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La Corte di Cassazione e le libertà dei cittadini: le attuali tendenze della giurisprudenza penale di legittimità

La Corte di Cassazione e le libertà dei cittadini: le attuali tendenze della giurisprudenza penale di legittimità
La Corte di Cassazione e le libertà dei cittadini: le attuali tendenze della giurisprudenza penale di legittimità

Esercitare liberamente il proprio ingegno,

ecco la vera felicità.

Aristotele, La politica

 

Premessa

Questo scritto analizza gli attuali orientamenti interpretativi della giurisprudenza di legittimità nel settore penale.

Ci interessavano le opinioni di dettaglio ma ancor più la visione generale di cui sono espressione, insomma il modo in cui gli artefici del cosiddetto diritto vivente guardano alle norme ed alla società per la quale sono state concepite.

Il nostro scopo finale era di comprendere in che modo i giudici cui spetta l’ultima parola sui processi considerano il proprio ruolo e qual è la parte che si assegnano nel sempre più complesso e movimentato equilibrio tra i poteri pubblici.

Abbiamo preso in considerazione gli stessi casi che la Cassazione ha ritenuto significativi, traendoli dalla Rassegna della giurisprudenza di legittimità per l’anno 2015 curata dall’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, disponibile sul sito web della Corte medesima.

Abbiamo privilegiato tuttavia, coerentemente allo scopo dello scritto, soltanto le pronunce e gli indirizzi di più elevato valore simbolico, in cui si può intravedere non solo un orientamento significativo ma anche una parte del mosaico complessivo attraverso il quale la nostra Corte suprema esprime il suo “manifesto ideologico”.

 

Come la Corte di Cassazione vede e presenta se stessa

La relazione del Massimario, ufficio esplicitamente definito “specchio” della Corte, è preceduta da una presentazione.

Il suo esame è utilissimo per la ricostruzione di quel manifesto ideologico di cui si diceva.

La nostra massima istanza giudiziaria si presenta come garante suprema dei diritti dell’imputato e del condannato e protagonista di primo piano dell’ordinamento giuridico perché le spetta “non solo di ridefinire attraverso l’interpretazione l’enunciato normativo nel contesto dell’applicazione, ma (…) di contribuire alla costruzione dell’ordine giuridico”.

Questo ruolo primario deriva da “una pluralità di fattori, tra cui il processo di costituzionalizzazione del diritto, dove il giudice penale si assume il compito di adeguare continuamente la legge ai principi costituzionali, il riconoscimento del ruolo che la Corte costituzionale assegna al “diritto vivente” della Corte di cassazione e, da ultimo, l’europeizzazione del diritto, con un giudice ordinario sempre più protagonista del dialogo tra le Corti europee”.

La Corte vede dunque in se stessa un presidio effettivo di legalità, un’efficiente trincea a difesa dei diritti umani essenziali coinvolti nel procedimento penale, un’istituzione pubblica la cui importanza è essenziale non solo nell’interpretazione del diritto ma anche, e con intensità crescente, nella sua creazione e nel suo adeguamento ai principi costituzionali e sovranazionali.

Tutto si può dire, allora, tranne che i giudici di legittimità non abbiano consapevolezza della delicatezza del proprio ruolo e della sua centralità negli equilibri di sistema.

Nei paragrafi che seguono si vedrà cosa quei giudici abbiano fatto seguire a tale consapevolezza.

 

I temi specifici

1) I reati colposi nell’attività medico - chirurgica

L’occasione di plurimi interventi dei giudici di legittimità è dovuta in questo caso alla Legge 189/2012, meglio nota come Legge Balduzzi.

Rileva in particolare il suo articolo 3 per il quale “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile”.

Nella relazione illustrativa alla nuova disposizione si legge che “L’articolo 3 mira a contenere il fenomeno della medicina difensiva (…) la norma si propone come obiettivo di determinare i casi di esclusione della responsabilità per i danni derivanti dall’esercizio della professione sanitaria; pertanto per gli esercenti le professioni sanitarie che abbiano svolto la prestazione professionale secondo linee guida e buone pratiche della comunità scientifica nazionale e internazionale, sarà esclusa la colpa lieve”.

Chiare sia la norma che la sua ratio ispiratrice.

È emerso tuttavia un consistente indirizzo interpretativo di legittimità, di cui sono esempi significativi Cassazione Sezione 4, 8 luglio 2014,  n. 2168/2015 e Cassazione Sezione 4, 22 aprile 2015, n. 24455, per il quale “la verifica della condotta del medico ai fini dell’esenzione da colpa non può essere limitata esclusivamente all’osservanza del parametro del pedissequo rispetto delle linee guida, che non possono fornire indicazioni di valore assoluto, non potendosi ritenere che l’adeguamento o il non adeguamento del medico alle medesime escluda o determini automaticamente la colpa”.

In sostanza, la prospettiva «di contrastare la cd. medicina difensiva mediante un indiscriminato ricorso al valore regolativo delle linee guida, non vale a legittimare la sottovalutazione dei non trascurabili rischi che, sul piano scientifico-culturale, si annidano in un’accentuata standardizzazione o “burocratizzazione” dell’attività medica […] Un’esasperata procedimentalizzazione dell’attività diagnostico-terapeutica, cioè, può fatalmente indurre una pericolosa deriva “legalistica” dell’attività medica, con erosione degli spazi di discrezionalità individuale ed effetti di deresponsabilizzazione. Una simile deriva “legalistica” deve ritenersi, tuttavia, scongiurata alla luce dei principi che proprio la giurisprudenza di legittimità, anche da ultimo, ha ribadito con riguardo alle forme attraverso le quali il giudice di merito è chiamato a costruire i propri modelli di imputazione soggettiva del fatto, ossia muovendo dal confronto “critico” del parametro scientifico fornito dalle linee guida con le specificità del caso clinico, le singolarità della vicenda concreta, l’anamnesi o la storia clinica del paziente ed i motivi di originalità e irripetibilità che, con riguardo a ciascuna vicenda esistenziale esaminata, esigono dal singolo professionista piena considerazione e ineludibile rispetto».

La libertà nelle scelte terapeutiche del medico, cioè, è per la Corte «un valore che non può essere a nessun livello compromesso, pena la degradazione del sanitario a livello di semplice burocrate, con gravi rischi per la salute di tutti. L’idea da sostenere è quella secondo cui il presupposto per il contenimento della risposta sanzionatoria, sul piano penale, si giustifica non già per effetto dell’astratta conformità del comportamento medico a una regola positivizzata, bensì in ragione dell’adeguamento della condotta del medico ai parametri della più elevata qualificazione sul piano scientifico».

Non condividiamo affatto queste considerazioni, anzitutto perchè fondate su un’erronea nozione del concetto di linee guida.

La Suprema Corte gli assegna infatti un valore relativo sul presupposto di una necessaria autonomia tra il protocollo sanitario propriamente inteso e “le specificità del caso clinico, le singolarità della vicenda concreta, l’anamnesi o la storia clinica del paziente”.

Le cose non stanno così.

Il manuale metodologico del Sistema nazionale delle linee guida, organismo dell’Istituto superiore di sanità, definisce questi strumenti: “raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni di esperti, con lo scopo di aiutare i medici e i pazienti a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche … Le linee guida nascono quindi per rispondere a un obiettivo fondamentale: assicurare il massimo grado di appropriatezza degli interventi, riducendo al minimo quella parte di variabilità nelle decisioni cliniche che è legata alla carenza di conoscenze e alla soggettività nella definizione delle strategie assistenziali”.

Dunque, contrariamente all’opinione della Corte di Cassazione, le linee guida non sono protocolli astratti ma contengono, al contrario, indicazioni valide anche per situazioni cliniche specifiche e si rivolgono non solo ai medici ma anche ai pazienti così che possano partecipare consapevolmente alle decisioni terapeutiche che li riguardano.

Di più: le linee guida hanno nella completezza la loro ragion d’essere, nel senso che il loro scopo è di ridurre se non addirittura eliminare ogni margine di variabilità e soggettività, individuando in questo la migliore garanzia per il buon esito delle decisioni mediche. Esattamente il contrario dell’assunto della Cassazione che vede invece nella personalizzazione della cura un valore e un dovere.

E allora il problema non sta, come ritengono i giudici di legittimità, nella relatività (e quindi nella non decisività) del parametro dell’ottemperanza delle linee guida nell’attività medica; è invece decisivo se un protocollo medico sia o non sia una linea guida, cioè contenga oppure no tutte le indicazioni necessarie ad orientare in modo completo il sanitario che si trovi ad affrontare un determinato caso clinico.

L’indirizzo ermeneutico in esame presta poi il fianco a un’ulteriore critica.

Nell’opinione della Corte, come si è visto, “L’idea da sostenere è quella secondo cui il presupposto per il contenimento della risposta sanzionatoria, sul piano penale, si giustifica (…) in ragione dell’adeguamento della condotta del medico ai parametri della più elevata qualificazione sul piano scientifico”.

Un altro palese non senso logico: l’esonero dalla colpa lieve – si dice – può essere concesso solo al sanitario che abbia rispettato i parametri qualitativi più elevati; ma – ci chiediamo – su che basi si potrebbe contestare una colpa al medico che abbia operato ai massimi livelli della sua professione?

Con queste premesse, non ci pare azzardato sostenere che il modello di condotta professionale medica indicato dalla Suprema Corte è al tempo stesso inesatto e inesigibile.

Intanto però qualcosa è avvenuto ed è il sostanziale abbandono del modello legislativo.

La previsione dell’articolo 3 ha lo scopo esplicito di creare un margine di sicurezza e lo fa coincidere con la conformazione della condotta professionale alle linee guida.

Dal canto suo il giudice di legittimità mostra di non condividere questa impostazione e sceglie l’opzione di sostituirsi al legislatore mediante l’adozione di un parametro alternativo o quantomeno aggiuntivo.

È un’attività interpretativa o creativa? Di sicuro, l’indirizzo commentato ha trascurato sia il tenore letterale che la ratio legis della norma.

È un’interpretazione necessaria e costituzionalmente orientata nel senso che l’accoglimento senza filtri della prospettiva indicata dal legislatore avrebbe comportato una qualche violazione costituzionale? Non ci sembra: non dovrebbe venire in rilievo l’articolo 3 comma 1 della Costituzione poiché la distinzione operata dalla Legge Balduzzi ha una sua non trascurabile ragionevolezza; non risulta violato l’articolo 24 comma 1 della Costituzione dal momento che il parziale esonero da conseguenze penali disposto dal citato articolo 3 fa comunque salva la responsabilità ex articolo 2043 del codice civile; lo stesso può dirsi per l’articolo 32 comma 1 poiché la protezione accordata ai sanitari che si adeguano alle linee guida (e dunque, per definizione, operano in modo conforme agli standard accettati dalla comunità scientifica) non può essere plausibilmente considerata come un indebito lasciapassare per condotte lesive del diritto alla salute.

Ed allora, pensiamo di potere affermare che la Corte di Cassazione, varando l’indirizzo interpretativo qui commentato, abbia compiuto un’operazione che svuota indebitamente di significato una previsione normativa, per di più sulla base di presupposti fattuali e logici assai meno che stringenti.

2) Il concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso

Il punto di partenza è in questo caso costituito dall’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (di seguito CEDU) il quale sancisce il principio di irretroattività delle norme penali che istituiscono una nuova fattispecie incriminatrice o aggravano il trattamento sanzionatorio di fattispecie già esistenti.

La Corte europea dei diritti dell’uomo (di seguito Corte EDU), organo cui spetta in via esclusiva l’interpretazione delle norme CEDU, ha chiarito che la previsione dell’articolo 7 deve essere riferita non solo alle fonti legislative ma anche a quelle giurisprudenziali, vale a dire agli indirizzi interpretativi che, in quanto consolidati, si tramutano in diritto vivente.

In questo quadro si è inserita, con portata dirompente, la sentenza emessa il 14 aprile 2015 dalla Corte di Strasburgo nel procedimento Contrada c. Italia, tradottasi nella condanna del nostro Paese per violazione dell’articolo 7.

La vicenda concreta sottostante riguardava il caso di un alto dirigente di pubblica sicurezza condannato in via definitiva per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa in relazione a condotte tenute tra il 1979 ed il 1988.

La Corte EDU ha ritenuto, sulla base di una rassegna capillare degli indirizzi interpretativi nazionali, che solo a partire dalla pronuncia n. 16/1994 delle Sezioni unite penali nel procedimento Demitry si potesse considerare effettivamente e pacificamente ammessa nel nostro ordinamento la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa.

Coerentemente a questa premessa, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che nel periodo in cui si verificarono i fatti il reato contestato all’accusato non fosse sufficientemente chiaro e prevedibile, sicchè gli era impossibile avere consapevolezza dei rischi penali connessi alla propria condotta.

L’ovvia conclusione è stata che la condanna dell’interessato era avvenuta in violazione dell’articolo 7 CEDU.

La pronuncia della Corte EDU ha sollevato interrogativi nel dibattito giuridico interno, particolarmente sotto il profilo della praticabilità nel nostro ordinamento di soluzioni giurisdizionali il cui presupposto sia la sostanziale equiparazione tra fonti normative e fonti giurisprudenziali.

La relazione del Massimario segnala al riguardo la pronuncia n. 18288/2010 con cui le Sezioni unite hanno riconosciuto, in esplicita adesione al concetto di legalità messo a fuoco a Strasburgo, che un mutamento giurisprudenziale consolidato rende ammissibile la riproposizione di una richiesta di indulto in precedenza rigettata.

A dispetto di queste premesse, la reazione della giurisprudenza di legittimità alla sentenza Contrada ed alle sue implicazioni è stata di scarso entusiasmo o addirittura di aperta contestazione.

