esecuzione del reato in stato di imputabilità e lo continua in stato di non imputabilità.

Il PANNAIN sostiene, invece, che la punizione dell’actio libera in caausa non rappresenta una applicazione dei principi generali. Tale norma si può giustificare solo ove si riconosca all’art. 87 del codice penale il carattere di norma estensiva ovvero di norma che estende la punibilità a casi particolari che, in mancanza, non sarebbero puniti. In pratica, secondo l’autore, la funzione estensiva dell’art. 87 del codice penale si può avvicinare agli articoli 56 e 110 del codice penale. Infatti, l’art. 87 combinandosi con queste ultime norme crea altrettanti ipotesi di reato in cui l’azione esecutiva punibile comincia nel momento in cui il soggetto si pone in stato di incapacità di intendere e di volere per compiere il reato.

Il soggetto che commette il reato in stato di preordinata incapacità di intendere e di volere, risponde del reato a titolo di dolo o di colpa?

Secondo DE MARSICO, si tratta di responsabilità oggettiva.

Secondo DAVI’, si tratta di responsabilità a titolo di colpa.

La dottrina prevalente (VENDITTI, MANTOVANI, PANNAIN, ANTOLISEI) sostiene che il soggetto risponde a titolo di dolo diretto e non eventuale, in quanto esso si pone come rappresentazione e volizione della condotta posta in essere per determinare uno stato di incapacità preordinata all’esecuzione del reato.

Ciò, però, non esclude la configurabilità della colpa ovvero quando il reato viene commesso per negligenza, imperizia, imprudenza.

Esempio: un tale avendo deciso di uccidere la moglie e non avendo il coraggio di farlo, si ubriaca, ma durante il tragitto per raggiungere il luogo prescelto, perde il controllo dell’auto e finendo fuori strada cagiona la morte della moglie.

In questo caso, si risponderà di omicidio colposo e non di omicidio volontario.

In definitiva, per accertare il grado di responsabilità nelle actiones liberae in causa è necessario analizzare il caso in concreto.

Se vi è omogeneità tra fatto programmato e fatto realizzato, l’agente risponde a titolo di dolo.

Se tale omogeneità non sussiste, l’agente risponderà a titolo di colpa.

Il FIANDACA-MUSCO rileva che la natura essenzialmente dolosa del delitto commesso in stato di preordinata incapacità comporta che il fatto criminoso concretamente realizzato deve essere omogeneo rispetto a quello inizialmente programmato, perché altrimenti si realizzerebbe una frattura tale da recidere la necessaria corrispondenza tra fatto e colpevolezza.

Come per altre ipotesi di reato, anche per le actiones liberae in causa sono previste delle cause di giustificazione del reato. Ciò si verifica nel caso in cui la causa di giustificazione esiste già nel momento in cui il soggetto si pone in stato di incapacità ovvero quando la causa di giustificazione si verifica nel momento dell’esecuzione del reato preordinato.

L’art. 56 del codice penale stabilisce che chi compie atti idonei a commettere un delitto, risponde di delitto tentato se l’azione non si compie o l’evento non si verifica.

Tale disposizione trova applicazione nel caso di actio libera in causa, anche se crea non pochi dubbi, soprattutto con riferimento a quella che è la concezione comune sull’essenza e sulla natura della norma che la prevede.

In primo luogo è necessario distinguere due ipotesi nettamente diverse tra loro: il caso di colui che si pone in stato di incapacità e realizzi un tentativo di reato preordinato ovvero non riesce a compiere l’azione delittuosa; il caso di colui che si pone in stato di incapacità, ma, per motivi indipendenti dalla sua volontà, non compie nessun atto idoneo e diretto alla commissione del reato preordinato.

Nel primo caso, l’agente risponderà di delitto tentato, mentre nel secondo caso il VENDITTI rileva che, pur se costituisce inizio dell’attività esecutiva, il fatto di porsi in stato di incapacità al fine di commettere il reato preordinato equivale alla istigazione, per cui ad essa è applicabile, per analogia, la norma dettata dal terzo comma dell’art. 115 del codice penale, che dichiara non punibile l’istigazione accolta ma non seguita dalla commissione del reato.

Ovviamente, di tale norma, per il principio di divieto dell’analogia in malam partem, sarà applicabile solo per la parte che dichiara non punibile la condotta precedente mentre non potrà essere estesa quella parte che rende applicabile una misura di sicurezza.

L’ipotesi di actiones liberae in causa si pone anche in tema di responsabilità civile.

Perché un danno possa essere riferito ad un dato soggetto occorre procedere alla valutazione di due distinti elementi: uno considera la condotta posta in essere e tende a verificare l’esistenza nella specie del profilo dell’antigiuridicità; un altro concerne la lesione ed è diretta ad accertare la presenza, nel caso concreto, di un interesse giuridicamente protetto, vale a dire la sussistenza di un danno «ingiusto».

I criteri che concorrono a motivare il giudizio di responsabilità sono quindi di due tipi: uno, oggettivo, attiene alla qualificazione della lesione; un altro, soggettivo, pone l’accento sulla condotta, sull’autore del danno.

