Cassazione Lavoro: condizioni per la contestazione disciplinare al lavoratore

La Sezione Lavoro della Cassazione si è pronunciata su un interessante caso che coinvolge diverse questioni relative alla contestazione disciplinare da parte del datore di lavoro. In particolare, il direttore di banca, contestando il proprio licenziamento rilevando, ha chiesto alla Corte di pronunciarsi sul seguente motivo di ricorso: "se il datore di lavoro possa attendere tre mesi per contestare al dipendente fatti già precisamente accertati mediante relazione ispettiva giustificando tale lasso di tempo con la sola esigenza di valutare tali fatti, come erroneamente ritenuto dalla sentenza impugnata, oppure se un intervallo di tre mesi tra la precisa conoscenza dei fatti accertati con la definitiva relazione ispettiva e la contestazione dei fatti stessi renda tardiva tale contestazione a prescindere dalla quantità e qualità degli illeciti, che può incidere sulla durata dell’ispezione ma non sulla tempestività della successiva contestazione, come sostenuto nel ricorso".

La Cassazione ha elaborato i seguenti principi di diritto:

"La contestazione disciplinare per essere considerata legittima deve presentare il carattere della “immediatezza” e tale carattere essenziale trova fondamento nell’art. 7, terzo e quarto comma, della legge n. 300/1970 che riconosce al lavoratore incolpato il diritto di difesa da garantirsi nella sua effettività al fine di consentirgli l’allestimento del materiale difensivo (pronto riscontro delle accuse con eventuali testimonianze e documentazione) in tempi ad immediato ridosso dei fatti contestati ed in modo che lo stesso lavoratore possa contrastare più efficacemente il contenuto delle contestazioni mossegli dal datore di lavoro, dovendosi anche considerare (nella valutazione del rilievo del cennato carattere) il “giusto affidamento” del prestatore, nel caso di ritardo nella contestazione, che il fatto incriminabile possa non avere rivestito una connotazione “disciplinare”, dato che l’esercizio del potere disciplinare non è, per il datore un obbligo, bensì una facoltà.

Nell’esercizio del potere disciplinare il datore di lavoro deve comportarsi “secondo buona fede”, specie per evitare che sanzioni disciplinari irrogate senza consentire all’incolpato un effettivo diritto di difesa si pongano, appunto, quale trasgressione in re ipsa della “buona fede”, che è la matrice fondativa dei doveri oneri sanciti dall’art. 7 cit. e, anche, dall’art. 2106 cod. civ. per cui l’affidamento legittimo del lavoratore non può venire vanificato da una tardiva contestazione disciplinare, comportando l’esercizio in tal senso viziato dal potere disciplinare una preclusione per l’espletamento di detto potere e, conseguentemente, rendendo invalida la sanzione irrogata in contrasto con il principio dell’immediatezza.

L’applicazione in cd. “senso relativo” del principio dell’immediatezza non può svuotare di efficacia il principio stesso dovendosi, infatti, tenere conto di quanto statuito dall’art. 7 cit. e della esigenza di una razionale amministrazione dei rapporti contrattuali secondo “buona fede”. Pertanto, tra l’interesse del datore di lavoro a prolungare le indagini senza uno specifico motivo obiettivamente valido (da accertarsi e valutarsi rigorosamente) e il diritto del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa, deve prevalere la posizione (ex lege tutelata) del lavoratore.

Parimenti l’applicazione di una sanzione disciplinare - quando si tratti di licenziamento “in tronco” per giusta causa - deve avvenire alla stregua del principio dell’immediatezza e, di conseguenza, non può essere ritardata con la giustificazione della complessità dell’organizzazione aziendale".

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 8 giugno 2009, n.13167: Contestazione disciplinare al lavoratore - Immediatezza - Buona fede).

La Sezione Lavoro della Cassazione si è pronunciata su un interessante caso che coinvolge diverse questioni relative alla contestazione disciplinare da parte del datore di lavoro. In particolare, il direttore di banca, contestando il proprio licenziamento rilevando, ha chiesto alla Corte di pronunciarsi sul seguente motivo di ricorso: "se il datore di lavoro possa attendere tre mesi per contestare al dipendente fatti già precisamente accertati mediante relazione ispettiva giustificando tale lasso di tempo con la sola esigenza di valutare tali fatti, come erroneamente ritenuto dalla sentenza impugnata, oppure se un intervallo di tre mesi tra la precisa conoscenza dei fatti accertati con la definitiva relazione ispettiva e la contestazione dei fatti stessi renda tardiva tale contestazione a prescindere dalla quantità e qualità degli illeciti, che può incidere sulla durata dell’ispezione ma non sulla tempestività della successiva contestazione, come sostenuto nel ricorso".

La Cassazione ha elaborato i seguenti principi di diritto:

"La contestazione disciplinare per essere considerata legittima deve presentare il carattere della “immediatezza” e tale carattere essenziale trova fondamento nell’art. 7, terzo e quarto comma, della legge n. 300/1970 che riconosce al lavoratore incolpato il diritto di difesa da garantirsi nella sua effettività al fine di consentirgli l’allestimento del materiale difensivo (pronto riscontro delle accuse con eventuali testimonianze e documentazione) in tempi ad immediato ridosso dei fatti contestati ed in modo che lo stesso lavoratore possa contrastare più efficacemente il contenuto delle contestazioni mossegli dal datore di lavoro, dovendosi anche considerare (nella valutazione del rilievo del cennato carattere) il “giusto affidamento” del prestatore, nel caso di ritardo nella contestazione, che il fatto incriminabile possa non avere rivestito una connotazione “disciplinare”, dato che l’esercizio del potere disciplinare non è, per il datore un obbligo, bensì una facoltà.

Nell’esercizio del potere disciplinare il datore di lavoro deve comportarsi “secondo buona fede”, specie per evitare che sanzioni disciplinari irrogate senza consentire all’incolpato un effettivo diritto di difesa si pongano, appunto, quale trasgressione in re ipsa della “buona fede”, che è la matrice fondativa dei doveri oneri sanciti dall’art. 7 cit. e, anche, dall’art. 2106 cod. civ. per cui l’affidamento legittimo del lavoratore non può venire vanificato da una tardiva contestazione disciplinare, comportando l’esercizio in tal senso viziato dal potere disciplinare una preclusione per l’espletamento di detto potere e, conseguentemente, rendendo invalida la sanzione irrogata in contrasto con il principio dell’immediatezza.

L’applicazione in cd. “senso relativo” del principio dell’immediatezza non può svuotare di efficacia il principio stesso dovendosi, infatti, tenere conto di quanto statuito dall’art. 7 cit. e della esigenza di una razionale amministrazione dei rapporti contrattuali secondo “buona fede”. Pertanto, tra l’interesse del datore di lavoro a prolungare le indagini senza uno specifico motivo obiettivamente valido (da accertarsi e valutarsi rigorosamente) e il diritto del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa, deve prevalere la posizione (ex lege tutelata) del lavoratore.

Parimenti l’applicazione di una sanzione disciplinare - quando si tratti di licenziamento “in tronco” per giusta causa - deve avvenire alla stregua del principio dell’immediatezza e, di conseguenza, non può essere ritardata con la giustificazione della complessità dell’organizzazione aziendale".

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 8 giugno 2009, n.13167: Contestazione disciplinare al lavoratore - Immediatezza - Buona fede).