Questo umore è ben espresso dalla Cassazione Sezione 2, 21 aprile 2015, n. 34147 che ha rigettato per manifesta infondatezza una questione di legittimità costituzionale degli articoli 110 e 416 bis del codice penale per asserito contrasto con gli articoli 25 comma 2 e 117 della Costituzione (quest’ultimo in connessione all’articolo 7 CEDU).

I giudici di legittimità, chiamati a verificare l’impatto nella giurisdizione interna dei principi affermati nella sentenza Contrada, hanno esplicitamente dissentito dalla premessa della Corte EDU, secondo la quale il reato di concorso esterno si risolve in una creazione giurisprudenziale.

Si sono detti infatti convinti, rifacendosi all’opinione manifestata dalla Consulta nella sentenza n. 48/2015, che tale fattispecie incriminatrice è semplicemente il frutto dell’uso congiunto di una norma incriminatrice di parte speciale con la norma che regola il concorso di persone sicchè non è dato rilevare alcuna violazione del principio di legalità e, ancor prima, non ricorre un esempio di creazione giurisprudenziale.

Prendiamo atto di quest’opinione ma ricordiamo che nel punto n. 66 della sentenza della Corte EDU è testualmente affermato che: “non è oggetto di contestazione tra le parti il fatto che il concorso esterno in associazione di tipo mafioso costituisca un reato di origine giurisprudenziale”.

Si consideri che nei giudizi a Strasburgo l’Italia è rappresentata da un agente e due coagenti, posti alle dirette dipendenze del Governo.

La Corte di Cassazione ha dunque assunto una posizione antitetica rispetto a quella dell’unico organo costituzionale legittimato ad esprimere la volontà nazionale nel contenzioso dinanzi la Corte EDU.

Si evidenzia da ultimo, per completezza informativa, che il Contrada, dopo l’esito favorevole del ricorso a Strasburgo, si è rivolto al giudice interno, nella specie la Corte di Appello di Caltanissetta, chiedendo la revisione del processo.

Il giudice adito ha respinto la richiesta.

Questa, testualmente, è la premessa da cui è partita la Corte: “al di là […] delle suggestioni polemiche e delle esigenze di rafforzamento argomentativo che tali formulazioni possono esprimere, parlare di ‘inesistenza del reato’ e di ‘mera creazione giurisprudenziale’ del concorso esterno, per sintetizzare i contenuti della decisione della Corte EDU, costituisce se non un vero e proprio errore giuridico quantomeno una disinvolta forzatura tecnica”.

I giudici nisseni hanno quindi identificato un solo profilo valutabile ai fini della revisione e cioè “se Contrada all’epoca in cui attuava le condotte accertate a suo carico poteva conoscere dell’esistenza di tale reato. Ciò appare sufficiente perché nella medesima vicenda oggetto della sentenza della Corte EDU ad essa ci si conformi”.

La conclusione, negativa per l’interessato, è dipesa dalla constatazione che costui “per il suo particolare ruolo, non poteva certo avere bisogno di attendere le sezioni unite Demitry, visto che il c.d. maxiprocesso di Palermo […] celebrato nel corso degli anni ’80 del secolo scorso subito dopo l’introduzione della fattispecie di cui all’articolo 416 bis del codice penale, aveva affrontato la questione della configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa; e nei confronti di diversi imputati era stata elevata una tale contestazione anche sulla scorta delle indagini degli uffici di cui Contrada faceva parte”.

È prevedibile che questa decisione finirà al vaglio della Cassazione. Intanto però, in attesa della risposta della Suprema Corte, si osserva che una pronuncia della Corte EDU è stata sostanzialmente schernita nei suoi aspetti valutativi e posta nel nulla quanto ai suoi effetti concreti.

È rimasto quindi lettera morta l’obbligo sancito dall’articolo 46 § 1 CEDU, a norma del quale “le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti”.

3) Le intercettazioni

Le rassegne di giurisprudenza dedicano sempre un ampio spazio a questo tema.

Le intercettazioni sono da molto tempo uno strumento di impiego massivo nelle indagini e d’altro canto le continue innovazioni rese disponibili dalla scienza consentono un costante affinamento delle relative tecniche.

È quindi interessante comprendere se e in che modo la giurisprudenza di legittimità assecondi questo trend e se riesca comunque ad assicurare un adeguato equilibrio tra le esigenze di difesa sociale e le libertà individuali di rilievo costituzionale.

La relazione del Massimario evidenzia una piena consapevolezza del fatto che si tratta di un tema sensibile, tale da incidere in modo importante sulla qualità della tutela di diritti umani essenziali.

Viene citato opportunamente il monito contenuto nella sentenza n. 173/2009 della Corte costituzionale in cui si esprime preoccupazione per “un dilagante e preoccupante fenomeno di violazione della riservatezza, che deriva dalla incontrollata diffusione mediatica di dati e informazioni personali, sia provenienti da attività di raccolta e intercettazione legalmente autorizzate, sia … effettuate al di fuori dell’esercizio di ogni legittimo potere da pubblici ufficiali o da privati mossi da finalità diverse, che comunque non giustificano l’intrusione nella vita privata delle persone”.

Si esprime pieno apprezzamento per la giurisprudenza di legittimità la quale “per mezzo di diversi interventi anche delle Sezioni Unite, sta svolgendo un delicato compito, che è stato definito di “costruzione del sistema”, tratteggiando i contorni dell’istituto e fissandone i limiti di utilizzabilità. La Suprema Corte (Sez. un. 12 luglio 2007 n. 30347, Rv. 236754), al riguardo, ha chiarito che “la formidabile capacità intrusiva del mezzo di ricerca della prova nella sfera della segretezza e libertà delle comunicazioni costituzionalmente presidiata … non può tollerare deroghe, scorciatoie, pigrizie o, peggio, radicali omissioni ...”, precisando in una pronuncia del 2015 (Sez. VI, 26 maggio 2015 n. 27100), che le disposizioni che prevedono la possibilità di intercettare comunicazioni sono di stretta interpretazione, perché “la norma costituzionale pone … il fondamentale principio secondo il quale la libertà e la segretezza delle comunicazioni sono inviolabili, ammettendo una limitazione soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria e con le garanzie stabilite dalla legge”.

Nell’opinione del Massimario, dunque, la nostra giurisprudenza di legittimità si sta dimostrando adeguata a governare il fenomeno intercettivo, non permettendone derive illegittime o comunque contrarie ai nostri valori essenziali.

È un’affermazione rassicurante ma, proprio perché ha a che fare con valori così elevati e garanzie imprescindibili ai fini della qualità democratica della nostra società, è riteniamo di doverne verificare l’effettività.

3.a) La motivazione del provvedimento: il collegamento tra il reato da accertare e la persona intercettata

L’affermazione di partenza, assolutamente condivisibile, è che l’articolo 267 del codice di procedura penale, nella parte in cui richiede un rapporto tra il  requisito dei gravi indizi di reato e l’assoluta indispensabilità dello strumento intercettivo, assicura il rispetto dell’articolo 8 CEDU.

Il Massimario precisa a questo proposito che “Questa norma, invero, assicura il rispetto dell’articolo 8 CEDU: la Corte EDU ha affermato che la regolamentazione delle intercettazioni è compatibile con la preminenza del diritto necessaria in una società democratica solo se garantisce una protezione adeguata contro il pericolo di arbìtri lesivi della riservatezza, dovendo disciplinare, in tale prospettiva, in modo sufficientemente preciso, le categorie di persone assoggettabili al mezzo di ricerca della prova, la natura dei reati che vi possano dare luogo, l’indipendenza dell’organo deputato ad autorizzare lo strumento investigativo e le precauzioni da osservare per garantire la privacy degli interlocutori che siano casualmente attinti dalle captazioni senza aver alcun collegamento con l’oggetto delle indagini in corso (cfr. Corte EDU, Sez. II, 10 aprile 2007, Panarisi c. Italia; Corte EDU, Sez. IV, 10 febbraio 2009, Iordachi c. Moldavia)”.

Si cita, come esempio applicativo di questo complesso di principi, Cassazione Sezione 3, 2 dicembre 2014, n. 14954/2015, la quale ha richiesto “l’esistenza, in chiave altamente probabilistica di un fatto storico integrante una determinata ipotesi di reato, il cui accertamento imponga l’adozione del mezzo di ricerca della prova”. Solo così si può “prevenire il rischio di autorizzazione in bianco e di impedire che l’intercettazione da mezzo di ricerca della prova si trasformi in mezzo per la ricerca della notizia di reato”.

Al tempo stesso si afferma la necessità dell’indicazione del criterio di collegamento tra l’indagine in corso e l’intercettando da intendersi come obbligo motivazionale che incombe in maniera espressa e diretta sul giudice.

Ancora una volta espressioni ragionevoli e condivisibili.

E tuttavia proprio nella sentenza 14954/2015, quando si passa all’esame del fatto concreto, si precisa che il soggetto intercettato “è stato indicato nel decreto autorizzativo delle intercettazioni come cointeressato all’attività di spaccio”. Tutto qui, neanche una parola in più.

Questa indicazione, a giudizio del collegio, è senz’altro sufficiente, dovendosi escludere che il requisito dei gravi indizi di esistenza di reato abbia un connotato di tipo probatorio sicchè basta “un controllo penetrante circa l’esistenza delle esigenze investigative e la finalizzazione delle intercettazioni al relativo soddisfacimento; senza, quindi, alcun riferimento alla delibazione, nel merito, di una ipotesi accusatoria, che può ancora non avere trovato una sua consistenza. In una tale prospettiva, la motivazione del decreto non deve esprimere una valutazione sulla fondatezza dell'accusa, ma solo un vaglio di effettiva serietà del progetto investigativo”.

Si spende quindi un denso apparato argomentativo che pone precisi doveri motivazionali al giudice che autorizza l’intercettazione e lo si smentisce subito dopo svuotando il requisito dei gravi indizi, accontentandosi di una mera tautologia, priva di riscontri fattuali controllabili e, di fatto, proteggendo le esigenze delle indagini più dei diritti di chi subisce l’attività intercettiva.

3.b) Le proroghe delle intercettazioni

In questo paragrafo della relazione il Massimario ammette – e la cosa deve essere costata non poco – l’esistenza di una prassi tale per cui la motivazione dei decreti autorizzativi di proroghe dei periodi intercettivi è “notevolmente più sintetica rispetto a quella dell’autorizzazione” iniziale.

Riconosce anche che questa prassi è stata avallata dalla giurisprudenza di legittimità di cui è recente esempio la Cassazione Sezione IV, 19 marzo 2015 n. 16430, secondo la quale “la motivazione dei decreti di proroga può essere ispirata anche a criteri di minore specificità e può risolversi “nel dare atto della constatata plausibilità delle ragioni esposte nella richiesta del pubblico ministero”. In particolare, secondo questa decisione, per la protrazione delle intercettazioni non è necessario che emergano elementi nuovi. Il semplice contatto della persona intercettata con soggetti indagati, rispetto ai quali cioè erano già emersi indizi di colpevolezza, giustifica il permanere degli ascolti”.

Ci chiediamo, a fronte di questa opinione, dove siano andati a finire quei principi di civiltà giuridica così enfatizzati in premessa.

È chiaro infatti che la pronuncia citata consente motivazioni di mero rinvio all’informativa della PG allegata alla richiesta del PM. Un’interpretazione, questa, in palese contrasto con l’articolo 267 c.p.p. il quale invece, se inteso in modo costituzionalmente orientato, richiede che il provvedimento che autorizza la proroga debba motivare plausibilmente ed autonomamente la persistenza delle condizioni che legittimano la protrazione dell’intercettazione.

3.c) Il ruolo ed i poteri del GIP rispetto alla richiesta del PM

L’articolo 267 del codice di procedura penale delinea in termini di assoluta chiarezza la procedura da seguire allorchè il PM voglia utilizzare lo strumento intercettivo.

Viene in rilievo in particolare, per ciò che qui interessa, il terzo comma in cui si afferma che “il decreto del pubblico ministero che dispone l’intercettazione indica le modalità e la durata delle operazioni”.

Questa regola ha un suo chiaro antecedente logico: le intercettazioni sono un atto investigativo e la loro impostazione e gestione spetta fisiologicamente al responsabile della fase istruttoria, cioè il PM.

Il GIP ha invece una funzione di garanzia, gli spetta cioè di verificare che le richieste del PM soddisfino i requisiti di legge.

Dovrebbe derivarne logicamente che, se il GIP determina una durata del periodo intercettivo diversa da quella indicata dal PM, assume per ciò stesso ed impropriamente un ruolo di parte ed abbandona la sua veste di custode della legalità e di protettore dei diritti di coloro che subiscono gli effetti dell’atto istruttorio.

Dovrebbe, altrettanto logicamente, derivarne che un’autorizzazione del GIP congegnata in modo da consentire una durata delle operazioni di intercettazione superiore a quella indicata dal PM nella sua richiesta viola il disposto dell’articolo 267 e comporta l’inutilizzabilità delle captazioni ottenute per effetto di tale violazione.

Dovrebbe, appunto. Ma non è questa l’opinione del giudice di legittimità.

La Cassazione Sezione 6, 21 luglio 2015 n. 34809 afferma infatti che il decreto di autorizzazione del giudice non è vincolato dai limiti della richiesta del pubblico ministero. Nella fattispecie, in particolare, era stata dedotta la sussistenza di uno dei reati contenuti nel catalogo di cui all’articolo 266 cod. proc. pen. ed erano state richieste intercettazioni per la durata di soli quindici giorni. L’autorizzazione, invece, era stata concessa da giudice per quaranta giorni, essendo stata riferita a diversa ipotesi di reato che legittimava il ricorso all’articolo 13 della Legge n. 203 del 1991. La Suprema Corte ha ritenuto che il giudice per le indagini preliminari possa riqualificare la richiesta del pubblico ministero in presenza di sufficienti indizi di delitti di criminalità organizzata, sebbene essa faccia esclusivo riferimento alla disciplina dettata dagli articoli 266 e seguenti del codice di procedura penale e, comunque, al termine di quindici giorni.