È a quest’ultimo criterio che occorre riferire il requisito dell’imputabilità, in base al quale, a mente dell’art. 2046 del codice civile, «non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non aveva la capacità di intendere e di volere al momento in cui lo ha commesso, a meno che lo stato d’incapacità derivi da sua colpa».

Nel giudizio di responsabilità, occorre pertanto procedere preliminarmente ad una valutazione di una possibilità futura, al fine di verificare l’astratta possibilità che il danno possa essere messo a carico del soggetto. Vale a dire per poter argomentare, a fatto avvenuto, il giudizio conclusivo, di imputazione del danno, si deve prima procedere ad un giudizio di imputabilità: l’imputabilità è quindi il presupposto dell’imputazione.

Secondo la definizione tradizionale, si intende per «capacità di intendere» l’attitudine del soggetto a conoscere il valore delle azioni da lui poste in essere, il «significato sociale» della sua condotta. Per «capacità di volere», l’idoneità della persona a determinarsi in modo libero ed autonomo, indipendente da coazioni esterne.

Si tratta di capacità analoga a quella richiesta in campo negoziale? La risposta è sicuramente affermativa, se si guarda ai presupposti teorici delle due figure, sicuramente negativa qualora si volesse ipotizzare una tendenziale equiparazione.

Perché possa ricorrere l’imputabilità è infatti necessario un grado di capacità che non sempre è sufficiente per integrare anche la capacità negoziale: la maturità richiesta per il conseguimento della capacità di agire è ben maggiore di quella idonea a configurare la capacità nell’illecito, la quale rimane sempre, diversamente da quanto accade per il conseguimento della capacità negoziale, una questione di fatto, rimessa alla discrezionale valutazione dell’interprete della singola fattispecie.

La necessità di doversi confrontare con la sfera psicologica, con l’«idea» della capacità, le implicazioni (allora) tra consapevolezza e concezione della colpa, l’esigenza di distinguere, fanno dell’espressione imputabilità una nozione equivoca, a tale punto che non da oggi si deve registrare un dibattito che ha messo in crisi la stessa «idea» di imputabilità.

Ed in effetti, è stato sottoposto a critica l’insegnamento che negava il risarcimento del danno non patrimoniale, sull’assunto dell’inesistenza del fatto reato per difetto dell’imputabilità, opponendo una definizione che assegna autonomia alla nozione di imputabilità, ritenuta qualifica soggettiva, rispetto alla colpevolezza, designata come elemento dell’illecito.

Motivando in particolare sulle nuove direttive in materia di infermi di mente, si è quindi dubitato dell’automatismo fra malattia ed incapacità, in una direzione che denuncia il reale disfavore per l’incapace costituito dal regime di automatica irresponsabilità.

La crisi del concetto tradizionale di imputabilità è infine documentato dalle serrate critiche, ispirate ad una «oggettivizzazione» del concetto di colpa, che sono state mosse all’opinione che configura l’imputabilità come la premessa di qualsivoglia ragionamento ispirato a criteri psicologici.

Secondo la teoria tradizionale, sarebbe infatti finanche assurdo argomentare un giudizio fondato sulla colpa, nel caso in cui al soggetto non si potesse muovere alcuna riprovazione per il fatto commesso, in ragione della di lui incapacità di distinguere il «bene» dal «male» ovvero di determinarsi in modo autonomo.

Di qui l’assunto in base al quale l’imputabilità costituisce il presupposto della colpevolezza: in questa prospettiva, l’imputabilità viene ad essere definita come «attitudine» alla colpa. Rispetto a simile conclusione si è dunque da tempo registrata una tendenza diretta a separare la nozione di «colpevolezza» da quella di «imputabilità», fino a configurare l’imputabilità come categoria del tutto autonoma in ragione delle diverse funzioni che le due nozioni assolvono nel meccanismo normativo. Così che si è potuto argomentare della possibilità di motivare l’imputazione anche senza considerare il requisito psicologico.

Già in tempi non recenti, rispetto alla ricostruzione che configura tecnicamente l’imputabilità come presupposto della responsabilità, è stata allora opposta una nozione di colpa che sfugge a qualsivoglia valutazione di tipo morale e soggettivo, una tesi che configura la colpa come difformità oggettiva del comportamento posto in essere rispetto ad un modello sociale astratto. Secondo questo orientamento, il giudizio sulla colpevolezza risulta quindi del tutto autonomo rispetto alla valutazione circa l’esistenza della capacità d’intendere e di volere: l’accertamento dell’imputabilità rimarrebbe pertanto materia del tutto separata dal giudizio circa la colpevolezza.

In questa prospettiva sembra collocarsi anche quella giurisprudenza che sottolinea la diversità della verifica circa l’esistenza della «capacità di intendere e di volere», che si risolve in una valutazione di fatto, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata, dall’accertamento che identifica la colpevolezza. Vale a dire il presupposto che subordina l’affermazione della responsabilità alla esistenza del dolo o della colpa in capo all’autore.

In realtà, tali affermazioni non sembrano offrire alcun decisivo argomento. È del tutto chiaro infatti che, sotto il profilo logico, le due indagini, sull’imputabilità e sulla colpevolezza, sono del tutto distinte. Il problema è però un altro: rimane infatti sempre da stabilire se si possa prescindere, nel dare un giudizio di «colpevolezza», da una (preventiva) valutazione di imputabilità.

