Disconnessione

Toscana 2021
Ph. Francesca Russo / Toscana 2021

Con il termine “lavoro” generalmente ci riferiamo a qualcosa che “si deve fare”, qualcosa che richiede uno sforzo, che può apparire difficile e gravoso. Ma si può essere felici nel lavoro? Consideriamo la felicità come generale stato d’animo positivo, come la naturale predisposizione a sentirsi bene. E allora, si può stare bene al lavoro?

Come evidenziano Peter Warr e Guy Clapperton nel loro “Il gusto di lavorare”, essere felici, stare bene al lavoro, ha effetti positivi su più piani della vita, professionale e sociale. Il benessere nei luoghi di lavoro assicurerà migliori prestazioni da parte dei dipendenti i quali contribuiranno in misura maggiore all’organizzazione. Si assenteranno con minore frequenza e rimarranno fedeli all’organizzazione per un tempo maggiore. Le persone non soddisfatte si adopereranno per trovare altre collocazioni e ragionando in termini puramente economici, per il datore di lavoro, il costo della sostituzione di un buon lavoratore può comportare costi anche molto elevati.

I lavoratori maggiormente soddisfatti si dimostrano più collaborativi e solidali con i propri colleghi e collaboratori, con i quali si instaurano relazioni positive alimentando lo spirito di “cittadinanza organizzativa” e un sentimento positivo e virtuoso di “reciprocità”.

La sinergia fra tutte queste dimensioni genera dunque migliori prestazioni lavorative e il lavoro, quando svolto in modo efficace, genera soddisfazione per ciò che si è raggiunto, favorisce nuove opportunità professionali, l’apprezzamento da parte dei clienti/utenti, e tutto ciò in una indubbia logica “win-win” tanto per i lavoratori, quanto per l’organizzazione.

In questo contesto vanno lette anche le più tradizionali teorie dei bisogni.

La ben nota piramide dei bisogni, disegnata da Abraham Maslow nel 1943, evidenzia l’ordine gerarchico dei cinque bisogni dell’individuo in relazione al lavoro, distinguendo le prime due fasi, formate dai bisogni fisiologici e dalla sicurezza (stabilità fisica, economica e occupazionale), rispetto ad ulteriori tre bisogni quali le relazioni sociali, l’autostima e il riconoscimento degli altri e infine l’autorealizzazione.

Pertanto, il lavoro in sé, ma anche tutto ciò che lo circonda fornisce una risposta concreta ai nostri bisogni divenendo fonte di ispirazione, creatività, sviluppo personale e più in generale, di benessere.

Ancora, Edgar Schein, a sua volta, evidenzia come ciascuno di noi sia guidato da proprie “àncore di carriera” che ne definiscono le leve motivazionali e ci aiutano a compiere le scelte correte in base ai nostri interessi e attitudini. L’àncora di carriera è quindi un elemento che definisce e caratterizza il nostro sé professionale e orienta le nostre scelte all’interno del nostro percorso di crescita e sviluppo. Gli studi sulle àncore di carriera hanno permesso di creare una tassonomia, inizialmente basata su cinque àncore, poi arricchite nel tempo da ulteriori contributi di ricerca:

  • l’àncora tecnico-funzionale, alimentata dalla propensione all’apprendimento e all’acquisizione di nuove competenze, al fine di svolgere ed essere motivati da lavori sfidanti;
  • l’àncora manageriale, tipica di coloro che sono predisposti a ricoprire mansioni con responsabilità e potere decisionale;
  • l’àncora della creatività, tipica di coloro che si impegnano in mansioni creative e ideative;
  • l’àncora della sicurezza, tipica di coloro che, nel lavoro, ricercano stabilità e mansioni ben definite e organizzate;
  • l’àncora della sicurezza geografica, tipica delle persone per le quali risulta essenziale la stabilità in un determinato luogo geografico, anche a costo di rinunciare a premi e avanzamenti.
  • l’àncora di sfida pura, caratteristica di chi cerca sfide continue e si anima di fronte agli ostacoli da superare;
  • l’àncora di servizio, che caratterizza le persone motivate da un ambiente di lavoro in cui possono applicare e riscontrare i propri valori di riferimento,

Fra queste, nel clima di crescente flessibilità lavorativa richiesto dalle contingenze, si stanno imponendo con forza due ulteriori àncore che, trasversalmente e a tutti i livelli, hanno guidato e stanno guidando il nostro modo di “stare al lavoro”. Sto parlando dell’àncora dell’autonomia e indipendenza, propria di coloro che amano sperimentarsi in mondi nuovi, in modo autonomo, con propri ritmi e assumendosi la responsabilità del risultato raggiunto e dell’àncora dello stile di vita, tipica di coloro che perseguono il bilanciamento vita-lavoro, integrando la vita professionale con elementi della vita privata e familiare.

Dimensioni queste, di natura soggettiva certo, ma che sono sempre più accompagnate e sostenute da leve di gestione che stanno delineando rinnovati trend.