Non si tratta, per la verità, di un indirizzo innovativo poiché in realtà un simile modo di intendere il ruolo del giudice controllore è affiorato già nel 2007.

Il punto è capire se sia coerente, in un modello processuale penale chiaramente fondato sulla separazione delle funzioni e ad ispirazione sostanzialmente accusatoria, affidare al giudice poteri di integrazione dell’iniziativa dell’organo di accusa in un ambito così spiccatamente istruttorio come è quello della  ricerca dei mezzi di prova.

Può in altri termini il  GIP affiancarsi o addirittura sostituirsi al PM nella definizione dei presupposti legittimanti la richiesta intercettiva? Può interpretare due distinti ruoli in una sequenza procedimentale che pone al primo posto la tutela dei valori costituzionali potenzialmente in conflitto con le intercettazioni?

La risposta affermativa a queste domande data dalla Corte di Cassazione è conciliabile con le solenni affermazioni di principio fatte dagli stessi giudici di legittimità allorchè, con la sentenza 27100/2015, hanno chiarito che “le disposizioni che prevedono la possibilità di intercettare comunicazioni sono di stretta interpretazione”?

Ci sembra proprio di no, a pena di dar vita, richiamando ancora una volta le parole di quella sentenza, ad un sistema caratterizzato da “deroghe, scorciatoie, pigrizie o, peggio, radicali omissioni”.

3.d) Utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quello in cui sono state disposte

La norma di riferimento, precisamente l’articolo 270 comma 1 del codice di procedura penale, è anch’essa molto chiara: “I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”.

La realtà è tuttavia sempre più complessa delle semplificazioni legislative e pone all’interprete una casistica assai varia sulla quale sperimentare le proprie opinioni.

Il primo caso ricorre quando un’attività intercettiva disposta per reati compresi tra quelli che legittimano questo strumento di ricerca della prova faccia emergere tracce di un reato escluso da tale elenco.

L’orientamento unanime di legittimità è nel senso che anche per questa parte le intercettazioni siano utilizzabili, dovendo essere assicurata una “valutazione unitaria, coerente e complessiva del materiale probatorio acquisito legittimamente al processo”.

Un’altra eventualità è che il procedimento in cui sono state disposte le intercettazioni, inizialmente unitario, venga frazionato in più procedimenti distinti. Ugualmente le intercettazioni, a giudizio pressochè unanime dei giudici di legittimità, sono liberamente esportabili.

Ancora meglio: il procedimento rimane unico e non si pone proprio la questione dell’utilizzabilità se, pur in presenza di elementi formali che suggeriscano una diversità (come, ad esempio, l’attribuzione di un numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato diverso da quello originario), vi sia identità della notizia di reato che ha costituito l’input del procedimento. L’effetto di questa opinione è che il disposto ed i limiti dell’articolo 270 del codice di procedura penale si applicano solo se i risultati delle intercettazioni debbano transitare tra procedimenti distinti fin dall’origine.

Un’ulteriore questione si è posta attorno al requisito dell’indispensabilità per l’accertamento del reato contestato nel procedimento ad quem.

Nella visione della Cassazione Sezione 2, 18 febbraio 2015, n. 12625, l’indispensabilità può riguardare qualsiasi elemento dell’imputazione e ricorre anche quando le captazioni servano solamente come riscontri per il rafforzamento di dichiarazioni accusatorie.

Non solo: secondo la Sezione III, 29 gennaio 2015 n. 12536, non è neanche necessario che dalla conversazione intercettata emerga immediatamente l’esatta qualificazione giuridica del delitto “diverso” per il quale è obbligatorio l’arresto in flagranza. Le informazioni raccolte tramite le attività di captazione legittimamente disposte in un determinato procedimento, infatti, possono essere comunque utilizzate come “fonti” da cui eventualmente desumere una successiva notitia criminis. In altri termini, qualora emerga un delitto per il quale l’arresto in flagranza non è obbligatorio, dai risultati delle intercettazioni legittimamente disposte possono essere desunte notizie di reato.

Ognuno giudichi da sé ma non si direbbe che questi indirizzi abbiano valorizzato la regola dell’articolo 270.

3.e) La necessità della previa determinazione del luogo nelle intercettazioni ambientali (rectius, tra presenti)

La questione di gran lunga più interessante è in questo caso costituita dall’uso dei virus informatici (o agenti intrusori, come sono più garbatamente definiti nel linguaggio di legittimità) per scopi intercettivi.

Se ne è occupata la Cassazione Sezione 6, 26 maggio 2015, n. 27100 la quale ha ritenuto corretto distinguere le due modalità tecniche che si accompagnano a questo nuovo strumento: l’attivazione da postazione remota del microfono del dispositivo intercettato e l’attivazione della sua telecamera.

Nel primo caso si è ravvisata una forma di intercettazione di conversazioni tra presenti, ammissibile (secondo un’interpretazione rispettosa dell’articolo 15 della Costituzione) solo se preceduta dall’indicazione preventiva dei luoghi di captazione. L’attivazione del microfono consente infatti l’ascolto di conversazioni quale che sia il luogo in cui si trova il detentore del dispositivo e questo solo fatto viola non solo la normativa ordinaria ma anche il citato precetto costituzionale.

Se invece viene attivata la videocamera, le riprese ottenute sono assimilabili ai documenti ex articolo 234 del codice di procedura penale ma non possono comunque essere utilizzate quelle relative a luoghi di privata dimora ovvero quelle relative a luoghi che richiedono una tutela della riservatezza.

Sembra a tutti gli effetti un principio condivisibile ma, a distanza di poco tempo, un diverso collegio della stessa sezione si è discostato sensibilmente dal percorso argomentativo della sentenza 27100 e, ravvisando un conflitto interpretativo, ha trasmesso gli atti al Presidente della Corte di Cassazione per la devoluzione della questione alle Sezioni unite. Queste ultime si sono pronunciate di recente e hanno chiarito che l’uso degli agenti intrusori per fini intercettivi è legittimo senza previa determinazione dei luoghi nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata.

3.f) L’inutilizzabilità di captazioni ottenute mediante intercettazioni disposte in violazione di legge: la rilevabilità del vizio e i suoi effetti

Le garanzie costituzionali che sovrintendono alle intercettazioni sarebbero prive di effettività se la legge ordinaria non prevedesse un adeguato sistema sanzionatorio ogni qualvolta l’attività intercettiva sia stata disposta e svolta concretamente in modo illegittimo.

È questo il senso delle regole contenute nell’articolo 271 del codice di procedura penale che sanzionano con l’inutilizzabilità i risultati delle intercettazioni eseguite fuori dei casi consentiti o comunque ottenute in violazione della procedura delineata negli articoli 267 e 268.

A ulteriore presidio dell’effettività della sanzione, lo stesso articolo 271 pone a carico del giudice, in ogni stato e grado del processo, l’obbligo di ordinare la distruzione delle intercettazioni inutilizzabili.

Obbligo che trova ulteriore forza e significati nell’articolo 191 c.p.p. il quale ribadisce la rilevabilità d’ufficio dell’inutilizzabilità in ogni stato e grado del procedimento e priva di effetto le prove cui sia connessa tale sanzione.

La relazione del Massimario si sofferma in particolare sulla questione della rilevabilità del vizio.

Il nodo del contendere è fino a quando la parte che vi ha interesse possa eccepire l’inutilizzabilità delle intercettazioni e quali siano i presupposti in presenza dei quali il giudice di legittimità può riconoscere il vizio, anche a prescindere da un’iniziativa di parte, e trarne gli effetti di legge.

Le pronunce analizzate danno conto dell’esistenza di un conflitto interpretativo.

La Cassazione Sezione III, 26 novembre 2014 n. 15828/2015 ha ritenuto che il vizio può essere dedotto dalle parti, per la prima volta, nel giudizio di cassazione e rilevato oltre il devolutum anche dal giudice di legittimità ai sensi dell’articolo 609, comma 2 del codice di procedura penale, perché l’inutilizzabilità è rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento a norma dell’articolo 191 del codice di procedura penale.

Decisione, questa, chiaramente in contrasto con la Cassazione Sezione 5, 1 ottobre 2008, n. 39042 che escludeva la deduzione per la prima volta con il ricorso per cassazione dell’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche o ambientali.

Il Massimario ha intravisto infine una possibile composizione del conflitto in Cassazione Sezione 3, 27 febbraio 2015, n. 32699 la quale ha precisato che l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni non può essere dedotta per la prima volta con il ricorso per cassazione, qualora l’eccezione si fondi su questioni di fatto mai dedotte in precedenza. La preclusione deriva dall’impossibilità di attribuire ai fatti storici posti a fondamento della questione un significato diverso da quello prescelto dal giudice di merito.

Questa pronuncia non rappresenta una novità nel senso che fa seguito ad altre, anche risalenti nel tempo, di uguale prospettiva.

Ci chiediamo però se un indirizzo del genere sia davvero in sintonia con il senso complessivo degli articoli 271 e 191 e se ne valorizzi adeguatamente la funzione di norme immediatamente applicative di un primario precetto costituzionale.

La risposta dipende non solo dalla pronuncia da ultimo citata ma anche dalle altre che le si affiancano, componendo una trama più complessiva.

Viene in mente anzitutto il principio della cosiddetta autosufficienza del ricorso per cassazione.

Si tratta, né più né meno, di un onere di esclusiva creazione giurisprudenziale, posto a carico del ricorrente e concepito in modo progressivamente più gravoso.

I giudici di legittimità si limitarono inizialmente a chiedere che i motivi di impugnazione fossero formulati in modo chiaro, specifico, completo e preciso.

Di seguito pretesero una precisa indicazione degli atti e verbali che contenevano i dati cui erano riferiti i motivi di contestazione.

L’ultima e più stringente versione pretende, per di più a pena di inammissibilità, la trascrizione integrale all’interno del ricorso degli atti processuali posti a fondamento dell’impugnativa.

Ciò perché - si afferma ad esempio in Cassazione Sezione 6, 11 dicembre 2012, n. 4845 - “Il giudice di legittimità non deve essere costretto alla “ricerca” di quegli atti che confermerebbero la tesi del ricorrente”.

La motivazione di questo atteggiamento rigoroso è assai chiara: la Corte di Cassazione è subissata da ricorsi e, nel tentativo di recuperare spazi di agibilità, impone un’indebita corvèe ai ricorrenti, ponendo a loro carico attività che fisiologicamente spetterebbero al giudice.

Eppure questa prassi non solo è chiaramente estranea ad ogni funzione di garanzia ma addirittura la contraddice poichè, introducendo una causa di inammissibilità non prevista dalla legge, nega a ricorsi perfettamente legittimi la chance di essere presi in considerazione ed eventualmente accolti.

Il che, se suona male in generale, suona anche peggio quando si tratta di ricorsi che rappresentano vizi rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento.

L’azione di regolamento di confini della Corte Suprema non finisce qui.

Le Sezioni unite, con la sentenza 16 luglio 2009, n. 39061, si sono premurate di chiarire che “Non compete alla Corte di Cassazione, in mancanza di specifiche deduzioni, verificare se esistano cause di inutilizzabilità o di invalidità di atti del procedimento che non appaiano manifeste, in quanto implichino la ricerca di evidenze processuali o di dati fattuali che è onere della parte interessata rappresentare adeguatamente”.

Se non è un De profundis, poco ci manca. La Corte si colloca in una posizione differente da quelli di tutti gli altri giudici del procedimento e, pur non negando esplicitamente di essere anch’essa tenuta a rilevare d’ufficio le inutilizzabilità, condiziona questo suo obbligo al previo compimento di significative attività del ricorrente. Elude quindi sostanzialmente il disposto dell’articolo 609 del codice di procedura penale che attribuisce al giudice di legittimità non solo la cognizione del procedimento nei limiti dei motivi proposti ma anche la decisione delle questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo. Addossa un peso indebito al ricorrente e, come se non bastasse, si scarica altrettanto indebitamente del proprio.

Serve sottolineare, prima di abbandonare la questione, che l’inammissibilità creata dalle pronunce citate non è in alcun modo giustificata dalla riforma dell’articolo 606 codice di procedura penale operata dalla Legge 46/2006. La novella ha riguardato infatti, per quanto qui interessa, solo il vizio della mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, chiarendo che esso va rilevato non solo quando risulti dal testo del provvedimento impugnato ma anche da altri atti processuali specificamente indicati nei motivi di gravame.

Questa riforma aveva una chiara funzione garantistica. In precedenza, infatti, al giudice di legittimità  era precluso l’accesso ad atti processuali diversi dalla decisione impugnata. Il che gli impediva perfino di verificare se prove decisive fossero state ignorate nella fase di merito.

Il legislatore del 2006 considerò che la regolamentazione allora vigente limitasse in modo grave e ingiustificato il soddisfacimento di primarie esigenze di giustizia e concesse più ampi margini di rappresentazione al ricorrente attraverso, appunto, la facoltà di indicare specificamente gli atti processuali significativi per la dimostrazione del vizio di motivazione.

Tutto ci si poteva attendere tranne che l’apertura garantista della Legge 46/2006 fosse usata per scopi esattamente opposti, cioè come un grimaldello per estendere il principio dell’autosufficienza del ricorso a fattispecie che nulla avevano a che fare col vizio di motivazione. Eppure è esattamente ciò che è avvenuto.

Quel principio è stato infatti progressivamente esteso anche ai vizi in procedendo sebbene la norma che li regola, cioè l’articolo 606 comma 1 lettera c) codice di procedura penale, non fosse stata interessata dalla riforma del 2006. Per di più, l’estensione fu motivata anche sul presupposto che l’autosufficienza, in quanto richiesta dall’articolo 360 n. 5 codice di procedura civile, fosse diventata una sorta di principio generale dell’ordinamento che si estendeva dunque oltre i confini della giurisdizione civile. Non si diede alcun peso, ovviamente, al fatto che il suddetto articolo 360 si riferisse ad un vizio motivazionale.