Resta allora indubbio che il dato testuale continua a confermare il rapporto di dipendenza tra imputabilità e responsabilità: nel dibattito non sembra infatti che siano stati svolti argomenti tali da escludere che si possa davvero procedere alla ricostruzione della responsabilità civile prescindendo dalla capacità d’intendere e di volere.

Meglio allora riconsiderare la tesi dell’imputabilità come presupposto dell’imputazione del danno, riproponendola in termini relativi. In questa prospettiva si deve affermare che il ruolo assegnato dall’ordinamento alla previsione dell’art. 2046 codice civile è quello di regola generale dell’imputazione, per quelle ipotesi in cui si tratta di responsabilità c.d. soggettiva.

Soltanto introducendo una nozione di «colpevolezza» indipendente dal dolo o dalla colpa, può allora essere giustificata anche la tesi secondo la quale la previsione del 2046 condiziona l’operatività del criterio basato sul dolo o sulla colpa allo stato di capacità dell’autore del danno.

Conseguentemente, in quelle altre ipotesi nelle quali il criterio di imputazione risulta fondato su criteri oggettivi, ogni valutazione circa la capacità d’intendere e di volere, la «colpevolezza» non può essere ricostruita nei termini del dolo e/o della colpa, dovendosi guardare essenzialmente alle modalità oggettive del comportamento (che se non possono, secondo tale teoria, contribuire a formare un giudizio di «disapprovazione», ben possono costituire fattore capace di dare ragione al risarcimento: il riferimento è, essenzialmente, alle previsioni di cui agli artt. 1227, primo comma e 2047 codice civile).

Alla stessa conclusione perviene peraltro anche chi non condivide la possibilità di configurare una colpa «obiettiva», rilevando che non vi dovrebbero essere difficoltà a riconoscere che il fatto illecito dell’incapace possa concorrere con quello del capace ai fini della diminuzione del danno risarcibile ovvero possa impegnare il responsabile, sussistendo i requisiti della illiceità.

In ogni caso, fuori da tali ipotesi, il termine «imputabilità» continua comunque a conservare una indubbia valenza, rimanendo ad indicare uno dei criteri che la legge richiede per giustificare l’attribuzione del fatto illecito ad un determinato soggetto.

In via di principio, pertanto, il giudizio di responsabilità capace di giustificare il trasferimento del danno da chi lo ha subìto ad un altro soggetto, dovrà in primo luogo guardare alla sussistenza di determinate qualità soggettive in capo a colui che dovrà definitivamente sopportare il danno, a meno che il dato testuale escluda subito l’esigenza di simile indagine, essendo previsto un criterio di responsabilità che prescinde del tutto da considerazioni riguardanti la persona dell’agente (l’esempio classico è la responsabilità stabilita per rischio d’impresa). Mentre rimane da accertare che ciò possa avvenire anche per quelle ipotesi che una parte della dottrina suole indicare nei termini della colpa «oggettiva» (dove il problema si risolve tutto nella stessa nozione di «colpevolezza»).

Fuori da tali problematiche, la cui rilevanza pratica non è in realtà molto percepibile, si deve in questa sede da ultimo segnalare che nessuna particolare conseguenza deriva dall’incapacità, come conferma l’inciso contenuto nell’art. 2046 codice civile, quando la stessa sia derivata per fatto colposo dell’autore del danno.

Si tratta delle actiones liberae in causa, dove, tradizionalmente, la condotta «non libera», resa in stato d’incapacità, deve farsi risalire ad un’azione anteriore consapevole. In questa ipotesi non vi è motivo, anche in ragione di una corretta applicazione delle regole in materia di causalità, per non confermare il regime ordinario di responsabilità. E così, diversamente da quanto prevede la legge penale, anche nell’ipotesi in cui l’autore del fatto illecito si sia posto in condizioni di incapacità, senza l’intenzione preordinata di porre in essere l’azione dannosa. Ciò che è qui sufficiente è il fatto che l’autore abbia adottato consapevolmente un comportamento che lo abbia posto in condizioni di incapacità, dando causa ad una condotta idonea, secondo i canoni della normalità, a produrre un evento dannoso, ancorché non voluto e finanche non concretamente previsto (ma prevedibile: è il classico caso di chi, in stato di ubriachezza, si metta alla guida di un autoveicolo ed investa un pedone).

Come si deve considerare l’ipotesi in cui il soggetto si sia posto in stato di incapacità consapevolmente, ma senza avere la possibilità di autodeterminarsi in maniera davvero libera?

Al quesito ha dato risposta la giurisprudenza, la quale ha escluso che possa individuarsi una responsabilità quando il comportamento che procura l’incapacità, pur dovendosi ascrivere al soggetto, sia comunque caratterizzato dall’inesistenza di una volontà. È questo il caso di cronica intossicazione da alcool, caratterizzato da un impulso, ripetitivo e condizionante tutto il comportamento della persona, all’assunzione di sostanze alcooliche e da stabili perturbazioni di ordine fisico. In tale ipotesi, la situazione dell’autore è quella stessa del malato di mente, con la conseguenza che la sua capacità deve ritenersi esclusa ovvero diminuita. Parimenti, se lo stato di tossicodipendenza di per sé non potrebbe ritenersi rilevante ai fini dell’imputabilità, a meno che la droga non sia stata assunta per forza maggiore o per caso fortuito, quando quello stato sia tale da produrre un’intossicazione patologica, esso può essere assimilato a quello di un vero malato di mente.

