x

x

Cittadini o sudditi? Il difficile rapporto tra noi e lo Stato

Cittadini o sudditi?
Cittadini o sudditi?

Se è vero che un libro non si giudica mai dalla copertina, è altrettanto vero che una buona copertina è in grado di offrire, all’attenzione del lettore, alcuni indizi fondamentali per comprendere il tipo, la natura, perfino lo scopo del libro che si sta per leggere. Nel nostro caso, basta dare uno sguardo alla copertina di Noi e lo Stato. Siamo ancora sudditi? (a cura di Serena Sileoni, IBL Libri, 2019) e all’immagine dello Stivale italiano in catene che le fa da sfondo per capire che questo è un volume fatto per “provocare” il lettore: per spingerlo, cioè, a fare i conti con una situazione “scomoda” che è data dall’interrogarsi sul rapporto tra individui e potere pubblico – tra “noi” e “lo Stato”, per l’appunto.

È in quest’ottica che va intesa la domanda – “siamo ancora sudditi?” – che campeggia come sottotitolo. Sarebbe facile (perfino comprensibile) liquidare una simile questione come una inutile preoccupazione: d’altronde, gli italiani non sono più “sudditi” dal 2 giugno 1946, dal giorno della scelta repubblicana; ma il rapporto di sudditanza cui si fa riferimento non è quello dato dalla soggezione a una monarca ereditario, ma quello che si instaura nei confronti di un potere pubblico caratterizzato da scelte spesso arbitrarie, immature, irragionevoli. Una sudditanza – si potrebbe dire, con linguaggio da giurista – non de iure, ma de facto.

Il quadro che emerge dal libro in recensione è indubbiamente sconfortante. Al suo interno, come rileva Sileoni nell’introduzione, si analizzano attitudini, prassi, regole che sembrano testimoniare l’esistenza di una continuità tra la posizione del suddito dell’Antico Regime e quella del cittadino dello Stato democratico: «non saremo più un accessorio del patrimonio regio, ma nei rapporti con la burocrazia, con il fisco, persino con la giustizia, nell’imprevedibilità delle continue riforme, nell’incomprensibilità del linguaggio normativo, nell’elevato rischio-paese dovuto alla vertiginosa incertezza del diritto e delle politiche pubbliche, nel dover accettare che sia lo Stato a decidere a che ora possiamo fare la spesa o quanto possiamo guadagnare, nel vederci attribuito, come primo documento, un codice nato per identificarci presso l’anagrafe tributaria, in tutte queste occasioni e in tante altre ancora persiste una cesura verticale tra noi e lo Stato» (p. 11).

I temi dei singoli capitoli del testo sono dunque l’occasione per misurare l’esistenza di questa “cesura”, che – prosegue Sileoni – «non è di ieri né appartiene esclusivamente alla stretta attualità politica, ma continua negli anni facendo sì che le considerazioni qui esposte permangano valide nell’avvicendarsi dei governi. I governi passano, i sovrani muoiono ma lo Stato, con le sue tare più o meno fisiologiche, resta, come disse Luigi XIV in punto di morte» (p. 11).

Susanna Tamaro ha raccontato la schizofrenia di uno Stato che predica l’impegno a favore della natura e dell’ambiente, salvo poi tormentare con le sue scartoffie e bizze burocratiche chi quell’impegno sceglie di far proprio. Alfonso Celotto e Vitalba Azzollini hanno mostrato come nei modi e nel linguaggio la burocrazia continui a solcare una sprezzante distanza tra governati e governanti. Giovanni Fiandaca e Alessandro Barbano hanno ripercorso i sintomi e i rischi di una giustizia non già amministrata in nome del popolo, ma gestita come strumento di potere, controllo e manipolazione del consenso.

I capitoli di Giampaolo Galli, Nicola Rossi, Giuliano Cazzola e Cosimo Magazzino sono serviti a sottolineare l’importanza che, per la libertà dei cittadini, assume l’uso accorto dei soldi dei contribuenti. Carlo Amenta e Luciano Lavecchia hanno affrontato un’esperienza paradigmatica: la questione meridionale come forma di tenue dispotismo dei governi italiani, che ha costretto e costringe tuttora il Sud a una relativa arretratezza economica rispetto al resto del Paese. Dario Stevanato, Manuel Seri e Alessia Sbroiavacca hanno toccato il nervo più scoperto dello sbilanciato rapporto tra noi e lo Stato: il fisco.