Si tratta dunque di prassi interpretative prive di un reale fondamento normativo e, come già si diceva, nate per esigenze che nulla hanno a che fare con l’interesse ad una soluzione di giustizia e molto hanno invece a che fare con un interesse di tipo apparentemente efficientistico – quello dei giudici di legittimità a non sentirsi soffocare da una mole esorbitante di ricorsi – che svuota di significato la funzione stessa del giudizio in Cassazione.

Tanto ciò è vero che autorevoli opinioni critiche verso questo modo di vedere si sono manifestate all’interno della stessa Corte Suprema.

Così si è espresso, ad esempio, il Consigliere Giovanni Conti[1]: “Si è già osservato che non si può invocare la nuova formulazione della lett. e) dell’articolo 606 a proposito degli errores in procedendo, dato che essi appartengono al distinto caso della lett. c). Vi è stato però di fatto nella giurisprudenza penale un trascinamento della tematica dell’autosufficienza del ricorso su questo tipo di vizio, influenzato dalla giurisprudenza civile, che aveva come punto di riferimento l’articolo 366, comma primo, n. 6, cod. proc. civ., riferibile ad ogni vizio deducibile ex articolo 360 (…) Si tratta però (…) di una linea giurisprudenziale priva di base normativa”.

Un’opinione altrettanto netta è stata espressa da Ernesto Lupo, presidente della Suprema Corte, in occasione di un incontro di formazione, focalizzato sugli epiloghi decisori del processo penale in Cassazione, avvenuto il 13 dicembre 2012[2]: “Quello di autosufficienza è un concetto che la giurisprudenza penale farebbe bene a non utilizzare”.

La rassegna non sarebbe completa se non si segnalasse l’indirizzo, talmente consolidato da non essere affatto menzionato nella relazione del Massimario, che nega in radice l’esistenza della cosiddetta inutilizzabilità derivata.

L’assunto è che l’inutilizzabilità per violazione di legge del risultato di un’intercettazione non impedisce che questo sia comunque utilizzato come input per ulteriori attività investigative, come ad esempio la richiesta di una nuova sequenza intercettiva.

L’argomentazione consueta è che, mentre l’articolo 185 codice di procedura penale rende nulli anche gli atti successivi e conseguenziali ad un atto nullo, una disposizione simile non è stata prevista per gli atti inutilizzabili.

Questa interpretazione, a dispetto del suo indiscusso consolidamento, pare il frutto di una grave incongruenza semantica prima che giuridica.

Inutilizzabile, secondo qualsiasi dizionario della lingua italiana, è ciò di cui non si può fare alcun utile uso. E già questo basterebbe a spiegare perché il legislatore non abbia ritenuto necessario introdurre anche per l’inutilizzabilità una norma come quella per le nullità.

Ma se questa considerazione non fosse ritenuta sufficiente, si può comunque contare sul disposto dell’ultimo comma dell’articolo codice di procedura penale laddove si prevede, come atto dovuto e non meramente discrezionale, la distruzione della documentazione delle intercettazioni inutilizzabili.

Si badi bene, non solo l’eliminazione dei brogliacci o delle trascrizioni dal materiale procedimentale, ma la distruzione fisica della documentazione, cioè le registrazioni ed i relativi verbali.

Semmai ce ne fosse bisogno, un’autorevolissima conferma di quanto si afferma è stata data dalla sentenza n. 1/2013 con cui la Corte costituzionale ha deciso un conflitto di attribuzione promosso dal Presidente della Repubblica nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo.

Si ricorderà che l’oggetto del contendere era un’attività intercettiva nel corso della quale erano state captate casualmente conversazioni intrattenute dal Capo dello Stato.

L’iter argomentativo utilizzato dalla Consulta può essere così sintetizzato:

  • è intangibile la riservatezza della sfera delle comunicazioni presidenziali;
  • è per ciò stesso inutilizzabile qualunque captazione che abbia ad oggetto tali comunicazioni;
  • è quindi dovere ineludibile dell’autorità giudiziaria competente distruggere quelle captazioni;
  • lo strumento processuale idoneo a questo fine non è quello regolato dagli articoli 268 e 269 codice di procedura penale fondato sulla cosiddetta udienza stralcio; ciò per due motivi: il primo è che tale udienza è strutturalmente destinata alla selezione dei colloqui ritenuti rilevanti dalle parti e non regola, in virtù dell’espressa clausola di esclusione prevista dall’articolo 269 comma 2, il caso delle intercettazioni di cui sia vietata l’utilizzazione; il secondo è che l’adozione della citata udienza implicherebbe di per se stessa un ulteriore vulnus alla riservatezza delle comunicazioni presidenziali estendendo la loro conoscenza a tutte le parti del procedimento;
  • lo strumento adatto è invece quello indicato dall’articolo 271 comma 3 codice di procedura penale il quale dispone la distruzione delle intercettazioni eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge;
  • la distruzione deve essere compiuta sotto il controllo del giudice essendo inammissibile che a tale compito proceda unilateralmente il PM.

Siamo ben consapevoli che varie proposizioni della sentenza della Corte costituzionale sono riferibili esclusivamente al Capo dello Stato e alle eccezionali prerogative che si accompagnano al suo ruolo ed alle sue funzioni.

Tuttavia, l’apparato motivazionale contiene una parte non trascurabile che può essere senz’altro trasferita a tutti i casi in cui un’intercettazione risulti inutilizzabile per violazione di legge.

Quando ciò avviene, dice la Corte, l’unico rimedio praticabile è la distruzione ad opera del giudice in attuazione del disposto dell’articolo 271 comma 3. Ciò perché l’eliminazione fisica della documentazione dell’attività intercettiva illegittima è l’unico modo di preservare l’ordine giuridico violato ed impedire ulteriori lesioni alla sfera della riservatezza delle comunicazioni, bene che è attribuito non solo al Presidente della Repubblica a presidio delle sue elevatissime funzioni ma anche a ciascuno dei consociati dall’articolo 15 della Costituzione.

La teoria fondata sull’inesistenza dell’inutilizzabilità derivata e sulla conseguente asserita liceità dell’uso, quantomeno per fini diversi da quelli direttamente probatori, di captazioni ottenute contra legem finisce dunque per negare rilievo e tutela ad un precetto primario del nostro ordinamento che non si fatica a comprendere tra i valori essenziali del nostro Stato.

Non è un caso che le molte pronunce di legittimità che hanno concepito e radicato l’indirizzo che qui si contesta non amino confrontarsi col disposto dell’articolo 271 comma 3 codice di procedura penale né con la differente ratio del relativo istituto rispetto a quella che anima la previsione dell’udienza stralcio.

Eppure sia la lettera che la ratio della norma erano chiarissime fin dalle affermazioni contenute nella Relazione al progetto preliminare al vigente codice processuale penale la quale così recitava: “Per le intercettazioni illegittime è stata mantenuta, nell’articolo 271, l’inutilizzabilità a qualsiasi fine, accompagnata dalla distruzione della relativa documentazione”.

Ciò che rimane allora è la negazione di doveri funzionali, la disapplicazione di norme, l’adozione di criteri interpretativi “costituzionalmente disorientati”, l’avallo di prassi investigative che tradiscono la Costituzione e le leggi che ne sono diretta attuazione.

3.g) Altre questioni di dettaglio in materia di intercettazioni

L’articolo 203 codice di procedura penale vieta l’acquisizione e l’uso di informazioni fornite dagli informatori della p.g. se costoro non vengono sentiti come testimoni.

Non la pensa così, tuttavia, la Cassazione Sezione 2, 20 ottobre 2015, n. 42763, Russo) secondo la quale, una volta ottenuta una captazione derivante da un’intercettazione disposta nei confronti di soggetti individuati sulla base di fonti confidenziali, la medesima è inutilizzabile solo se le informazioni confidenziali abbiano costituito l’unico elemento da cui è stata desunta la sussistenza degli indizi di reato. La sentenza ha precisato inoltre che la fonte confidenziale, invece, può senz’altro essere usata per individuare la persona fisica da sottoporre a intercettazione.

E ancora, se il difensore chiede l’accesso, prima del loro deposito ai sensi dell’articolo 268, comma 4, codice di procedura penale, alle registrazioni di conversazioni intercettate, sommariamente trascritte dalla polizia giudiziaria nei cosiddetti brogliacci di ascolto, utilizzati ai fini dell'adozione di un’ordinanza di custodia cautelare, peraltro, il PM ha l’obbligo di provvedere, secondo la Cassione Sez. 4, 28 maggio 2015 n. 24866, solo quando il difensore specifica che l’accesso è finalizzato alla presentazione di un’istanza di riesame.

4) La legge n. 47 del 15 aprile 2015 e i suoi effetti sulle norme in materia cautelare

L’intervento legislativo in esame ha introdotto una serie di modifiche esplicitamente finalizzate ad un restringimento della misura carceraria e, più in generale, ad un uso più avveduto del potere cautelare.

4.a) L’attualità del pericolo

La legge 47 si è specificamente occupata delle esigenze cautelari del pericolo di fuga e della reiterazione della condotta criminosa.

La novità sta nel fatto che entrambe le esigenze devono essere collegate ad un pericolo non solo concreto ma anche attuale il quale non può essere desunto dalla gravità della fattispecie incriminatrice contestata e, limitatamente alla reiterazione della condotta criminosa, neanche dalla personalità dell’accusato.

Varie pronunce, e tra queste Cassazione Sez. 4, 18 giugno 2015, n. 28153, hanno escluso, tanto per cominciare, che questa caratterizzazione del pericolo sia una reale novità, osservando che anche la precedente normativa assumeva come presupposto implicito il requisito dell’attualità.

Vero. E tuttavia è ugualmente vero che questo veniva spesso desunto “dalla molteplicità dei fatti contestati, in quanto la stessa, considerata alla luce delle modalità della condotta concretamente tenuta, può essere indice sintomatico di una personalità proclive al delitto, indipendentemente dall'attualità di detta condotta e quindi anche nel caso in cui essa sia risalente nel tempo” (si veda, tra le altre,  Cassazione Sezione 3, 17 dicembre 2013, n. 3661/2014).

L’orientamento in esame non ha risentito della modifica normativa tanto che, ad esempio, Cassazione Sezione 5, 5 novembre 2015, n. 46442 afferma che la motivazione in ordine all’attualità e concretezza del pericolo di recidiva può basarsi “non solo sull'intrinseco disvalore del fatto, ma altresì su un'accertata e immanente proclività al delitto del soggetto attivo (ravvisata, nella specie, sulla base delle modalità particolarmente riprovevoli della sua condotta e della peculiare posizione fiduciaria rivestita rispetto alle persone offese), pur laddove il fatto contestato sia risalente nel tempo e indipendentemente dal fatto che il soggetto attivo non risulti aver posto in essere ulteriori condotte criminose”.

4.b) Gravità del titolo di reato

Su questo specifico aspetto si è formato uno specifico indirizzo interpretativo secondo il quale il divieto di trarre conclusioni negative dalla gravità del titolo di reato non impedisce che le medesime conclusioni siano invece tratte dalla gravità concreta del fatto contestato (tra le altre, Cassazione Sezione 2, 20 ottobre 2015, n. 42746).

Altre pronunce (come, ad esempio, Cassazione Sezione 2, 20 ottobre 2015, n. 45512) si sono assunte tuttavia il compito di ricordare che la nuova formulazione dell’articolo274 “lascia chiaramente intendere la necessità di superare l’indirizzo interpretativo” favorevole alla valutazione della personalità sulla scorta delle modalità e della gravità del reato.

4.c) Le nuove disposizioni in tema di scelta della misura cautelare

Il nuovo testo dell’articolo 275 comma 2 bis del codice di procedura penale, quale riformato dalla Legge 117/2014, vieta il ricorso alla custodia cautelare carceraria quando il giudice ritiene che il  giudizio si concluderà con l’irrogazione di una pena detentiva non superiore a tre anni.

Varie decisioni, e tra queste Cassazione Sezione I, 1 ottobre 2015, n. 40887, hanno riconosciuto senza mezzi termini che la novella “ha introdotto un espresso «divieto» di applicazione della custodia in carcere” in presenza del requisito richiamato.

Il logico corollario è che il giudice ha l’onere di formulare un giudizio prognostico sul quantum di pena irrogabile in caso di condanna.

Non sono mancate tuttavia voci dissonanti. In particolare la Cassazione Sezione 3, 27 febbraio 2015, n. 32702 ha osservato che “nonostante i limiti e le preclusioni previste dall'articolo 275, comma 2 bis, secondo paragrafo, la misura della custodia cautelare in carcere può essere applicata quando il giudice ritenga possibile una condanna a pena uguale o inferiore a tre anni di reclusione e contestualmente reputi inutile, sul piano cautelare, ogni altra misura meno afflittiva (tanto varrebbe, allora, non applicare affatto alcuna misura cautelare)”.

Difficile non cogliere in questa pronuncia un tono indispettito, quasi che la riforma, per il solo fatto di avere introdotto un limite al potere cautelare, non solo abbia indebolito irragionevolmente le esigenze di difesa sociale ma abbia anche fatto un torto personale al detentore di quel potere.

Un’ulteriore questione è quella legata all’uso del cosiddetto braccialetto elettronico, in ordine al quale la Legge 47/2015 ha posto, attraverso l’inserimento del comma 3 bis nell’articolo 275 del codice di procedura penale, un onere motivazionale a carico del giudice che è tenuto a spiegare le ragioni per le quali sceglie la misura carceraria e non ritiene adeguato il regime degli arresti domiciliari con il predetto braccialetto.

La discussione si è incentrata sugli effetti dell’eventuale indisponibilità degli strumenti elettronici.