È facile osservare che in tale modo la valutazione del comportamento e della capacità si riporta al momento in cui è stato posto in essere l’atto che, in ipotesi, ha prodotto l’incapacità. L’affermazione dell’irresponsabilità risulta quindi dipendente dalla valutazione della capacità del soggetto in quel dato momento: il tossicodipendente viene valutato incapace già prima che assuma la droga, perché è «inidoneo» ad autodeterminarsi (secondo la definizione tradizionale, è «incapace di volere») in vista di escludere uno stato che lo renda «incapace di intendere». Allo stesso modo in cui neppure avrebbe senso ammettere una indagine diretta a valutare la «libertà dell’azione», ad esempio nel caso in cui un infante si ubriacasse: la verifica dell’incapacità, per così dire, «fondamentale», assorbirebbe qui ogni ulteriore considerazione.

Dal lavoro sin qui svolto, si può concludere che la libera volontà e la responsabilità penale e civile sono strettamente correlate. Abbiamo visto come la maggior parte degli studiosi che si è interessata al problema si sia pronunciata a favore della capacità dell’uomo di autodeterminarsi come caratteristica ineliminabile dell’individuo medesimo, vale a dire, nell’espressione del principio del libero arbitrio.

Ne consegue che la pena è meritata quando il soggetto ha agito con libertà, ossia qualora venga accertato che egli aveva la possibilità di agire altrimenti.

Il Codice Penale costituisce l’insieme di norme giuridiche create con la finalità di combattere e prevenire atti criminosi, mediante l’intimidazione dell’applicazione di sanzioni specifiche, quale stimolo per la tutela dell’ordine e della sicurezza sociale. Pertanto, presume sempre l’imputabilità di ogni individuo, purché maggiorenne, in quanto, sostanzialmente, con la maggiore età dovrebbe essere acquisita la maturità psichica, indipendentemente dalle caratteristiche peculiari della persona.

E’ considerato imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere in quanto "nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile" (art. 85 codice penale "Capacità di intendere e di volere").

L’imputato quindi, per essere considerato tale, deve possedere l’idoneità psichica a volere un determinato comportamento e a comprenderne il significato nonché il valore delle conseguenze materiali e morali che ne potrebbero derivare.

Quindi, l’insieme della capacità di intendere e di volere è considerato come requisito essenziale, configurante la normalità psichica, che attiene al soggetto in astratto, e che si manifesta attraverso un comportamento mentalmente sano, distinguendosi da "coscienza e volontà", richieste dall’articolo 42 del codice penale, che invece, attengono in concreto alla condotta criminosa. Ne consegue che, in senso giuridico, l’intendere ed il volere rappresentano due elementi essenziali e complementari di un unico aspetto, inscindibili ai fini dell’imputabilità.

Pertanto l’imputabilità rappresenta la conditio sine qua non (condizione senza la quale non si può essere responsabili) affinché il reo possa essere condannato. E poiché ogni comportamento illecito deve essere valutato ai fini della responsabilità sia da un punto di vista fisico che psicologico, va da sé, che dovranno essere verificati la sussistenza del rapporto di causalità giuridico-materiale e il riconoscimento dell’effettiva responsabilità dell’imputato per dolo, colpa o per delitto preterintenzionale (art. 42 codice penale primo comma).

Se è vero che ogni atteggiamento umano rispecchia la personalità stessa dell’agente nella sua complessità, quale risultante di vari fattori (sociali, pedagogici, culturali, ecc.), che prescindono dalla sfera intellettiva e volitiva e che possono nel tempo modellare il proprio sentire, suscitando anche azioni illecite, è pur vero che la legge penale, non nasce per comprendere la personalità e l’assetto psichico, né il vissuto del reo, ma piuttosto per punire ogni atto criminoso, al fine di prevenire e reprimere il consumarsi di altri reati.

Si presume, pertanto, l’imputabilità psichica, nonostante siano previste diverse condizioni che escludono o scemano grandemente l’imputabilità.

Innanzitutto, rispetto all’età le cause di esclusione dell’imputabilità possono essere di ordine fisiologico o patologico: per i minori degli anni quattordici sussiste presunzione assoluta di non imputabilità (art. 97 codice penale comma secondo), mentre per i minori, di età compresa fra i quattordici e i diciotto anni, l’imputabilità va accertata di volta in volta (art. 98 codice penale comma terzo). In quest’ultimo caso bisogna valutare la maturità psichica e l’effettiva capacità di autocontrollo e di giudizio, in quanto, nel minore, contrariamente al maggiorenne, è considerata fisiologica l’incapacità a controllare le proprie emozioni e pulsioni istintive.

Per gli adulti, invece, le cause che possono escludere l’imputabilità debbono essere di ordine patologico.

In particolare, in relazione all’uso di alcolici e di sostanze stupefacenti, il trattamento penale è diversificato: altro per chi è considerato affetto da infermità di mente, altro per chi conserva le proprie capacità intellettiva e volitiva, anche se solo in parte.

