Gioco
“Maturità dell’uomo è ritrovare la serietà
che si metteva nel gioco da bambini”
Nietzsche
“Qualsiasi attività liberamente scelta a cui si dedichino, singolarmente o in gruppo, bambini o adulti senza altri fini immediati che la ricreazione e lo svago, sviluppando ed esercitando nello stesso tempo capacità fisiche, manuali e intellettive”: così inizia la definizione di gioco della Treccani, proseguendo poi nell’elencazione di tutte le accezioni in cui viene utilizzato, che sono ovviamente tantissime.
Oggi i giochi sono molteplici e sotto forma di video hanno aperto un mercato vastissimo, con una diffusione di tipo mondiale: la capacità di coinvolgimento emotivo ed eccitante dei giochi, dando la sensazione di controllare eventi e il proprio destino, portano a anche a patologie, come le diverse forme di ludopatia che suscitano forti preoccupazioni sociali. Si potrebbe dire che in queste situazioni viene a mancare, in modo più o meno ampio, quella libertà di scelta che costituisce l’elemento fondante del gioco stesso. La patologia sta proprio nell’assenza di quei gradi di libertà che rendono una persona in salute, non essendo possibile una libertà in senso assolto, considerando molto banalmente i tanti bisogni da cui siamo condizionati per vivere.
Il tema del gioco è stato affrontato anche da antropologi, sociologi e psicoanalisti, che ne hanno indicato altri aspetti fondamentali, quali le esperienze sociali che essi veicolano, modellando la cultura mediante rituali e abitudini collettive (come sottolineano Huizinga e Caillois), l’apprendimento di competenze, in particolare nell’età infantile, da cui è nato lo sviluppo dei giochi educativi (Montessori), ed ancora il gioco come strumento utilizzato dall’adulto nella psicoterapia dei disturbi infantili. Per non parlare della clownterapia, ideata dal medico statunitense Hunter Doherty “Patch” Adams, con l’obiettivo di introdurre la dimensione giocosa negli ospedali, soprattutto ma non solo nei reparti pediatrici: è ormai una pratica abbastanza diffusa, ed indubbiamente è utile per far superare paure/fobie delle tecniche sanitarie più invasive.
Il gioco quindi è un’attività, che può essere individuale o sociale, molto complessa, dai molteplici significati, anche in questo caso individuali o sociali. L’antropologo Brian Sutton-Smith ha individuato quattro categorie:
- gioco come apprendimento;
- gioco come potere;
- gioco come fantasia;
- gioco in sé.
Conosciamo anche la frase: “Il gioco è bello quando dura poco”, perché ne conosciamo a sufficienza le degenerazioni dello stesso, di cui possiamo ricordare le situazioni abusanti, il bullismo, ecc. proprio perché nel gioco l’azione è indirizzata e guidata anche da fantasie, potenzialmente aggressive e violente.
Il contributo dedicato all’Entusiasmo sul lavoro di Francesca Giannuzzi, così ricco di passione, mi ha suggerito il tema del gioco per creare un ponte con l’attività lavorativa.
Così il rimando ai contributi di Winnicott, pediatra e psicoanalista, come “Gioco e realtà”, è stato per me inevitabile: l’Autore, ad un certo punto afferma che “La psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. La psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme. Il corollario di ciò è che quando il gioco non è possibile, allora il lavoro svolto dal terapeuta ha come fine di portare il paziente da uno stato in cui non è capace di giocare a uno stato in cui ne è capace”.
È implicito, in questo riferimento, che il benessere si fonda sulla capacità di giocare e che il lavoro del terapeuta, volto al superamento dello stato di sofferenza del paziente, passa attraverso il raggiungimento di una possibilità di giocare insieme. Il gioco infatti costituisce parte integrante e viva della crescita mentale e dell’apprendimento, essendo essenziale negli atti creativi.
Di norma però il lavoro è sinonimo di fatica, sofferenza, necessità, costrizione e il termine francese di travail (lavoro) deriva etimologicamente dal termine latino tripalium, che era uno strumento di tortura. Ne deriva un’accezione negativa del lavoro, in opposizione allo stato di libertà, che sarebbe una condizione più connaturata alla persona, da cui discendono tutte le conseguenze descritte nel burn-out, nello stress lavorativo, nello sfruttamento individuale, ecc.
Ma quando il pendolo di questa visione oscilla di 180°, ci si troviamo di fronte ad una visione totalmente opposta: così si evidenziano le conseguenze negative dell’assenza di lavoro, assenza che è stata anche utilizzata proprio per studiare invece i suoi aspetti positivi dal punto di vista psicologico e comportamentale, quali quelli di aiutare la persona a strutturare e organizzare il tempo della sua giornata, di permettere e facilitare i contatti sociali, di contribuire a dare un ruolo sociale ed un’identità personale, ecc. (Jahoda).
Ma gli stessi giochi richiedono uno spazio ed un tempo ben definito, regole prestabilite ben precise per poter fare qualcosa di divertente con gli altri, ed inoltre creano legami e sviluppano sentimenti di appartenenza. Se poi consideriamo che il bambino, ma anche l’adulto, quando gioca è immerso non in uno spazio di fantasia, come immaginiamo, ma in qualcosa di molto reale in cui si immerge e si concentra, insofferente alle intrusioni della vera realtà, ci rendiamo conto come il gioco sia una cosa estremamente seria: praticamente è un lavoro.
Tutto questo sgombra il campo da facili contrapposizioni gioco/lavoro: infatti anche nel gioco è richiesta fatica fisica e mentale, si patiscono pure frustrazioni, in parte attutite dall’uscita del giocatore dall’area magica entrando nella realtà, ma nel gioco a differenza del lavoro vi sono gradi maggiori di libertà e di divertimento: è un impegno fatto con entusiasmo.
Se allora ne cogliamo le somiglianze invece che le contrapposizioni, cogliendo quella parte di gioco che esiste in ogni lavoro, ci inoltriamo in una strada che ci può far evitare stress e malesseri, favorendo invece il nostro benessere.