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Duemila anni

Cina e Giappone
Cina e Giappone

Un telegiornale della notte, chissà da dove, mi porta l’immagine dell’Imperatore del Giappone che legge un indirizzo di saluto. Il vecchio signore nacque miope come la metà dei suoi sudditi, e a furia di studiare al microscopio le dilettissime alghe, è quasi cieco. Compita a fatica, con la stessa voce che impartì per radio l’ordine all’armata imperiale di deporre le armi. Non era mai successo nei duemila anni dell’Impero. Ma senza la sua voce, nessuno avrebbe obbedito, e il Giappone sarebbe scomparso.

Il generale Mac Arthur, per umiliarlo, andava in udienza in maniche di camicia. Ora il generale Mac Arthur nessuno sa più chi fosse, e l’Imperatore, in tight, riceve un signore vestito dell’uniforme, civile o militare non fa differenza, dei cinesi. Il primo ministro dell’Impero cinese è venuto in visita. Da duemila anni un primo ministro dell’Impero del Centro, non capitava nell’Impero del Sol levante.

Frastornati come siamo da schioppettate e stupidate, costretti a trascinare una vita infame tra i pagliacci e gli assassini, credo che faremo fatica a renderci conto che questa notizia è vera. Cina e Giappone si metteranno insieme? Temo proprio di sì. Non è il “pericolo giallo” come se lo immaginava Guglielmo secondo. Non vedremo orde gialle dilagare oltre i deserti e le steppe. Resteranno a casa loro, e c’inonderanno delle cose che fabbricheranno insieme.

Quando il generale Mac Arthur si divertiva a visitare l’Imperatore in maniche di camicia, il Giappone non possedeva neppure una navicella per far tornare in patria i diplomatici accreditati presso le nazioni dell’Asse, che erano rimasti in Europa dopo la fine della guerra. Me l’ha raccontato il barone Hidaka, ch’era stato ambasciatore a Roma e aveva seguito Mussolini a Gardone.

Fu la Spagna a prestargli una vecchia carretta, che si chiamava “Non plus ultra”, per tornare a casa.

Vedo venire questo giorno da molti anni. 

Ho sentito con le mie orecchie i marines americani, nelle giungle del Vietnam, imprecare contro i dannati japs, che non andavano a dargli una mano. Non era ormai un alleato, il Giappone? E allora, che cosa faceva? Poveretti: nessuno gli aveva spiegato che il Giappone era stato costretto dall’intimidazione americana a sgomberare proprio dall’Indocina e la Cina non aveva nessuna intenzione, ieri, di aiutare gli americani a restarci. È ancora lo stesso che oggi, rinsaviti americani e cinesi, gli uni di fronte agli altri, tira le conseguenze.

La Cina è la più numerosa nazione del mondo, ed ha un regime, a modo suo, comunista. Ma il Giappone non teme né di essere invaso, né che il fuoco della rivoluzione, ormai spento, possa incendiargli la casa. Il giapponese ha imparato a distinguere le cose di casa da quelle di fuori e rifiuta ogni infantile “globalità” di ideologie o interessi. Davanti a quell’immenso termitaio di disperati che si agita oltre il breve mare, il Giappone si sporge incuriosito da vent’anni.

Chi ha detto che siano nemici ereditari? Sono stati nemici a causa dei travestimenti che hanno adottato per entrare nel mondo moderno. Il Giappone scelse la rigida uniforme a collo duro dell’Europa colonialista e militarista, e la Cina adottò tute e casacche del comunismo, tutto qui. Finiti i travestimenti, il cammino secolare riprende.

Da venti anni, il Giappone ausculta la Cina, e le manda parlamentari, ex primi ministri, ambasciatori in pensione, giornalisti, professori, missioni commerciali.

Ognuno di questi viaggi ha rafforzato nella classe dirigente nipponica la persuasione che oltre il mare ci sia, piuttosto che un vecchio nemico, qualcosa di enorme che può diventare amico, e molto di più. C’è in Giappone, chi riflette da anni a cosa si potrebbe combinare insieme, soltanto innestando l’elevatissima tecnica, l’esperienza e la scienza delle costruzioni meccaniche e navali, dell’ottica, della metallurgia, dell’elettronica, alla sterminata massa di manovra cinese, il più vasto serbatoio di mano d’opera che mai si sia visto nella storia umana.

È chiaro che questi bassi costi non dureranno in eterno. Ma una ventina d’anni può bastare. Ecco perché gli americani non hanno mai potuto contare sui giapponesi, come loro proconsoli dell’Asia. E perché i giapponesi, sempre sorridendo, sfuggivano ogni invito. Perché i giapponesi aspettavano la Cina. Oggi, la Cina è arrivata. Mi domando se c’è uno solo, tra i dilettanti e gl’incoscienti che governano il disgraziato Occidente, capace di rendersi conto di quello che sta accadendo laggiù, dopo duemila anni. 

 

Piero Santerno, da “Il Giornale”, 30 maggio 1980