Il dibattito ha registrato la divisione tra chi ritiene che in tal caso sia legittimo ricorrere alla misura carceraria, ad esempio Cassazione Sezione 2, 19 giugno 2015, n. 28115, e chi invece, come ha fatto la Cassazione Sezione 1, 10 settembre 2015, n. 39529, pensa che sia iniquo che chi subisce la limitazione della sua libertà personale paghi anche il prezzo delle difficoltà tecniche o amministrative connesse al controllo elettronico. La conclusione è che, secondo questo indirizzo, in casi del genere si applica ugualmente il regime degli arresti domiciliari ed il controllo è affidato ai mezzi tradizionali.

4.d) Le nuove disposizioni in tema di motivazione dell’ordinanza cautelare

La legge 47, evidentemente sulla scorta dell’osservazione di un trend tanto consolidato quanto negativo, ha inteso evitare che l’uso del potere cautelare sia giustificato da impianti motivazionali sostanzialmente tarati sulle argomentazioni del PM (ed eventualmente, ancora più a ritroso, della PG).

Il giudice è quindi tenuto ad una valutazione autonoma di tutti gli elementi rilevanti e cioè: gravità indiziaria, argomentazioni difensive, esigenze cautelari, scelta della misura più adeguata.

Corrispondentemente, il tribunale dei riesame è tenuto ad annullare il provvedimento impugnato se la motivazione manca o è priva di quell’autonoma valutazione.

Come d’abitudine, sono fiorite numerose pronunce che si sono affrettate a rilevare che le novità normative non hanno aggiunto nulla sul piano sostanziale poiché anche in precedenza la scure della nullità colpiva le motivazioni che, pur formalmente complete, si traducessero in un’adesione acritica alla prospettiva accusatoria (ad esempio, Cassazione Sezione 6, 1 ottobre 2015, n. 44607).

Nondimeno, in modo piuttosto contraddittorio, è stata espressamente ribadita la legittimità della motivazione per relationem sempre, che, si capisce, il giudice abbia dato prova di conoscere adeguatamente l’atto cui si è riferito ma anche di averlo soppesato con attenzione (Cassazione Sezione Feriale, 12 agosto 2015, n. 34858).

5) La confisca in sede penale  

La pronuncia più significativa è senz’altro Sezioni unite, 26 giugno 2015, n. 31617.

Prima di dare conto delle conclusioni cui è giunto l’organo nomofilattico, si impone un esame preliminare dei principi affermati dalla giurisprudenza della Corte EDU.

L’occasione del suo intervento è riferita all’articolo 44 comma 2 del Decreto del Presidente della Repubblica 380/2001 il quale, una volta accertata con sentenza definitiva l’esistenza di una lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere che vi sono state abusivamente costruite.

La giurisprudenza nazionale ha costantemente interpretato la norma nel senso che la confisca potesse essere disposta anche senza una condanna. Per due ragioni essenziali: si riteneva sufficiente l’accertamento dell’effettività della lottizzazione a prescindere dall’affermazione di responsabilità penale (quindi anche nel caso di proscioglimento o assoluzione); la confisca era una sanzione amministrativa e non penale.

Questa visione è stata messa in crisi dalla differente opinione della Corte di Strasburgo.

Attenti come sono più ai profili sostanziali che a quelli formali, e non tenendo in particolare conto le definizioni e classificazioni proprie delle legislazioni statali, i giudici di Strasburgo, a partire dalla sentenza Sud Fondi c. Italia, hanno elaborato un ben diverso indirizzo il quale, attribuendo natura sostanzialmente penale alla sanzione della confisca, ha escluso che la sua irrogazione possa essere disposta senza un previo giudizio di colpevolezza conseguente all’imputazione soggettiva del fatto.

L’orientamento è stato rafforzato ed esteso con la sentenza Varvara c. Italia nella quale è stato affermato che la dichiarazione di prescrizione, impedendo l’affermazione della responsabilità e la condanna, impedisce anche l’applicazione della confisca urbanistica, in quanto sanzione penale.

L’indirizzo della Corte EDU è legato a due precise direttrici.

La prima è l’applicazione dei cosiddetti criteri Engel (così denominati in quanto affermati nella sentenza Engel c. Paesi Bassi del 1976) i quali identificano un’accusa penale tutte le volte in cui ricorra almeno uno dei seguenti requisiti:

  • l’illecito contestato sia qualificato come penale dal sistema giuridico dello Stato interessato;
  • esso accordi tutela erga omnes a beni giuridici della collettività;
  • sia punito con una sanzione particolarmente afflittiva e grave, tale da incidere profondamente nella sfera giuridica dell’accusato.

La seconda direttrice attiene alla concezione del diritto di proprietà che, nella visione della Corte EDU, è fondamentale ed assoluto laddove nella previsione costituzionale italiana è soggetto ai limiti che ne assicurano la funzione sociale.

È chiaro a questo punto che si scontrano due visioni, quella nazionale e quella dei giudici dei diritti umani, profondamente contrastanti.

La nostra Corte di Cassazione, precisamente la terza sezione penale, con ordinanza del 20 maggio 2014, ha avvertito di conseguenza la necessità di sottoporre la questione alla Consulta sulla base di un preciso presupposto: la sentenza Varvara avrebbe modificato il contenuto del citato articolo 44 comma 2°, attribuendogli un significato differente da quello consolidato nella giurisprudenza interna e lo avrebbe in tal modo reso illegittimo per contrasto con le norme costituzionali poste a tutela di beni primari quali il paesaggio, l’ambiente e la salute.

Nel medesimo contesto si è inserito anche il Tribunale di Teramo che però si è mosso secondo una prospettiva completamente differente, chiedendo alla Consulta di adeguare la previsione dell’articolo 44 alla sentenza Varvara nel senso di escludere che possa farsi luogo a confisca allorchè il reato di lottizzazione abusiva sia dichiarato estinto per prescrizione.

La Corte Costituzionale, con la sentenza 49/2015 depositata il 26 marzo 2015, ha dichiarato inammissibili entrambe le questioni, sfruttando l’occasione per ribadire e rafforzare la propria visione sui rapporti tra l’ordinamento italiano e quello che ruota attorno alla CEDU.

Il giudice delle leggi ha richiamato anzitutto l’obbligo dei giudici interni di tentare un’interpretazione convenzionalmente orientata delle norme nazionali. Ha tuttavia chiarito che tale obbligo vale soltanto in riferimento alla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, venendo invece meno per le pronunce isolate o comunque espressive di orientamenti ancora ondivaghi.

Se dunque il giudice interno ritiene di aderire a pronunce europee non consolidate, rimane privo della possibilità di eccepire l’incostituzionalità della norma interna contrastante poiché il parametro di riferimento, cioè la disposizione CEDU per come interpretata dalla Corte di Strasburgo, non ha la consistenza necessaria per sovrastare la legislazione statale.

Il che è come dire che, a fronte di indirizzi europei privi di adeguato consolidamento, il giudice interno farebbe bene ad affidarsi ai principi costituzionali che, comunque, prevalgono sulla CEDU.

Se invece il contrasto avviene tra una norma interna e un’interpretazione consolidata di disposizioni CEDU, la via obbligata è quella del ricorso alla Corte costituzionale per contrasto con l’articolo 117 comma 1°. La questione così sollevata consentirà alla Corte l’espunzione della norma interna contrastante.

Se, infine, il contrasto chiamasse in causa una norma CEDU contraria alla Costituzione, il giudice interno sarebbe tenuto a impugnare la legge di adattamento della CEDU nella parte in cui ha consentito appunto l’ingresso di una norma siffatta.

Quanto poi alla pronuncia strasburghese sulla confisca urbanistica, la Corte l’ha facilmente liquidata osservando che si tratta di una decisione non espressiva di un indirizzo consolidato, con tutto ciò che ne consegue nei termini già chiariti.

La sentenza ha in ogni caso chiarito che “nel nostro ordinamento, l’accertamento ben può essere contenuto in una sentenza penale di proscioglimento dovuto a prescrizione del reato, la quale, pur non avendo condannato l’imputato, abbia comunque adeguatamente motivato in ordine alla responsabilità personale di chi è soggetto alla misura ablativa, sia esso l’autore del fatto, ovvero il terzo in mala fede acquirente del bene”.

Ciò vale a dire che la correlazione tra confisca e accertamento della responsabilità è ravvisabile anche nel caso in cui quest’ultimo sia stato fatto incidenter tantum.

È questo, dunque, il  quadro complessivo in cui si è inserita la pronuncia n. 31617/2015 delle Sezioni unite richiamata in premessa di paragrafo.

L’oggetto della questione era costituito dalla confisca del prezzo o del profitto del reato, occorrendo stabilire se si trattasse o no di una sanzione penale alla stregua dei parametri indicati dalla Corte EDU.

Le Sezioni unite hanno attribuito all’istituto la natura di misura di sicurezza.

Hanno ritenuto che per la sua applicazione non sia sufficiente un accertamento incidentale della responsabilità del destinatario poiché, se così fosse, la confisca si trasformerebbe indebitamente in un’actio in rem.

Hanno quindi affermato che “l’accertamento della responsabilità deve confluire in una pronuncia che, non solo sostanzialmente, ma anche formalmente, la dichiari, con la conseguenza che l’esistenza del reato, la circostanza che l’autore dello stesso abbia percepito una somma e che questa abbia rappresentato il prezzo o il profitto del reato steso, devono aver formato oggetto di una condanna, i cui termini essenziali non abbiano, nel corso del giudizio, subito mutazioni quanto alla sussistenza di un accertamento “al di là dì ogni ragionevole dubbio”.

La confisca può infine essere disposta anche nel caso in cui sia intervenuta una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione ma quest’ultima “deve rivelarsi quale formula terminativa del giudizio anodina in punto di responsabilità, finendo in tal modo per “confermare” la preesistente (e necessaria) pronuncia di condanna, secondo una prospettiva, a ben guardare, non dissimile da quella tracciata dall’articolo 578 del codice di rito in tema di decisione sugli effetti civili nel caso di sopravvenuta declaratoria di estinzione del reato per prescrizione”.

Le Sezioni unite precisano ulteriormente, rifacendosi alle linee guida tracciate dalla Corte costituzionale nella sentenza 49/2015, che, a proposito di prescrizione, “L’obbligo della relativa immediata declaratoria, infatti, lungi dallo stemperare il “già accertato”, ne cristallizza gli esiti “sostanziali”, sia pure nella circoscritta e peculiare dimensione della confisca del prezzo del reato, dal momento che – altrimenti – al giudice incomberebbe un onere di “conformazione costituzionale” della interpretazione, attenta a salvaguardare anche i “controlimiti” che la pronuncia della Corte costituzionale ha implicitamente, ma chiaramente, evocato. In altri termini, l’opposta tesi dovrebbe fare i conti con la gamma non evanescente di valori costituzionali che verrebbero ad essere ineluttabilmente coinvolti da un sistema che, dopo aver accertato la sussistenza del reato, la responsabilità del suo autore e la percezione da parte di questi di una somma come prezzo del reato, non consentisse l’ablazione di tale prezzo, esclusivamente per l’intervento della prescrizione che giustifica “l’oblio”ai fini della applicazione della  pena, ma non impone certo la inapplicabilità della misura di sicurezza patrimoniale”.

Ben diversa deve essere, secondo le Sezioni unite, la regolamentazione della confisca per equivalente, poiché si tratta di un istituto che una natura pacificamente sanzionatoria.

Così richiamati i punti essenziali della pronuncia 31617/2015, pare chiaro che il profilo di maggiore interesse e novità è l’affermazione del concetto di “condanna in senso sostanziale” ed il suo utilizzo come grimaldello per legittimare una confisca altrimenti impossibile.

Le conseguenze davvero importanti di questa novità, che potrebbe abbastanza agevolmente essere estesa a tutte le situazioni giuridiche negative il cui presupposto sia una condanna penale, rendono quantomai necessaria la verifica della sua tenuta giuridica e logica.

C’è anzitutto un dato normativo di cui tenere conto ed è quello contenuto nel primo comma dell’articolo 240 c.p. il quale affida al giudice il potere discrezionale di disporre la confisca delle cose “che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto”.

Questo potere è esercitabile – premette la norma – solo nel caso di condanna.

Si è ben consapevoli che l’interpretazione meramente letterale delle disposizioni normative è, per dirla con le parole usate dalla Consulta nella citata sentenza 1/2013, un “metodo primitivo sempre”.

È vero, il tenore letterale non è di per se stesso sufficiente ma ciò non significa che se ne possa prescindere.

Bisogna allora chiedersi quale sia il significato più corretto da attribuire al termine “condanna” usato dal legislatore codicistico.

Si potrebbe iniziare rilevando che mai nessuno finora, ivi comprese le stesse Sezioni unite in precedenti pronunce sulle medesime questioni, aveva inteso quell’espressione in modo diverso da “giudicato formale di condanna”. Questa prospettiva non porterebbe però molto lontano perché il suo presupposto logico sarebbe che chi dice qualcosa mai detto prima ha sempre torto. Anche questo sarebbe un metodo primitivo e quindi lo si scarta a priori.

È invece imprescindibile il confronto con l’articolo 27 comma 2 della Costituzione ed il principio di presunzione di innocenza, o meglio di non colpevolezza, ivi contenuto.

Il Costituente non si è accontentato di affermarlo ma ha inteso dargli la massima ampiezza, estendendolo fino al momento della condanna definitiva.

La previsione in esame va letta in modo congiunto con quella contenuta nell’articolo 24 comma 2 la quale, attribuendo alla difesa la natura di diritto inviolabile, lo riferisce esplicitamente ad “ogni stato e grado del procedimento” e con l’ulteriore previsione dell’articolo 111 comma 7 che ammette il ricorso per cassazione per violazione di legge contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale.

La Costituzione considera dunque un’imprescindibile garanzia, ancorchè affidata all’iniziativa delle parti, la possibilità di dar vita ad un giudizio scandito in gradi, ognuno dei quali necessario ma non sufficiente per il risultato finale.

