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Dieci donne. Storia delle prime elettrici italiane

di Marco Severini
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Il frutto di una ricerca storica in rosa, dedicata a dieci figure femminili dimenticate: le prime elettrici italiane. La vicenda parte da una sentenza del 25 luglio 1906 della Corte di appello di Ancona presieduta da Lodovico Mortara (insigne giurista e poi anche ministro della Giustizia), che accordò a dieci donne marchigiane il diritto di voto politico. “Sfortunatamente”, nei dieci mesi in cui restarono iscritte nelle liste elettorali dei relativi Comuni di residenza, Adele, Carola, Dina, Emilia, Enrica, Giulia, Giuseppina, Iginia, Luigia e Palmira – questi i loro nomi – non ebbero modo di esercitare quel diritto (tra maggio 1906 e dicembre 1909 ci fu il ritorno al potere di Giovanni Giolitti col suo cosiddetto lungo ministero), e una successiva sentenza della Cassazione nel maggio 1907 lo annullò.

Le dieci potenziali elettrici avevano molto in comune: un’età media di ventotto anni, un’estrazione sociale modesta, un brillante stato di servizio e un identico percorso professionale, fatto di lunghi e faticosi precariati, difficoltà, ingiustizie, stipendi troppo modesti. Seppur estranee alla militanza politica, con tale conquista riuscirono a imprimere una svolta imprevista alla lotta per il suffragio e l’emancipazione femminile.

Severini, che insegna Storia dell’Italia contemporanea all’Università di Macerata, ricostruisce con rigorosa puntualità il contesto socio-politico dell’epoca, analizzando tutte le vicende che portarono a quella sentenza storica, e riportando a galla notizie biografiche e vicissitudini di queste dieci donne, coraggiose ma ricadute presto nell’anonimato. L’accesso al voto alle donne in Italia, come si sa, avvenne solo nel 1946, ben quarant’anni dopo la vicenda raccontata nel libro.

Qui di seguito, un rilevante estratto:

 

Il 25 luglio 1906 la Corte di appello di Ancona, presieduta da Lodovico Mortara, riconobbe a dieci maestre marchigiane il diritto di voto.

La sentenza della Corte dorica apparve subito, a commentatori e giuristi, qualcosa di clamoroso.

Era allora in atto in Italia una vivace mobilitazione femminile per la conquista del suffragio.

Nel 1903 le associazioni femminili della Penisola si erano unite nel Consiglio nazionale delle donne italiane, affiliato all’International Council of Women, con sede a Roma e con un programma che prevedeva il diritto di voto; nel 1904 la presentazione da parte del deputato repubblicano Roberto Mirabelli di una proposta di riforma della legge elettorale che – ispirata al principio della «necessaria universalità» del suffragio (dato che l’art.1 di questa prevedeva che dal voto non erano escluse né le donne né gli italiani delle terre irredente) – chiedeva il voto politico per le donne, aveva spinto i circoli emancipazionisti a una maggiore partecipazione; nel 1905, la costituzione di alcuni comitati “pro suffragio femminile” aveva incentivato le richieste di iscrizione alle liste elettorali da parte di numerose donne in diverse aree del Paese.

Il 26 febbraio 1906 Maria Montessori – l’insigne pedagogista e antropologa marchigiana che nel 1886 era stata tra le prime italiane a conseguire una laurea e si era presto distinta come una delle più vivaci paladine dell’emancipazione femminile (pur senza una militanza politica di parte) – lanciò dalle colonne del giornale «La vita» un proclama, a nome della Società “Pensiero ed Azione”, in cui esortò le donne a iscriversi nelle liste elettorali politiche, ribadendo il concetto che nessun divieto era espressamente determinato dalla legge; affisso sui muri capitolini, il proclama della Montessori destò vasta eco in tutta Italia.

Va sottolineato che proprio in questo frangente la Montessori, che andava sempre più coniugando la scienza e l’attenzione verso la spiritualità, aveva avviato una discussione critica con Anna Maria Mozzoni, che parlava di «Eva moderna», contrapponendole la «maternità sociale» di Maria di Nazareth. Ciò peraltro non le impedì di affiancare la Mozzoni nella presentazione dell’ennesima petizione in Parlamento.

Le numerose richieste d’iscrizione alle liste pervenute da parte delle donne fecero sì che la vicenda suffragista, fino a quel momento discussa in sede culturale e politica, venisse affrontata in sede giudiziaria, facendo così il proprio ingresso nel dibattito sulla natura dell’ordinamento giuridico-costituzionale.

Non senza sorpresa, undici commissioni elettorali (Mantova, Caltanissetta, Imola, Palermo, Venezia, Cagliari, Ancona, Firenze, Brescia, Napoli e Torino) accolsero queste richieste che vennero, però, bocciate in seconda istanza, dalle relative Corti di appello, che rigettarono l’iscrizione delle donne alle liste elettorali.

In particolare, qualcuna di queste Corti mostrò, nelle rispettive sentenze, di temere il suffragio femminile come una sorta di calamità […].

In questo dinamico contesto, nove maestre di Senigallia (Carola Bacchi, Palmira Bagaioli, Giulia Berna, Adele Capobianchi, Giuseppina Graziola, Iginia Matteucci, Emilia Simoncioni, Enrica Tesei e Dina Tosoni) e una di Montemarciano (Luigia Mandolini-Matteucci) presentarono analoga richiesta di inclusione nelle liste, istanza che venne clamorosamente accolta il 28 maggio dalla Commissione elettorale provinciale di Ancona, l’organo competente – sulla base della legge 11 luglio 1894, n. 286 – per la revisione delle liste.

Il relatore della Commissione, l’avvocato Luigi Capogrossi-Colognesi, propose l’accoglimento della domanda delle maestre, in quanto esse godevano per nascita dei diritti civili e politici del Regno, avevano compiuto il ventunesimo anno di età, erano alfabete e munite di patente di maestre elementari: dei cinque membri della Commissione, due (il presidente del Tribunale Monaco e il consigliere di prefettura d’Arcais) votarono contro l’istanza, mentre gli altri tre (l’avvocato Guglielmo Bonarelli, Capogrossi-Colognesi e il professor Malia) si espressero a favore della stessa, ammettendo le ricorrenti all’iscrizione con la sola riserva dell’accertamento dello stato penale.

In una lettera scritta a «Il Giornale d’Italia» del 3 agosto 1906, l’avvocato Capogrossi-Colognesi ricordò come egli, benché la decisione della Commissione avesse suscitato meraviglia in parte degli ambienti forensi, si fosse attenuto alla «semplice e rigida applicazione della legge in vigore», interpretandone «la portata e il significato indipendentemente dalle sue conseguenze politiche».

Marco Severini, Dieci donne. Storia delle prime elettrici italiane, collana Altrove, pagg. 204, euro 15.00, ISBN 978-88-98094-00-4