La perdita o la riduzione delle capacità di intendere e di volere, indotte da una volontaria intossicazione acuta, rendono responsabile chi ha commesso il reato in quanto capace di prevedere, prima dell’assunzione, le possibili conseguenze negative del suo comportamento anche se il reato veniva commesso quando ormai la condizione psichica non era più tale da determinare un’azione libera dettata da una cosciente capacità di intendere e di volere (actiones liberae in causa).

Analizziamo, quindi, il principio della punibilità delle c.d actiones liberae in causa, introdotte dal codice penale del 1930 con l’art 87 che, in deroga al principio generale dell’art. 85 (è imputabile colui che al momento della commissione del reato è capace d’intendere e di volere) statuisce che deve essere considerato imputabile e quindi punibile il soggetto che si è posto in stato di incapacità di intendere e di volere al fine di commettere un reato.

In base a tale disposizione colui che al fine di commettere un reato o di prepararsi una scusa si è pone in stato d’incapacità d’intendere e di volere, e in tale stato commette un reato, è chiamato a rispondere del reato medesimo come se lo avesse commesso in stato di piena imputabilità.

La locuzione latina actio libera in causa indica il fenomeno che si verifica allorquando taluno si pone in stato di incoscienza al fine di commettere un reato o di procurarsi una scusante. In tal caso viene applicata la pena sebbene chi abbia commesso il fatto era in stato di incapacità di intendere e di volere al momento del compimento della condotta.

La teoria delle actiones liberae in causa era già utilizzata in diritto canonico dai moralisti della tradizione cristiana per giustificare l’applicazione della pena nei casi di peccati commessi da soggetti incapaci di intendere o di volere, che si erano posti volontariamente in stato di incoscienza al fine di commettere il peccato o di scusarne la condotta. Nel diritto italiano la teoria è stata accolta nell’art. 87 del codice penale.

L’art. 87 del codice penale recita: “la disposizione della prima parte dell’art. 85 non si applica a chi si è messo in stato di incapacità di intendere e di volere al fine di commettere un reato o di prepararsi una scusa”.

E’ questa l’ipotesi che in dottrina viene indicata sotto il nome di “actio libera in causa” ovvero incapacità preordinata di intendere e di volere, che si verifica quando il soggetto si pone in stato di incapacità al fine di commettere un delitto o di prepararsi una scusa.

In dottrina esistono varie teorie che hanno cercato di dare una giustificazione a tale norma.

Secondo la teoria tradizionale, l’ipotesi dell’actio libera in causa costituisce una eccezione alla regola, secondo la quale l’agente deve essere imputabile nel momento della commissione del fatto. Il soggetto, quindi, viene punito per l’azione che precede il fatto illecito. In sostanza, dall’azione compiuta in stato di incapacità di intendere e di volere si risale all’azione libera che ha preceduto. Pertanto, la responsabilità trova la sua giustificazione nel principio “causa causae est causa causati” ovvero chi determina volontariamente una situazione dalla quale deriva un evento lesivo, è chiamato a rispondere dell’evento stesso, a prescindere dalla eventuale volontarietà dell’evento.

L’ANTOLISEI nega che nell’actio libera in causa si punisca una condotta precedente all’esecuzione del reato. Secondo questo autore, la punibilità di tale azione non rappresenta una eccezione alla regola, bensì è una ulteriore applicazione dell’art. 86 del codice penale, in quanto il soggetto si serve di se stesso per eseguire il reato. La caratteristica dell’actio libera in causa consiste, quindi, nel fatto che il soggetto comincia l’esecuzione del reato in stato di imputabilità e lo continua in stato di non imputabilità.

Il PANNAIN sostiene, invece, che la punizione dell’actio libera in caausa non rappresenta una applicazione dei principi generali. Tale norma si può giustificare solo ove si riconosca all’art. 87 del codice penale il carattere di norma estensiva ovvero di norma che estende la punibilità a casi particolari che, in mancanza, non sarebbero puniti. In pratica, secondo l’autore, la funzione estensiva dell’art. 87 del codice penale si può avvicinare agli articoli 56 e 110 del codice penale. Infatti, l’art. 87 combinandosi con queste ultime norme crea altrettanti ipotesi di reato in cui l’azione esecutiva punibile comincia nel momento in cui il soggetto si pone in stato di incapacità di intendere e di volere per compiere il reato.

Il soggetto che commette il reato in stato di preordinata incapacità di intendere e di volere, risponde del reato a titolo di dolo o di colpa?

Secondo DE MARSICO, si tratta di responsabilità oggettiva.

Secondo DAVI’, si tratta di responsabilità a titolo di colpa.

La dottrina prevalente (VENDITTI, MANTOVANI, PANNAIN, ANTOLISEI) sostiene che il soggetto risponde a titolo di dolo diretto e non eventuale, in quanto esso si pone come rappresentazione e volizione della condotta posta in essere per determinare uno stato di incapacità preordinata all’esecuzione del reato.

Ciò, però, non esclude la configurabilità della colpa ovvero quando il reato viene commesso per negligenza, imperizia, imprudenza.