In piena coerenza con questo postulato, chi subisce da accusato un procedimento penale ha il diritto di non essere considerato colpevole fino a che il mosaico complessivo delineato dalla Costituzione non si compone per intero.

Sicchè, qualunque lettura che pretenda di anticipare a momenti processuali precedenti al giudicato l’affermazione della responsabilità, e ne tragga per di più spunto per l’irrogazione di sanzioni che presuppongono tale affermazione, viola palesemente la lettera e la ratio del principio di non colpevolezza.

Esposto questo primo ineludibile passaggio, già di per se stesso sufficiente a dimostrare l’erroneità del convincimento delle Sezioni unite, occorre adesso soffermarsi sulla natura dell’istituto della prescrizione e sul modo in cui si esso incrocia con il processo e il giudizio.

È nella consapevolezza pressochè unanime che la prescrizione appartiene all’ambito del diritto penale sostanziale e trova la sua ragion d’essere nell’esaurimento, una volta decorso un prefissato periodo di tempo, dell’interesse repressivo dello Stato riguardo ad un determinato fatto – reato.

L’effetto della prescrizione è chiaramente esplicitato nel primo comma dell’articolo 157 del codice penale e consiste nell’estinzione del reato.

La prescrizione, a differenza delle cause di estinzione della pena, rende quindi definitivamente impossibile l’emissione della sentenza di condanna, facendo mancare il suo necessario presupposto cioè l’esistenza giuridica di un reato.

Proprio per questa ragione ed ai sensi dell’articolo 129 del codice di procedura penale, una volta che sia verificata la causa estintiva, il giudice, in qualunque stato e grado del processo, è tenuto a riconoscerne d’ufficio l’esistenza con una sentenza dichiarativa.

L’unica possibilità alternativa a questo epilogo è la sentenza di assoluzione o non luogo a procedere se gli atti processuali già disponibili rendono evidente la ricorrenza di una  ragione assolutoria di merito.

Lo stesso obbligo è posto a carico del giudice dall’articolo 531 del codice di procedura penale, per di più esteso anche ai casi in cui vi sia il semplice dubbio dell’esistenza di una causa di estinzione.

È una regolamentazione chiara che è il frutto di un’altrettanto chiara volontà legislativa, realizzatrice di una finalità di indubbia ragionevolezza, tra l’altro fortemente collegata al principio costituzionale del finalismo rieducativo della pena.

Emerge anche per questa via la vistosa forzatura logica in cui sono incorse le Sezioni unite.

In altri termini: collegare, anche in presenza di un epilogo prescrittivo, l’accertamento definitivo della responsabilità all’emissione di una sentenza di condanna non smentita da successive pronunce assolutorie, è come dimenticare che la prescrizione funziona esattamente nel senso di porre nel nulla accertamenti di merito già compiuti ed impedire analoghi accertamenti futuri.

Non si tratta dunque di un’anodina formula terminativa del giudizio e non può essere affatto utilizzata come conferma della pronuncia di condanna.

La prescrizione determina al contrario una sorta di cessazione della materia del contendere, conseguente ad un’esplicita rinuncia statale alla pretesa punitiva, che nessun giudice può ignorare a pena di farsi indebitamente legislatore.

Ci sono infine tre ultimi rilievi da formulare.

Il primo: la possibilità di far luogo alla confisca anche in caso di prescrizione poggia, secondo il ragionamento delle Sezioni unite, sulla disponibilità di un accertamento di responsabilità il quale a sua volta presuppone una cognizione piena del merito.

Questa eventualità è chiaramente impossibile nelle situazioni regolate dall’articolo 129 del codice di procedura penale il quale, non a caso, titola “Obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità”. Il giudice che si confronti con evenienze del genere non può e non deve quindi compiere alcun accertamento di merito.

Potrebbe tuttavia capitare che la prescrizione si maturi dopo il primo grado di giudizio, ad esempio in appello, quando cioè una prima delibazione di condanna nel merito è già disponibile.

È evidente che in un caso del genere, e sempre che non vi sia stata espressa e preventiva rinuncia alla prescrizione, il giudice dell’impugnazione non potrebbe che prendere atto della causa estintiva e dichiararla.

Si cristallizzerebbe in tal modo la valutazione del merito contestata con l’impugnazione senza che le contestazioni possano dipanarsi e, in ipotesi,  produrre effetti positivi a favore dell’appellante.

Dunque, prescrizione in entrambi i casi ma, secondo le Sezioni unite, confisca possibile solo nel secondo. E non per una qualche apprezzabile ragione ma solo per un accidente legato al momento processuale in cui matura la prescrizione. Sarebbe ragionevole questa diseguaglianza o violerebbe l’articolo 3 comma 1° Cost.?

Il secondo rilievo: le Sezioni unite hanno introdotto un concetto, quello di “condanna sostanziale”, sconosciuto alla legge ed alla nostra civiltà giuridica e lo hanno usato in malam partem. È possibile questo, è consentito alla luce dei principi costituzionali e generali dell’ordinamento che sono stati illustrati in precedenza?

Il  terzo: le Sezioni unite, pur così attente alle ramificazioni degli ordinamenti sovranazionali nella materia trattata, sembrano non avere tenuto in considerazione la Direttiva 2014/42/UE emessa dal Parlamento europeo e dal Consiglio.

Il provvedimento è stato assunto sulla base degli articoli 82 § 2 e 83 § 1 TFUE i quali legittimano il Parlamento e il Consiglio ad istituire norme finalizzate ad agevolare la cooperazione penale o reprimere reati transnazionali di elevata gravità.

I primi articoli sono destinati alla definizione degli istituti. La confisca, contemplata nell’articolo 2 comma 1 - 4, è definita come una “privazione definitiva di un bene ordinata da un’autorità giudiziaria ad relazione ad un reato” e si applica a tutti i reati previsti dall’articolo 3 o, in assenza di altri strumenti giuridici di attuazione, a tutti i reati puniti con una pena il cui massimo edittale sia non inferiore a quattro anni.

Entro il 4 ottobre 2016 gli Stati membri dell’UE, ai sensi dell’articolo 4 comma 1, sono tenuti ad adottare le misure necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale, di beni strumentali e proventi da reato, o di beni di valore corrispondente a detti beni strumentali o proventi, in base a una condanna penale definitiva, che può anche essere pronunciata a seguito di un procedimento in contumacia”.

Il provvedimento brevemente commentato è una direttiva e pone quindi a carico degli Stati membri un’obbligazione di risultato senza tuttavia essere direttamente applicabile nei loro ordinamenti.

Tuttavia, si tratta pur sempre di un atto che dovrà essere presto tradotto in norme nazionali ed è difficile immaginare che tale traduzione avverrà prescindendo dal requisito della condanna penale definitiva o attribuendogli un significato sostanziale e non formale.

Per di più, la direttiva 42 risale al 3 aprile 2014 ed era dunque ben nota quando le Sezioni unite vararono il principio che si sta commentando senza darle il minimo rilievo.

In conclusione, una pronuncia sicuramente innovativa ma di questo “nuovo che avanza” si sarebbe volentieri fatto a meno.

Conclusione

La lettura di questo scritto potrebbe far pensare che esso abbia fini esclusivamente demolitori, che sia servito cioè ad esprimere una posizione di critica preconcetta, ingiustificata e ingenerosa verso l’opera dei giudici di legittimità.

In realtà questo non è vero o forse è meglio dire che è vero solo in parte e con varie puntualizzazioni.

Non si può essere disinteressati e neutrali verso le prospettive che i massimi interpreti giuridici nazionali indicano quotidianamente con le loro sentenze, tutt’altro.

Non li si vuole certo schiavi del legislatore, arroccati a difesa di vecchi e non più proponibili equilibri di potere e antichi costumi, isolati dalla comunità quasi fossero sommi sacerdoti che nel contatto con la gente comune perderebbero la loro purezza, insensibili ai nuovi bisogni collettivi e individuali.

Ma si pretende qualcosa da loro, che questa partecipazione al sentire comune sia filtrata dalla razionalità e illuminata dai valori essenziali della nostra Costituzione e delle altre fonti sovranazionali, particolarmente quelle poste a presidio dei diritti umani e di libertà.

Al tempo stesso, si rivendica il diritto di usare il proprio intelletto anche in direzione critica, di non sottostare a nessuna parola d’ordine, di non credere aprioristicamente ad alcuno slogan, di essere laici in una società che si vorrebbe laica.

Sicchè, anche le sentenze della Corte di Cassazione possono e devono essere vagliate criticamente, non solo per mero interesse intellettuale e professionale ma soprattutto perché i loro effetti, presto o tardi, si fanno sentire nella vita quotidiana di ognuno.

Chiarita e giustificata in tal  modo la finalità di questo scritto, la valutazione conclusiva è che l’opera complessiva della giurisprudenza penale di legittimità stia progressivamente restringendo gli spazi delle libertà individuali e assecondando derive securitarie che contraddicono i valori essenziali che ogni giudice dovrebbe difendere.

Con intensità crescente, la nostra magistratura di vertice sta trasferendo sugli utenti gli effetti dell’inadeguatezza e dell’inefficienza dell’amministrazione della giustizia. Non solo scaricando su di loro oneri e responsabilità che sarebbero invece propri del giudice ma anche accentuando a dismisura, ben oltre il consentito, il distacco dal cuore dei temi processuali e riducendo drasticamente le occasioni di controllo effettivo sulla correttezza delle valutazioni contestate dai ricorrenti.

La funzione nomofilattica sta perdendo qualità e spessore dal momento che, sempre più spesso, decisioni importanti e su temi sensibili si distaccano immotivatamente da principi consolidati per inseguire prospettive più legate ad improvvisazioni concettuali che ad un’analisi effettiva e puntuale dei valori in campo.

Infine, la propensione dei nostri interpreti ad utilizzare le spinte provenienti dalle fonti e dalle giurisdizioni sovranazionali sembra il frutto non di una reale apertura a nuove sensibilità ma di un’esigenza tattica che porta ad utilizzare soltanto gli input che meglio assecondano le visioni interne del momento.

Il risultato è una giurisdizione di legittimità che in più casi opera all’insegna dell’autoreferenzialità, adotta tecniche difensive (facendo quello che ai medici si impone di non fare) rispetto alla crescente domanda di giustizia, minimizza consapevolmente il proprio ruolo critico verso le dinamiche processuali sulle quali deve pronunciarsi, salvo poi, qua e là, varare nuovi indirizzi che talvolta aumentano la confusione e l’incertezza anziché dissiparle.

La Corte di Cassazione, purtroppo, è sempre meno ciò che ostenta di essere nel preambolo della relazione del Massimario.

Un quadro piuttosto sconfortante e non c’è alcun piacere a sottolinearlo. Ma così appaiono le cose.

 

[1] Il testo virgolettato è tratto dalla relazione, disponibile sul web, di G. Conti sull’autosufficienza del ricorso nel giudizio penale in cassazione svolta nell’ambito di un corso tenuto il 14 giugno 2012.

[2] Il report sull’incontro è anch’esso disponibile sul web.

Esercitare liberamente il proprio ingegno,

ecco la vera felicità.

Aristotele, La politica

 

Premessa

Questo scritto analizza gli attuali orientamenti interpretativi della giurisprudenza di legittimità nel settore penale.

Ci interessavano le opinioni di dettaglio ma ancor più la visione generale di cui sono espressione, insomma il modo in cui gli artefici del cosiddetto diritto vivente guardano alle norme ed alla società per la quale sono state concepite.

Il nostro scopo finale era di comprendere in che modo i giudici cui spetta l’ultima parola sui processi considerano il proprio ruolo e qual è la parte che si assegnano nel sempre più complesso e movimentato equilibrio tra i poteri pubblici.

Abbiamo preso in considerazione gli stessi casi che la Cassazione ha ritenuto significativi, traendoli dalla Rassegna della giurisprudenza di legittimità per l’anno 2015 curata dall’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, disponibile sul sito web della Corte medesima.

Abbiamo privilegiato tuttavia, coerentemente allo scopo dello scritto, soltanto le pronunce e gli indirizzi di più elevato valore simbolico, in cui si può intravedere non solo un orientamento significativo ma anche una parte del mosaico complessivo attraverso il quale la nostra Corte suprema esprime il suo “manifesto ideologico”.

 

Come la Corte di Cassazione vede e presenta se stessa

La relazione del Massimario, ufficio esplicitamente definito “specchio” della Corte, è preceduta da una presentazione.

Il suo esame è utilissimo per la ricostruzione di quel manifesto ideologico di cui si diceva.

La nostra massima istanza giudiziaria si presenta come garante suprema dei diritti dell’imputato e del condannato e protagonista di primo piano dell’ordinamento giuridico perché le spetta “non solo di ridefinire attraverso l’interpretazione l’enunciato normativo nel contesto dell’applicazione, ma (…) di contribuire alla costruzione dell’ordine giuridico”.

Questo ruolo primario deriva da “una pluralità di fattori, tra cui il processo di costituzionalizzazione del diritto, dove il giudice penale si assume il compito di adeguare continuamente la legge ai principi costituzionali, il riconoscimento del ruolo che la Corte costituzionale assegna al “diritto vivente” della Corte di cassazione e, da ultimo, l’europeizzazione del diritto, con un giudice ordinario sempre più protagonista del dialogo tra le Corti europee”.

La Corte vede dunque in se stessa un presidio effettivo di legalità, un’efficiente trincea a difesa dei diritti umani essenziali coinvolti nel procedimento penale, un’istituzione pubblica la cui importanza è essenziale non solo nell’interpretazione del diritto ma anche, e con intensità crescente, nella sua creazione e nel suo adeguamento ai principi costituzionali e sovranazionali.

