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Il Codice della crisi e la procedura d’allerta: un sistema rivolto alla salvaguardia delle imprese?

Instanbul, 2015
Ph. Alessandro Saggio / Instanbul, 2015

Con il Codice della crisi di impresa il legislatore ha voluto affrontare i dubbi che dottrina e prassi hanno conservato rispetto alla riforma della legge fallimentare degli anni 2005-2006. L’obiezione di maggiore interesse era rivolta all’apertura, giudicata timida, nei confronti di un sistema, di marca francese [cfr. la loi n°2005-845 du 26 juillet 2005 de sauvegarde des entreprises] volto non tanto alla gestione del fallimento in sé e per sé considerato, quanto alla “salvaguardia” delle imprese e, dunque, alla prevenzione del fallimento stesso. Ad essa il legislatore del Codice ha essenzialmente risposto ponendo, tra i doveri del debitore, l’obbligo di adottare ogni misura idonea a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e di assumere, senza indugio, le iniziative necessarie a farvi fronte (articolo 3 co. 1). Sulla scorta dei principi elaborati dall’Uncitral, dalla Banca Mondiale e dall’Unione Europea (con la Raccomandazione UE sul c.d. early warning del 2014, cui ha fatto seguito la Direttiva n. 1023/2019), il legislatore ha valorizzato la necessità di non ritardare la presa d’atto della situazione di crisi rilevando che «le possibilità di salvaguardare i valori di un’impresa in difficoltà sono direttamente proporzionali alla tempestività dell’intervento risanatore, mentre il ritardo nel percepire i segnali di una crisi fa sì che, nella maggior parte dei casi, questa degeneri in vera e propria insolvenza sino a divenire irreversibile» (così la Relazione illustrativa al Codice). E data una serie di noti elementi (quali «sottodimensionamento, capitalismo familiare, personalismo autoreferenziale dell’imprenditore, debolezza degli assetti di corporate governance…»: così sempre la Relazione) che avrebbe evidenziato una incapacità della maggior parte delle imprese italiane di promuovere autonomamente processi tempestivi di ristrutturazione, il legislatore ha introdotto una procedura di allerta e composizione assistita della crisi.

Rinviando alla manualistica di settore per una trattazione più puntale degli aspetti tecnici della procedura, è bene rilevare in questa sede che essa si presenta come particolarmente “invasiva” nella vita delle imprese, e ciò spiega perché il legislatore ha scelto di non sottoporvi le realtà imprenditoriali di maggiore rilevanza per l’economia nazionale, quali grandi imprese, società quotate, banche, assicurazioni etc. Non sorprende, allora, che fin dall’adozione del Codice, siano emerse critiche serrate, che hanno contestato la farraginosità e sovrabbondanza del sistema [Vella, “L’epocale introduzione degli strumenti di allerta nel sistema concorsuale italiano”, in Questione giustizia, 2019, p. 249], criticato i costi che l’impresa già in crisi sarebbe costretta a sopportare per adeguarvisi [Istituto Bruno Leoni, “Imprese avvisate, mezze salvate?”, editoriale 26.11.2019], evidenziato la “pubblicità” negativa che l’avvio della procedura può generare [R. Ranalli, “Le misure di allerta ed il correttivo: un dettaglio che rischia di fare naufragare uno strumento sulla carta efficace”, in IlFallimentarista.it, 13 gennaio 2020], e, soprattutto, disapprovato la previsione dell’eventuale “deferimento” del debitore al pubblico ministero [Vella, “L’epocale introduzione degli strumenti di allerta”, cit., p. 250].

Ma la critica più forte è stata rivolta al fatto che la procedura di allerta sembra orientata non tanto dalla volontà di aumentare l’autoconsapevolezza del soggetto in crisi, quanto da quella di forzargli la mano, imponendogli di rivelare lo stato di difficoltà anche a terzi, in questo distanziandosi dal modello di early warning disegnato dalla Direttiva UE, che è invece finalizzato a promuovere l’accordo spontaneo tra le parti coinvolte, e infatti limita l’intervento giudiziario in funzione di mera garanzia [cfr. Stanghellini, “La proposta di Direttiva UE in materia di insolvenza”, in Fall., 2017, p. 875].

La procedura di allerta, dunque, sembra risentire del tradizionale “sospetto” che circonda l’evento del fallimento (e la persona del fallito): sicché, dietro il paravento della commendevole intenzione di cercare una soluzione alla crisi, si intravede il tentativo di mettere sotto stretta sorveglianza l’impresa, per evitare non tanto l’esito del fallimento, quanto piuttosto temute frodi. Questa sensazione è rafforzata non solo dalla presenza, sempre sullo sfondo, del pubblico ministero (che pure lascia intravedere un certo timore che le procedure di composizione della crisi siano usate dal debitore per dilazionare la crisi, anziché per risolverla), ma anche (e forse soprattutto) dal tenore “burocratico” che viene esibito dalla procedura. Difatti, e messo da un canto il carattere “algoritmico” del sistema basato sugli indicatori, la procedura rischia di produrre un effetto di deresponsabilizzazione: la tempestiva segnalazione all’OCRI della possibile situazione di crisi costituisce, per l’organo di controllo, il revisore contabile e la società di revisione, causa di esonero dalla responsabilità solidale per le conseguenze eventualmente pregiudizievoli delle omissioni o azioni successivamente poste in essere dall’organo amministrativo. Questi soggetti potrebbero pure discostarsi dai risultati predittivi, ma solo assumendosi la responsabilità di fornire una motivazione: è difficile immaginare che essi non preferiranno affidarsi a una procedura “acritica” e automatica di valutazione del rischio, sì da evitare ogni problema per sé, a prescindere dal beneficio o meno che l’impresa potrà trarre da questa scelta [vd. anche Rordorf, Magistratura, giustizia, società, 2020, pp. 298-299].

Ma vi è di più. Come è noto, il decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 aveva previsto che il Codice della crisi d’impresa sarebbe entrato in vigore nell’agosto del 2020; tuttavia, gli effetti della pandemia da COVID-19 hanno spinto il legislatore a differire quel momento al settembre 2021. La scelta è senza dubbio condivisibile: se non altro, appare preferibile affrontare condizioni di così vasta e problematica emergenza con uno strumento collaudato come la legge fallimentare, anziché affidarsi a una nuova disciplina, dagli esiti ancora non del tutto noti.

Invero, però, è ragionevole ritenere che la pandemia abbia solo offerto una irresistibile motivazione per giustificare una scelta che affonda le proprie radici in diverse e più generali considerazioni: sembra, infatti, che sia lo stesso legislatore a ritenere che le disposizioni contenute nel Codice non siano le più idonee a favorire il risanamento delle imprese in difficoltà e che esse, al contrario, possano finire, all’atto pratico, per renderlo più complicato [cfr. Pacchi Ambrosini, Diritto della crisi e dell’insolvenza, 2020, p. 10; Leozappa, “Quando il codice della crisi viene rinviato per la crisi”, in IlFallimentarista.it, 21 maggio 2020].