Esempio: un tale avendo deciso di uccidere la moglie e non avendo il coraggio di farlo, si ubriaca, ma durante il tragitto per raggiungere il luogo prescelto, perde il controllo dell’auto e finendo fuori strada cagiona la morte della moglie.

In questo caso, si risponderà di omicidio colposo e non di omicidio volontario.

In definitiva, per accertare il grado di responsabilità nelle actiones liberae in causa è necessario analizzare il caso in concreto.

Se vi è omogeneità tra fatto programmato e fatto realizzato, l’agente risponde a titolo di dolo.

Se tale omogeneità non sussiste, l’agente risponderà a titolo di colpa.

Il FIANDACA-MUSCO rileva che la natura essenzialmente dolosa del delitto commesso in stato di preordinata incapacità comporta che il fatto criminoso concretamente realizzato deve essere omogeneo rispetto a quello inizialmente programmato, perché altrimenti si realizzerebbe una frattura tale da recidere la necessaria corrispondenza tra fatto e colpevolezza.

Come per altre ipotesi di reato, anche per le actiones liberae in causa sono previste delle cause di giustificazione del reato. Ciò si verifica nel caso in cui la causa di giustificazione esiste già nel momento in cui il soggetto si pone in stato di incapacità ovvero quando la causa di giustificazione si verifica nel momento dell’esecuzione del reato preordinato.

L’art. 56 del codice penale stabilisce che chi compie atti idonei a commettere un delitto, risponde di delitto tentato se l’azione non si compie o l’evento non si verifica.

Tale disposizione trova applicazione nel caso di actio libera in causa, anche se crea non pochi dubbi, soprattutto con riferimento a quella che è la concezione comune sull’essenza e sulla natura della norma che la prevede.

In primo luogo è necessario distinguere due ipotesi nettamente diverse tra loro: il caso di colui che si pone in stato di incapacità e realizzi un tentativo di reato preordinato ovvero non riesce a compiere l’azione delittuosa; il caso di colui che si pone in stato di incapacità, ma, per motivi indipendenti dalla sua volontà, non compie nessun atto idoneo e diretto alla commissione del reato preordinato.

Nel primo caso, l’agente risponderà di delitto tentato, mentre nel secondo caso il VENDITTI rileva che, pur se costituisce inizio dell’attività esecutiva, il fatto di porsi in stato di incapacità al fine di commettere il reato preordinato equivale alla istigazione, per cui ad essa è applicabile, per analogia, la norma dettata dal terzo comma dell’art. 115 del codice penale, che dichiara non punibile l’istigazione accolta ma non seguita dalla commissione del reato.

Ovviamente, di tale norma, per il principio di divieto dell’analogia in malam partem, sarà applicabile solo per la parte che dichiara non punibile la condotta precedente mentre non potrà essere estesa quella parte che rende applicabile una misura di sicurezza.

L’ipotesi di actiones liberae in causa si pone anche in tema di responsabilità civile.

Perché un danno possa essere riferito ad un dato soggetto occorre procedere alla valutazione di due distinti elementi: uno considera la condotta posta in essere e tende a verificare l’esistenza nella specie del profilo dell’antigiuridicità; un altro concerne la lesione ed è diretta ad accertare la presenza, nel caso concreto, di un interesse giuridicamente protetto, vale a dire la sussistenza di un danno «ingiusto».

I criteri che concorrono a motivare il giudizio di responsabilità sono quindi di due tipi: uno, oggettivo, attiene alla qualificazione della lesione; un altro, soggettivo, pone l’accento sulla condotta, sull’autore del danno.

È a quest’ultimo criterio che occorre riferire il requisito dell’imputabilità, in base al quale, a mente dell’art. 2046 del codice civile, «non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non aveva la capacità di intendere e di volere al momento in cui lo ha commesso, a meno che lo stato d’incapacità derivi da sua colpa».

Nel giudizio di responsabilità, occorre pertanto procedere preliminarmente ad una valutazione di una possibilità futura, al fine di verificare l’astratta possibilità che il danno possa essere messo a carico del soggetto. Vale a dire per poter argomentare, a fatto avvenuto, il giudizio conclusivo, di imputazione del danno, si deve prima procedere ad un giudizio di imputabilità: l’imputabilità è quindi il presupposto dell’imputazione.

Secondo la definizione tradizionale, si intende per «capacità di intendere» l’attitudine del soggetto a conoscere il valore delle azioni da lui poste in essere, il «significato sociale» della sua condotta. Per «capacità di volere», l’idoneità della persona a determinarsi in modo libero ed autonomo, indipendente da coazioni esterne.

Si tratta di capacità analoga a quella richiesta in campo negoziale? La risposta è sicuramente affermativa, se si guarda ai presupposti teorici delle due figure, sicuramente negativa qualora si volesse ipotizzare una tendenziale equiparazione.

Perché possa ricorrere l’imputabilità è infatti necessario un grado di capacità che non sempre è sufficiente per integrare anche la capacità negoziale: la maturità richiesta per il conseguimento della capacità di agire è ben maggiore di quella idonea a configurare la capacità nell’illecito, la quale rimane sempre, diversamente da quanto accade per il conseguimento della capacità negoziale, una questione di fatto, rimessa alla discrezionale valutazione dell’interprete della singola fattispecie.