Tutto si può dire, allora, tranne che i giudici di legittimità non abbiano consapevolezza della delicatezza del proprio ruolo e della sua centralità negli equilibri di sistema.

Nei paragrafi che seguono si vedrà cosa quei giudici abbiano fatto seguire a tale consapevolezza.

 

I temi specifici

1) I reati colposi nell’attività medico - chirurgica

L’occasione di plurimi interventi dei giudici di legittimità è dovuta in questo caso alla Legge 189/2012, meglio nota come Legge Balduzzi.

Rileva in particolare il suo articolo 3 per il quale “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile”.

Nella relazione illustrativa alla nuova disposizione si legge che “L’articolo 3 mira a contenere il fenomeno della medicina difensiva (…) la norma si propone come obiettivo di determinare i casi di esclusione della responsabilità per i danni derivanti dall’esercizio della professione sanitaria; pertanto per gli esercenti le professioni sanitarie che abbiano svolto la prestazione professionale secondo linee guida e buone pratiche della comunità scientifica nazionale e internazionale, sarà esclusa la colpa lieve”.

Chiare sia la norma che la sua ratio ispiratrice.

È emerso tuttavia un consistente indirizzo interpretativo di legittimità, di cui sono esempi significativi Cassazione Sezione 4, 8 luglio 2014,  n. 2168/2015 e Cassazione Sezione 4, 22 aprile 2015, n. 24455, per il quale “la verifica della condotta del medico ai fini dell’esenzione da colpa non può essere limitata esclusivamente all’osservanza del parametro del pedissequo rispetto delle linee guida, che non possono fornire indicazioni di valore assoluto, non potendosi ritenere che l’adeguamento o il non adeguamento del medico alle medesime escluda o determini automaticamente la colpa”.

In sostanza, la prospettiva «di contrastare la cd. medicina difensiva mediante un indiscriminato ricorso al valore regolativo delle linee guida, non vale a legittimare la sottovalutazione dei non trascurabili rischi che, sul piano scientifico-culturale, si annidano in un’accentuata standardizzazione o “burocratizzazione” dell’attività medica […] Un’esasperata procedimentalizzazione dell’attività diagnostico-terapeutica, cioè, può fatalmente indurre una pericolosa deriva “legalistica” dell’attività medica, con erosione degli spazi di discrezionalità individuale ed effetti di deresponsabilizzazione. Una simile deriva “legalistica” deve ritenersi, tuttavia, scongiurata alla luce dei principi che proprio la giurisprudenza di legittimità, anche da ultimo, ha ribadito con riguardo alle forme attraverso le quali il giudice di merito è chiamato a costruire i propri modelli di imputazione soggettiva del fatto, ossia muovendo dal confronto “critico” del parametro scientifico fornito dalle linee guida con le specificità del caso clinico, le singolarità della vicenda concreta, l’anamnesi o la storia clinica del paziente ed i motivi di originalità e irripetibilità che, con riguardo a ciascuna vicenda esistenziale esaminata, esigono dal singolo professionista piena considerazione e ineludibile rispetto».

La libertà nelle scelte terapeutiche del medico, cioè, è per la Corte «un valore che non può essere a nessun livello compromesso, pena la degradazione del sanitario a livello di semplice burocrate, con gravi rischi per la salute di tutti. L’idea da sostenere è quella secondo cui il presupposto per il contenimento della risposta sanzionatoria, sul piano penale, si giustifica non già per effetto dell’astratta conformità del comportamento medico a una regola positivizzata, bensì in ragione dell’adeguamento della condotta del medico ai parametri della più elevata qualificazione sul piano scientifico».

Non condividiamo affatto queste considerazioni, anzitutto perchè fondate su un’erronea nozione del concetto di linee guida.

La Suprema Corte gli assegna infatti un valore relativo sul presupposto di una necessaria autonomia tra il protocollo sanitario propriamente inteso e “le specificità del caso clinico, le singolarità della vicenda concreta, l’anamnesi o la storia clinica del paziente”.

Le cose non stanno così.

Il manuale metodologico del Sistema nazionale delle linee guida, organismo dell’Istituto superiore di sanità, definisce questi strumenti: “raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni di esperti, con lo scopo di aiutare i medici e i pazienti a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche … Le linee guida nascono quindi per rispondere a un obiettivo fondamentale: assicurare il massimo grado di appropriatezza degli interventi, riducendo al minimo quella parte di variabilità nelle decisioni cliniche che è legata alla carenza di conoscenze e alla soggettività nella definizione delle strategie assistenziali”.

Dunque, contrariamente all’opinione della Corte di Cassazione, le linee guida non sono protocolli astratti ma contengono, al contrario, indicazioni valide anche per situazioni cliniche specifiche e si rivolgono non solo ai medici ma anche ai pazienti così che possano partecipare consapevolmente alle decisioni terapeutiche che li riguardano.

Di più: le linee guida hanno nella completezza la loro ragion d’essere, nel senso che il loro scopo è di ridurre se non addirittura eliminare ogni margine di variabilità e soggettività, individuando in questo la migliore garanzia per il buon esito delle decisioni mediche. Esattamente il contrario dell’assunto della Cassazione che vede invece nella personalizzazione della cura un valore e un dovere.

E allora il problema non sta, come ritengono i giudici di legittimità, nella relatività (e quindi nella non decisività) del parametro dell’ottemperanza delle linee guida nell’attività medica; è invece decisivo se un protocollo medico sia o non sia una linea guida, cioè contenga oppure no tutte le indicazioni necessarie ad orientare in modo completo il sanitario che si trovi ad affrontare un determinato caso clinico.

L’indirizzo ermeneutico in esame presta poi il fianco a un’ulteriore critica.

Nell’opinione della Corte, come si è visto, “L’idea da sostenere è quella secondo cui il presupposto per il contenimento della risposta sanzionatoria, sul piano penale, si giustifica (…) in ragione dell’adeguamento della condotta del medico ai parametri della più elevata qualificazione sul piano scientifico”.

Un altro palese non senso logico: l’esonero dalla colpa lieve – si dice – può essere concesso solo al sanitario che abbia rispettato i parametri qualitativi più elevati; ma – ci chiediamo – su che basi si potrebbe contestare una colpa al medico che abbia operato ai massimi livelli della sua professione?

Con queste premesse, non ci pare azzardato sostenere che il modello di condotta professionale medica indicato dalla Suprema Corte è al tempo stesso inesatto e inesigibile.

Intanto però qualcosa è avvenuto ed è il sostanziale abbandono del modello legislativo.

La previsione dell’articolo 3 ha lo scopo esplicito di creare un margine di sicurezza e lo fa coincidere con la conformazione della condotta professionale alle linee guida.

Dal canto suo il giudice di legittimità mostra di non condividere questa impostazione e sceglie l’opzione di sostituirsi al legislatore mediante l’adozione di un parametro alternativo o quantomeno aggiuntivo.

È un’attività interpretativa o creativa? Di sicuro, l’indirizzo commentato ha trascurato sia il tenore letterale che la ratio legis della norma.

È un’interpretazione necessaria e costituzionalmente orientata nel senso che l’accoglimento senza filtri della prospettiva indicata dal legislatore avrebbe comportato una qualche violazione costituzionale? Non ci sembra: non dovrebbe venire in rilievo l’articolo 3 comma 1 della Costituzione poiché la distinzione operata dalla Legge Balduzzi ha una sua non trascurabile ragionevolezza; non risulta violato l’articolo 24 comma 1 della Costituzione dal momento che il parziale esonero da conseguenze penali disposto dal citato articolo 3 fa comunque salva la responsabilità ex articolo 2043 del codice civile; lo stesso può dirsi per l’articolo 32 comma 1 poiché la protezione accordata ai sanitari che si adeguano alle linee guida (e dunque, per definizione, operano in modo conforme agli standard accettati dalla comunità scientifica) non può essere plausibilmente considerata come un indebito lasciapassare per condotte lesive del diritto alla salute.

Ed allora, pensiamo di potere affermare che la Corte di Cassazione, varando l’indirizzo interpretativo qui commentato, abbia compiuto un’operazione che svuota indebitamente di significato una previsione normativa, per di più sulla base di presupposti fattuali e logici assai meno che stringenti.

2) Il concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso

Il punto di partenza è in questo caso costituito dall’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (di seguito CEDU) il quale sancisce il principio di irretroattività delle norme penali che istituiscono una nuova fattispecie incriminatrice o aggravano il trattamento sanzionatorio di fattispecie già esistenti.

La Corte europea dei diritti dell’uomo (di seguito Corte EDU), organo cui spetta in via esclusiva l’interpretazione delle norme CEDU, ha chiarito che la previsione dell’articolo 7 deve essere riferita non solo alle fonti legislative ma anche a quelle giurisprudenziali, vale a dire agli indirizzi interpretativi che, in quanto consolidati, si tramutano in diritto vivente.

In questo quadro si è inserita, con portata dirompente, la sentenza emessa il 14 aprile 2015 dalla Corte di Strasburgo nel procedimento Contrada c. Italia, tradottasi nella condanna del nostro Paese per violazione dell’articolo 7.

La vicenda concreta sottostante riguardava il caso di un alto dirigente di pubblica sicurezza condannato in via definitiva per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa in relazione a condotte tenute tra il 1979 ed il 1988.

La Corte EDU ha ritenuto, sulla base di una rassegna capillare degli indirizzi interpretativi nazionali, che solo a partire dalla pronuncia n. 16/1994 delle Sezioni unite penali nel procedimento Demitry si potesse considerare effettivamente e pacificamente ammessa nel nostro ordinamento la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa.

Coerentemente a questa premessa, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che nel periodo in cui si verificarono i fatti il reato contestato all’accusato non fosse sufficientemente chiaro e prevedibile, sicchè gli era impossibile avere consapevolezza dei rischi penali connessi alla propria condotta.

L’ovvia conclusione è stata che la condanna dell’interessato era avvenuta in violazione dell’articolo 7 CEDU.

La pronuncia della Corte EDU ha sollevato interrogativi nel dibattito giuridico interno, particolarmente sotto il profilo della praticabilità nel nostro ordinamento di soluzioni giurisdizionali il cui presupposto sia la sostanziale equiparazione tra fonti normative e fonti giurisprudenziali.

La relazione del Massimario segnala al riguardo la pronuncia n. 18288/2010 con cui le Sezioni unite hanno riconosciuto, in esplicita adesione al concetto di legalità messo a fuoco a Strasburgo, che un mutamento giurisprudenziale consolidato rende ammissibile la riproposizione di una richiesta di indulto in precedenza rigettata.

A dispetto di queste premesse, la reazione della giurisprudenza di legittimità alla sentenza Contrada ed alle sue implicazioni è stata di scarso entusiasmo o addirittura di aperta contestazione.

Questo umore è ben espresso dalla Cassazione Sezione 2, 21 aprile 2015, n. 34147 che ha rigettato per manifesta infondatezza una questione di legittimità costituzionale degli articoli 110 e 416 bis del codice penale per asserito contrasto con gli articoli 25 comma 2 e 117 della Costituzione (quest’ultimo in connessione all’articolo 7 CEDU).

I giudici di legittimità, chiamati a verificare l’impatto nella giurisdizione interna dei principi affermati nella sentenza Contrada, hanno esplicitamente dissentito dalla premessa della Corte EDU, secondo la quale il reato di concorso esterno si risolve in una creazione giurisprudenziale.

Si sono detti infatti convinti, rifacendosi all’opinione manifestata dalla Consulta nella sentenza n. 48/2015, che tale fattispecie incriminatrice è semplicemente il frutto dell’uso congiunto di una norma incriminatrice di parte speciale con la norma che regola il concorso di persone sicchè non è dato rilevare alcuna violazione del principio di legalità e, ancor prima, non ricorre un esempio di creazione giurisprudenziale.

Prendiamo atto di quest’opinione ma ricordiamo che nel punto n. 66 della sentenza della Corte EDU è testualmente affermato che: “non è oggetto di contestazione tra le parti il fatto che il concorso esterno in associazione di tipo mafioso costituisca un reato di origine giurisprudenziale”.

Si consideri che nei giudizi a Strasburgo l’Italia è rappresentata da un agente e due coagenti, posti alle dirette dipendenze del Governo.

La Corte di Cassazione ha dunque assunto una posizione antitetica rispetto a quella dell’unico organo costituzionale legittimato ad esprimere la volontà nazionale nel contenzioso dinanzi la Corte EDU.

Si evidenzia da ultimo, per completezza informativa, che il Contrada, dopo l’esito favorevole del ricorso a Strasburgo, si è rivolto al giudice interno, nella specie la Corte di Appello di Caltanissetta, chiedendo la revisione del processo.

Il giudice adito ha respinto la richiesta.

Questa, testualmente, è la premessa da cui è partita la Corte: “al di là […] delle suggestioni polemiche e delle esigenze di rafforzamento argomentativo che tali formulazioni possono esprimere, parlare di ‘inesistenza del reato’ e di ‘mera creazione giurisprudenziale’ del concorso esterno, per sintetizzare i contenuti della decisione della Corte EDU, costituisce se non un vero e proprio errore giuridico quantomeno una disinvolta forzatura tecnica”.

I giudici nisseni hanno quindi identificato un solo profilo valutabile ai fini della revisione e cioè “se Contrada all’epoca in cui attuava le condotte accertate a suo carico poteva conoscere dell’esistenza di tale reato. Ciò appare sufficiente perché nella medesima vicenda oggetto della sentenza della Corte EDU ad essa ci si conformi”.

La conclusione, negativa per l’interessato, è dipesa dalla constatazione che costui “per il suo particolare ruolo, non poteva certo avere bisogno di attendere le sezioni unite Demitry, visto che il c.d. maxiprocesso di Palermo […] celebrato nel corso degli anni ’80 del secolo scorso subito dopo l’introduzione della fattispecie di cui all’articolo 416 bis del codice penale, aveva affrontato la questione della configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa; e nei confronti di diversi imputati era stata elevata una tale contestazione anche sulla scorta delle indagini degli uffici di cui Contrada faceva parte”.