Chi scrive ha poi avuto l’opportunità di ricordare quanto sia essenziale, per non essere trattati da sudditi, l’effettivo riconoscimento di un diritto sminuito dagli ordinamenti contemporanei: la proprietà. In verità, lo studio dedicato alle occupazioni abusive di immobili è diventato l’occasione per studiare una tematica ben più ampia e ben più grave rispetto alla “sola” tutela dei diritti di proprietà, che merita di essere qui ricordato.

Chi ha subito una occupazione abusiva – benché avesse esperito tutte le azioni necessarie per riguadagnare la disponibilità dei propri beni, secondo quanto prescritto dalle leggi vigenti – ha spesso scoperto che gli organi deputati hanno rifiutato di dare seguito all’ordine giudiziale di sgombero, sul presupposto dell’esistenza di esigenze di ordine “superiore” che ne avrebbero giustificato un rinvio a data da destinarsi.

Il tema, allora, non è solo o tanto quello della tutela della proprietà, ma quello di una pubblica amministrazione che disattende un comando del giudice, arrogandosi una discrezionalità decisionale che essa non possiede: in questo modo, violando una delle promesse fondamentali su cui si reggono le democrazie moderne – quella di un potere esecutivo “imparziale” (come recita l’art. 97 Cost.), perché vincolato dal rispetto della legge scritta e, per questo, obbligato ad applicarla senza favoritismi o indulgenze di sorta.

Difatti, se l’Amministrazione può permettersi di ritardare l’esecuzione di una sentenza pronunciata secondo diritto (così, nei fatti, rendendola lettera morta), allora essa si fa sovrano “assoluto”, in cui l’assolutezza è – come si incarica di ricordarci l’etimologia – conseguenza dell’essere ab-solutus, sciolto dai vincoli giuridici che definiscono, regolano e limitano la sua azione. Cosicché i cittadini sono, davvero, degradati alla condizione di “sudditi”.

Noi e lo Stato non è, però, da intendere alla stregua di mero cahier de doléances: esso è – pur nel rigore scientifico che deve contraddistinguere una pubblicazione del genere – anche un invito all’azione. Come messo in luce ancora da Sileoni nella propria introduzione, «alla fine di quest’escursione, rimane aperta la domanda sul perché siamo ancora, troppo spesso, trattati come sudditi»: «l’impressione è che le colpe, come spesso capita, siano condivise» (p. 12).

E, infatti, «governare è un’arte umana, con tutti i suoi limiti e nonostante tutte le cautele che, nei decenni, sono state escogitate, dal principio di maggioranza alle sue razionalizzazioni. Per un uomo che abusa della sua posizione, ce n’è una moltitudine che potrebbe contrastarlo. Non così per lo Stato, che non ha pari con cui deve confrontarsi, se non vuole. Per ridurre le ipotesi di questo abuso, allora, non ci resta che limitare non il sovrano, ma le sue funzioni. Ma questo, in democrazia, è un compito che spetta a noi elettori» (p. 14).

Dunque, è importante riconoscere che la cittadinanza, al contrario della sudditanza, implica una adesione attiva e partecipe alla gestione della cosa pubblica: il che non significa soltanto recarsi alle urne o candidarsi a qualche tornata elettorale (visto che, facendo nostra la riflessione di Hayek, scegliersi il proprio governo non è garanzia di libertà), ma impegnarsi in un continuo esercizio di responsabilità. In ciò risiede quella che Claudio Martinelli, in uno dei saggi contenuti nel volume, chiama «la fatica dell’essere cittadini» e che si sostanzia nel professare, innanzitutto, un salutare scetticismo nei confronti delle narrazioni che dominano nell’agone politico: chi siede in Parlamento o al Governo è chiamato a rappresentarci, non a sostituirsi a noi.