La necessità di doversi confrontare con la sfera psicologica, con l’«idea» della capacità, le implicazioni (allora) tra consapevolezza e concezione della colpa, l’esigenza di distinguere, fanno dell’espressione imputabilità una nozione equivoca, a tale punto che non da oggi si deve registrare un dibattito che ha messo in crisi la stessa «idea» di imputabilità.

Ed in effetti, è stato sottoposto a critica l’insegnamento che negava il risarcimento del danno non patrimoniale, sull’assunto dell’inesistenza del fatto reato per difetto dell’imputabilità, opponendo una definizione che assegna autonomia alla nozione di imputabilità, ritenuta qualifica soggettiva, rispetto alla colpevolezza, designata come elemento dell’illecito.

Motivando in particolare sulle nuove direttive in materia di infermi di mente, si è quindi dubitato dell’automatismo fra malattia ed incapacità, in una direzione che denuncia il reale disfavore per l’incapace costituito dal regime di automatica irresponsabilità.

La crisi del concetto tradizionale di imputabilità è infine documentato dalle serrate critiche, ispirate ad una «oggettivizzazione» del concetto di colpa, che sono state mosse all’opinione che configura l’imputabilità come la premessa di qualsivoglia ragionamento ispirato a criteri psicologici.

Secondo la teoria tradizionale, sarebbe infatti finanche assurdo argomentare un giudizio fondato sulla colpa, nel caso in cui al soggetto non si potesse muovere alcuna riprovazione per il fatto commesso, in ragione della di lui incapacità di distinguere il «bene» dal «male» ovvero di determinarsi in modo autonomo.

Di qui l’assunto in base al quale l’imputabilità costituisce il presupposto della colpevolezza: in questa prospettiva, l’imputabilità viene ad essere definita come «attitudine» alla colpa. Rispetto a simile conclusione si è dunque da tempo registrata una tendenza diretta a separare la nozione di «colpevolezza» da quella di «imputabilità», fino a configurare l’imputabilità come categoria del tutto autonoma in ragione delle diverse funzioni che le due nozioni assolvono nel meccanismo normativo. Così che si è potuto argomentare della possibilità di motivare l’imputazione anche senza considerare il requisito psicologico.

Già in tempi non recenti, rispetto alla ricostruzione che configura tecnicamente l’imputabilità come presupposto della responsabilità, è stata allora opposta una nozione di colpa che sfugge a qualsivoglia valutazione di tipo morale e soggettivo, una tesi che configura la colpa come difformità oggettiva del comportamento posto in essere rispetto ad un modello sociale astratto. Secondo questo orientamento, il giudizio sulla colpevolezza risulta quindi del tutto autonomo rispetto alla valutazione circa l’esistenza della capacità d’intendere e di volere: l’accertamento dell’imputabilità rimarrebbe pertanto materia del tutto separata dal giudizio circa la colpevolezza.

In questa prospettiva sembra collocarsi anche quella giurisprudenza che sottolinea la diversità della verifica circa l’esistenza della «capacità di intendere e di volere», che si risolve in una valutazione di fatto, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata, dall’accertamento che identifica la colpevolezza. Vale a dire il presupposto che subordina l’affermazione della responsabilità alla esistenza del dolo o della colpa in capo all’autore.

In realtà, tali affermazioni non sembrano offrire alcun decisivo argomento. È del tutto chiaro infatti che, sotto il profilo logico, le due indagini, sull’imputabilità e sulla colpevolezza, sono del tutto distinte. Il problema è però un altro: rimane infatti sempre da stabilire se si possa prescindere, nel dare un giudizio di «colpevolezza», da una (preventiva) valutazione di imputabilità.

Resta allora indubbio che il dato testuale continua a confermare il rapporto di dipendenza tra imputabilità e responsabilità: nel dibattito non sembra infatti che siano stati svolti argomenti tali da escludere che si possa davvero procedere alla ricostruzione della responsabilità civile prescindendo dalla capacità d’intendere e di volere.

Meglio allora riconsiderare la tesi dell’imputabilità come presupposto dell’imputazione del danno, riproponendola in termini relativi. In questa prospettiva si deve affermare che il ruolo assegnato dall’ordinamento alla previsione dell’art. 2046 codice civile è quello di regola generale dell’imputazione, per quelle ipotesi in cui si tratta di responsabilità c.d. soggettiva.

Soltanto introducendo una nozione di «colpevolezza» indipendente dal dolo o dalla colpa, può allora essere giustificata anche la tesi secondo la quale la previsione del 2046 condiziona l’operatività del criterio basato sul dolo o sulla colpa allo stato di capacità dell’autore del danno.

Conseguentemente, in quelle altre ipotesi nelle quali il criterio di imputazione risulta fondato su criteri oggettivi, ogni valutazione circa la capacità d’intendere e di volere, la «colpevolezza» non può essere ricostruita nei termini del dolo e/o della colpa, dovendosi guardare essenzialmente alle modalità oggettive del comportamento (che se non possono, secondo tale teoria, contribuire a formare un giudizio di «disapprovazione», ben possono costituire fattore capace di dare ragione al risarcimento: il riferimento è, essenzialmente, alle previsioni di cui agli artt. 1227, primo comma e 2047 codice civile).