Da un lato sta emergendo in alcuni paesi la “4 Day Week” e come evidenziava A. Marrocco in un recente contributo per HuffPost Italia, è una tendenza questa che secondo alcune ricerche, può generare un incremento della produttività del 40% e non mancano esperienze anche italiane, condotte dalla società milanese di head hunting e consulenza strategica Carter & Benson che ha a sua volta portato la settimana lavorativa a quattro giorni con il medesimo stipendio e consentendo ai dipendenti di collocare e gestire le otto ore libere nel modo che ritengono più adeguato alle proprie esigenze. Una strategia integrata ad ulteriori leve, ora entrate nel linguaggio e esperienza comune, fra cui lo smart-working e il remote working. William Griffini, CEO di Carter & Benson, evidenzia come, grazie alla settimana lavorativa da quattro giorni, “i dipendenti sono ancora più motivati e il team risulta ancora più coeso. Ciò che li rende soddisfatti, al di là della riduzione oraria, è l’approccio aziendale da sempre basato sui concetti di fiducia, autonomia, responsabilità e obiettivi” e aggiunge “Lavorare oltre il dovuto fa parte di una logica ormai fuori moda. Non si tiene conto del fatto che lavorare di più non presuppone necessariamente una maggiore qualità del lavoro”.

Sperimentazioni queste che non riguardano solo il lavoro privato ma abbracciano anche il lavoro pubblico nelle esperienze già in essere in Islanda.

In questo contesto e restringendo il campo a dimensioni a noi più vicine, va evidenziato come, per contro, la pervasività della dimensione tecnologica e dei connessi nuovi modi di lavorare abbiano prodotto e stiano producendo alcune distorsioni rispetto al contributo di tutti noi all’interno dei processi lavorativi. La direzione è quella della flessibilizzazione e in questa direzione potremmo rispondere efficacemente a tutte le dimensioni di bisogno espresse poco sopra. Ciò che però va monitorata e accompagnata è la gestione dei media digitali affinché la connettività sia funzionale, sostenibile, agile, ma non necessariamente senza limiti.

In un’epoca in cui, attraverso la tecnologia sono completamente eliminati i confini spazio-temporali, e il lavoro che si fa “liquido” permea ogni spazio del nostro tempo di vita e anche sociale, da un lato, si fanno strada le prime regolamentazioni del diritto alla “disconnessione” di Germania e Francia che nel 2014 intervengono sul fronte della gestione dello stress e vietano al datore di lavoro di comunicare con il lavoratore in determinati orari e salvo circostanze eccezionali. D’altro lato emerge la stessa capacità di disconnessione come competenza digitale.

All’interno di queste due dimensioni e a sostegno di un medesimo percorso che attraverso il diritto alla disconnessione, al contempo, renda il lavoro da un lato flessibile e dall’altro rispettoso dei tempi di vita della persona, si collocano le possibili leve di gestione che ciascuno di noi può applicare nel proprio contesto:

  • Comunicare: occorre chiarire regole, limiti, opportunità e motivazioni che supportano il diritto alla disconnessione fra cui, il diritto a non svolgere attività lavorative al di fuori del normale orario di lavoro, il diritto a non subire alcuna conseguenza negativa per non averlo fatto, l’obbligo a rispettare il diritto alla disconnessione da parte di tutti.
  • Organizzare il lavoro: l’iper-connessione non può essere la soluzione ad una cattiva organizzazione e gestione del lavoro e dei relativi carichi. In questo caso, analizzare il contesto può essere utile per comprendere il fenomeno nelle sue origini, diffusione e condizionamenti. Ad esempio: quante e-mail vengono inviate fuori dall’orario di lavoro? Da chi vengono mandate, vale a dire, da quali Aree, Settori, ambiti? Sono tendenze legate alle contingenze o stiamo parlando della norma?
  • Innovare la cultura del lavoro: occorre sensibilizzare chi ha ruoli di responsabilità, affinché per primi siano d’esempio e affinché siano in grado cogliere gli elementi dissonanti per intervenire nell’organizzazione stessa del lavoro, per migliorarla, renderla più efficiente, più efficace e rispettosa dei tempi di vita dei propri collaboratori.

Infine, occorre saper rispettare i tempi di recupero: essere iper-connessi non è salutare e la mancanza di momenti di ricreazione ha effetti negativi per la salute della persona e incide sul rendimento complessivo dell’organizzazione.

Al rientro dalla pausa estiva, il contributo di Francesca Giannuzzi “Assonanza” mi ha ricordato che “lo stesso termine “vacanza” deriva dal verbo latino “vacare” che significa proprio “essere vuoto”. Il vuoto non è mancanza di qualcosa o qualcuno. Al contrario, il vuoto serve per ritrovare la pienezza di sé” e le sue riflessioni mi hanno riportato alla mente le parole di Osvaldo Danzi “un buon manager sa quanto sia importante viaggiare, nutrire i propri interessi, ascoltare voci nuove, fare esperienze diverse. Fa bene al suo lavoro: torna in ufficio “ricondizionato” e con idee nuove. Fa bene alle sue relazioni professionali […]. Fa bene al suo ambiente professionale, perché avrà avuto modo di pensare alla sua famiglia e ai suoi amici e non vivrà tensioni che inevitabilmente trasferisce nel business. Un buon manager vuole questo, per sé e per la sua squadra”.

“Il buon manager si vede nel momento della pausa”.