Alla stessa conclusione perviene peraltro anche chi non condivide la possibilità di configurare una colpa «obiettiva», rilevando che non vi dovrebbero essere difficoltà a riconoscere che il fatto illecito dell’incapace possa concorrere con quello del capace ai fini della diminuzione del danno risarcibile ovvero possa impegnare il responsabile, sussistendo i requisiti della illiceità.

In ogni caso, fuori da tali ipotesi, il termine «imputabilità» continua comunque a conservare una indubbia valenza, rimanendo ad indicare uno dei criteri che la legge richiede per giustificare l’attribuzione del fatto illecito ad un determinato soggetto.

In via di principio, pertanto, il giudizio di responsabilità capace di giustificare il trasferimento del danno da chi lo ha subìto ad un altro soggetto, dovrà in primo luogo guardare alla sussistenza di determinate qualità soggettive in capo a colui che dovrà definitivamente sopportare il danno, a meno che il dato testuale escluda subito l’esigenza di simile indagine, essendo previsto un criterio di responsabilità che prescinde del tutto da considerazioni riguardanti la persona dell’agente (l’esempio classico è la responsabilità stabilita per rischio d’impresa). Mentre rimane da accertare che ciò possa avvenire anche per quelle ipotesi che una parte della dottrina suole indicare nei termini della colpa «oggettiva» (dove il problema si risolve tutto nella stessa nozione di «colpevolezza»).

Fuori da tali problematiche, la cui rilevanza pratica non è in realtà molto percepibile, si deve in questa sede da ultimo segnalare che nessuna particolare conseguenza deriva dall’incapacità, come conferma l’inciso contenuto nell’art. 2046 codice civile, quando la stessa sia derivata per fatto colposo dell’autore del danno.

Si tratta delle actiones liberae in causa, dove, tradizionalmente, la condotta «non libera», resa in stato d’incapacità, deve farsi risalire ad un’azione anteriore consapevole. In questa ipotesi non vi è motivo, anche in ragione di una corretta applicazione delle regole in materia di causalità, per non confermare il regime ordinario di responsabilità. E così, diversamente da quanto prevede la legge penale, anche nell’ipotesi in cui l’autore del fatto illecito si sia posto in condizioni di incapacità, senza l’intenzione preordinata di porre in essere l’azione dannosa. Ciò che è qui sufficiente è il fatto che l’autore abbia adottato consapevolmente un comportamento che lo abbia posto in condizioni di incapacità, dando causa ad una condotta idonea, secondo i canoni della normalità, a produrre un evento dannoso, ancorché non voluto e finanche non concretamente previsto (ma prevedibile: è il classico caso di chi, in stato di ubriachezza, si metta alla guida di un autoveicolo ed investa un pedone).

Come si deve considerare l’ipotesi in cui il soggetto si sia posto in stato di incapacità consapevolmente, ma senza avere la possibilità di autodeterminarsi in maniera davvero libera?

Al quesito ha dato risposta la giurisprudenza, la quale ha escluso che possa individuarsi una responsabilità quando il comportamento che procura l’incapacità, pur dovendosi ascrivere al soggetto, sia comunque caratterizzato dall’inesistenza di una volontà. È questo il caso di cronica intossicazione da alcool, caratterizzato da un impulso, ripetitivo e condizionante tutto il comportamento della persona, all’assunzione di sostanze alcooliche e da stabili perturbazioni di ordine fisico. In tale ipotesi, la situazione dell’autore è quella stessa del malato di mente, con la conseguenza che la sua capacità deve ritenersi esclusa ovvero diminuita. Parimenti, se lo stato di tossicodipendenza di per sé non potrebbe ritenersi rilevante ai fini dell’imputabilità, a meno che la droga non sia stata assunta per forza maggiore o per caso fortuito, quando quello stato sia tale da produrre un’intossicazione patologica, esso può essere assimilato a quello di un vero malato di mente.

È facile osservare che in tale modo la valutazione del comportamento e della capacità si riporta al momento in cui è stato posto in essere l’atto che, in ipotesi, ha prodotto l’incapacità. L’affermazione dell’irresponsabilità risulta quindi dipendente dalla valutazione della capacità del soggetto in quel dato momento: il tossicodipendente viene valutato incapace già prima che assuma la droga, perché è «inidoneo» ad autodeterminarsi (secondo la definizione tradizionale, è «incapace di volere») in vista di escludere uno stato che lo renda «incapace di intendere». Allo stesso modo in cui neppure avrebbe senso ammettere una indagine diretta a valutare la «libertà dell’azione», ad esempio nel caso in cui un infante si ubriacasse: la verifica dell’incapacità, per così dire, «fondamentale», assorbirebbe qui ogni ulteriore considerazione.

Dal lavoro sin qui svolto, si può concludere che la libera volontà e la responsabilità penale e civile sono strettamente correlate. Abbiamo visto come la maggior parte degli studiosi che si è interessata al problema si sia pronunciata a favore della capacità dell’uomo di autodeterminarsi come caratteristica ineliminabile dell’individuo medesimo, vale a dire, nell’espressione del principio del libero arbitrio.

Ne consegue che la pena è meritata quando il soggetto ha agito con libertà, ossia qualora venga accertato che egli aveva la possibilità di agire altrimenti.