È prevedibile che questa decisione finirà al vaglio della Cassazione. Intanto però, in attesa della risposta della Suprema Corte, si osserva che una pronuncia della Corte EDU è stata sostanzialmente schernita nei suoi aspetti valutativi e posta nel nulla quanto ai suoi effetti concreti.

È rimasto quindi lettera morta l’obbligo sancito dall’articolo 46 § 1 CEDU, a norma del quale “le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti”.

3) Le intercettazioni

Le rassegne di giurisprudenza dedicano sempre un ampio spazio a questo tema.

Le intercettazioni sono da molto tempo uno strumento di impiego massivo nelle indagini e d’altro canto le continue innovazioni rese disponibili dalla scienza consentono un costante affinamento delle relative tecniche.

È quindi interessante comprendere se e in che modo la giurisprudenza di legittimità assecondi questo trend e se riesca comunque ad assicurare un adeguato equilibrio tra le esigenze di difesa sociale e le libertà individuali di rilievo costituzionale.

La relazione del Massimario evidenzia una piena consapevolezza del fatto che si tratta di un tema sensibile, tale da incidere in modo importante sulla qualità della tutela di diritti umani essenziali.

Viene citato opportunamente il monito contenuto nella sentenza n. 173/2009 della Corte costituzionale in cui si esprime preoccupazione per “un dilagante e preoccupante fenomeno di violazione della riservatezza, che deriva dalla incontrollata diffusione mediatica di dati e informazioni personali, sia provenienti da attività di raccolta e intercettazione legalmente autorizzate, sia … effettuate al di fuori dell’esercizio di ogni legittimo potere da pubblici ufficiali o da privati mossi da finalità diverse, che comunque non giustificano l’intrusione nella vita privata delle persone”.

Si esprime pieno apprezzamento per la giurisprudenza di legittimità la quale “per mezzo di diversi interventi anche delle Sezioni Unite, sta svolgendo un delicato compito, che è stato definito di “costruzione del sistema”, tratteggiando i contorni dell’istituto e fissandone i limiti di utilizzabilità. La Suprema Corte (Sez. un. 12 luglio 2007 n. 30347, Rv. 236754), al riguardo, ha chiarito che “la formidabile capacità intrusiva del mezzo di ricerca della prova nella sfera della segretezza e libertà delle comunicazioni costituzionalmente presidiata … non può tollerare deroghe, scorciatoie, pigrizie o, peggio, radicali omissioni ...”, precisando in una pronuncia del 2015 (Sez. VI, 26 maggio 2015 n. 27100), che le disposizioni che prevedono la possibilità di intercettare comunicazioni sono di stretta interpretazione, perché “la norma costituzionale pone … il fondamentale principio secondo il quale la libertà e la segretezza delle comunicazioni sono inviolabili, ammettendo una limitazione soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria e con le garanzie stabilite dalla legge”.

Nell’opinione del Massimario, dunque, la nostra giurisprudenza di legittimità si sta dimostrando adeguata a governare il fenomeno intercettivo, non permettendone derive illegittime o comunque contrarie ai nostri valori essenziali.

È un’affermazione rassicurante ma, proprio perché ha a che fare con valori così elevati e garanzie imprescindibili ai fini della qualità democratica della nostra società, è riteniamo di doverne verificare l’effettività.

3.a) La motivazione del provvedimento: il collegamento tra il reato da accertare e la persona intercettata

L’affermazione di partenza, assolutamente condivisibile, è che l’articolo 267 del codice di procedura penale, nella parte in cui richiede un rapporto tra il  requisito dei gravi indizi di reato e l’assoluta indispensabilità dello strumento intercettivo, assicura il rispetto dell’articolo 8 CEDU.

Il Massimario precisa a questo proposito che “Questa norma, invero, assicura il rispetto dell’articolo 8 CEDU: la Corte EDU ha affermato che la regolamentazione delle intercettazioni è compatibile con la preminenza del diritto necessaria in una società democratica solo se garantisce una protezione adeguata contro il pericolo di arbìtri lesivi della riservatezza, dovendo disciplinare, in tale prospettiva, in modo sufficientemente preciso, le categorie di persone assoggettabili al mezzo di ricerca della prova, la natura dei reati che vi possano dare luogo, l’indipendenza dell’organo deputato ad autorizzare lo strumento investigativo e le precauzioni da osservare per garantire la privacy degli interlocutori che siano casualmente attinti dalle captazioni senza aver alcun collegamento con l’oggetto delle indagini in corso (cfr. Corte EDU, Sez. II, 10 aprile 2007, Panarisi c. Italia; Corte EDU, Sez. IV, 10 febbraio 2009, Iordachi c. Moldavia)”.

Si cita, come esempio applicativo di questo complesso di principi, Cassazione Sezione 3, 2 dicembre 2014, n. 14954/2015, la quale ha richiesto “l’esistenza, in chiave altamente probabilistica di un fatto storico integrante una determinata ipotesi di reato, il cui accertamento imponga l’adozione del mezzo di ricerca della prova”. Solo così si può “prevenire il rischio di autorizzazione in bianco e di impedire che l’intercettazione da mezzo di ricerca della prova si trasformi in mezzo per la ricerca della notizia di reato”.

Al tempo stesso si afferma la necessità dell’indicazione del criterio di collegamento tra l’indagine in corso e l’intercettando da intendersi come obbligo motivazionale che incombe in maniera espressa e diretta sul giudice.

Ancora una volta espressioni ragionevoli e condivisibili.

E tuttavia proprio nella sentenza 14954/2015, quando si passa all’esame del fatto concreto, si precisa che il soggetto intercettato “è stato indicato nel decreto autorizzativo delle intercettazioni come cointeressato all’attività di spaccio”. Tutto qui, neanche una parola in più.

Questa indicazione, a giudizio del collegio, è senz’altro sufficiente, dovendosi escludere che il requisito dei gravi indizi di esistenza di reato abbia un connotato di tipo probatorio sicchè basta “un controllo penetrante circa l’esistenza delle esigenze investigative e la finalizzazione delle intercettazioni al relativo soddisfacimento; senza, quindi, alcun riferimento alla delibazione, nel merito, di una ipotesi accusatoria, che può ancora non avere trovato una sua consistenza. In una tale prospettiva, la motivazione del decreto non deve esprimere una valutazione sulla fondatezza dell'accusa, ma solo un vaglio di effettiva serietà del progetto investigativo”.

Si spende quindi un denso apparato argomentativo che pone precisi doveri motivazionali al giudice che autorizza l’intercettazione e lo si smentisce subito dopo svuotando il requisito dei gravi indizi, accontentandosi di una mera tautologia, priva di riscontri fattuali controllabili e, di fatto, proteggendo le esigenze delle indagini più dei diritti di chi subisce l’attività intercettiva.

3.b) Le proroghe delle intercettazioni

In questo paragrafo della relazione il Massimario ammette – e la cosa deve essere costata non poco – l’esistenza di una prassi tale per cui la motivazione dei decreti autorizzativi di proroghe dei periodi intercettivi è “notevolmente più sintetica rispetto a quella dell’autorizzazione” iniziale.

Riconosce anche che questa prassi è stata avallata dalla giurisprudenza di legittimità di cui è recente esempio la Cassazione Sezione IV, 19 marzo 2015 n. 16430, secondo la quale “la motivazione dei decreti di proroga può essere ispirata anche a criteri di minore specificità e può risolversi “nel dare atto della constatata plausibilità delle ragioni esposte nella richiesta del pubblico ministero”. In particolare, secondo questa decisione, per la protrazione delle intercettazioni non è necessario che emergano elementi nuovi. Il semplice contatto della persona intercettata con soggetti indagati, rispetto ai quali cioè erano già emersi indizi di colpevolezza, giustifica il permanere degli ascolti”.

Ci chiediamo, a fronte di questa opinione, dove siano andati a finire quei principi di civiltà giuridica così enfatizzati in premessa.

È chiaro infatti che la pronuncia citata consente motivazioni di mero rinvio all’informativa della PG allegata alla richiesta del PM. Un’interpretazione, questa, in palese contrasto con l’articolo 267 c.p.p. il quale invece, se inteso in modo costituzionalmente orientato, richiede che il provvedimento che autorizza la proroga debba motivare plausibilmente ed autonomamente la persistenza delle condizioni che legittimano la protrazione dell’intercettazione.

3.c) Il ruolo ed i poteri del GIP rispetto alla richiesta del PM

L’articolo 267 del codice di procedura penale delinea in termini di assoluta chiarezza la procedura da seguire allorchè il PM voglia utilizzare lo strumento intercettivo.

Viene in rilievo in particolare, per ciò che qui interessa, il terzo comma in cui si afferma che “il decreto del pubblico ministero che dispone l’intercettazione indica le modalità e la durata delle operazioni”.

Questa regola ha un suo chiaro antecedente logico: le intercettazioni sono un atto investigativo e la loro impostazione e gestione spetta fisiologicamente al responsabile della fase istruttoria, cioè il PM.

Il GIP ha invece una funzione di garanzia, gli spetta cioè di verificare che le richieste del PM soddisfino i requisiti di legge.

Dovrebbe derivarne logicamente che, se il GIP determina una durata del periodo intercettivo diversa da quella indicata dal PM, assume per ciò stesso ed impropriamente un ruolo di parte ed abbandona la sua veste di custode della legalità e di protettore dei diritti di coloro che subiscono gli effetti dell’atto istruttorio.

Dovrebbe, altrettanto logicamente, derivarne che un’autorizzazione del GIP congegnata in modo da consentire una durata delle operazioni di intercettazione superiore a quella indicata dal PM nella sua richiesta viola il disposto dell’articolo 267 e comporta l’inutilizzabilità delle captazioni ottenute per effetto di tale violazione.

Dovrebbe, appunto. Ma non è questa l’opinione del giudice di legittimità.

La Cassazione Sezione 6, 21 luglio 2015 n. 34809 afferma infatti che il decreto di autorizzazione del giudice non è vincolato dai limiti della richiesta del pubblico ministero. Nella fattispecie, in particolare, era stata dedotta la sussistenza di uno dei reati contenuti nel catalogo di cui all’articolo 266 cod. proc. pen. ed erano state richieste intercettazioni per la durata di soli quindici giorni. L’autorizzazione, invece, era stata concessa da giudice per quaranta giorni, essendo stata riferita a diversa ipotesi di reato che legittimava il ricorso all’articolo 13 della Legge n. 203 del 1991. La Suprema Corte ha ritenuto che il giudice per le indagini preliminari possa riqualificare la richiesta del pubblico ministero in presenza di sufficienti indizi di delitti di criminalità organizzata, sebbene essa faccia esclusivo riferimento alla disciplina dettata dagli articoli 266 e seguenti del codice di procedura penale e, comunque, al termine di quindici giorni.

Non si tratta, per la verità, di un indirizzo innovativo poiché in realtà un simile modo di intendere il ruolo del giudice controllore è affiorato già nel 2007.

Il punto è capire se sia coerente, in un modello processuale penale chiaramente fondato sulla separazione delle funzioni e ad ispirazione sostanzialmente accusatoria, affidare al giudice poteri di integrazione dell’iniziativa dell’organo di accusa in un ambito così spiccatamente istruttorio come è quello della  ricerca dei mezzi di prova.

Può in altri termini il  GIP affiancarsi o addirittura sostituirsi al PM nella definizione dei presupposti legittimanti la richiesta intercettiva? Può interpretare due distinti ruoli in una sequenza procedimentale che pone al primo posto la tutela dei valori costituzionali potenzialmente in conflitto con le intercettazioni?

La risposta affermativa a queste domande data dalla Corte di Cassazione è conciliabile con le solenni affermazioni di principio fatte dagli stessi giudici di legittimità allorchè, con la sentenza 27100/2015, hanno chiarito che “le disposizioni che prevedono la possibilità di intercettare comunicazioni sono di stretta interpretazione”?

Ci sembra proprio di no, a pena di dar vita, richiamando ancora una volta le parole di quella sentenza, ad un sistema caratterizzato da “deroghe, scorciatoie, pigrizie o, peggio, radicali omissioni”.

3.d) Utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quello in cui sono state disposte

La norma di riferimento, precisamente l’articolo 270 comma 1 del codice di procedura penale, è anch’essa molto chiara: “I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”.

La realtà è tuttavia sempre più complessa delle semplificazioni legislative e pone all’interprete una casistica assai varia sulla quale sperimentare le proprie opinioni.

Il primo caso ricorre quando un’attività intercettiva disposta per reati compresi tra quelli che legittimano questo strumento di ricerca della prova faccia emergere tracce di un reato escluso da tale elenco.

L’orientamento unanime di legittimità è nel senso che anche per questa parte le intercettazioni siano utilizzabili, dovendo essere assicurata una “valutazione unitaria, coerente e complessiva del materiale probatorio acquisito legittimamente al processo”.

Un’altra eventualità è che il procedimento in cui sono state disposte le intercettazioni, inizialmente unitario, venga frazionato in più procedimenti distinti. Ugualmente le intercettazioni, a giudizio pressochè unanime dei giudici di legittimità, sono liberamente esportabili.

Ancora meglio: il procedimento rimane unico e non si pone proprio la questione dell’utilizzabilità se, pur in presenza di elementi formali che suggeriscano una diversità (come, ad esempio, l’attribuzione di un numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato diverso da quello originario), vi sia identità della notizia di reato che ha costituito l’input del procedimento. L’effetto di questa opinione è che il disposto ed i limiti dell’articolo 270 del codice di procedura penale si applicano solo se i risultati delle intercettazioni debbano transitare tra procedimenti distinti fin dall’origine.

Un’ulteriore questione si è posta attorno al requisito dell’indispensabilità per l’accertamento del reato contestato nel procedimento ad quem.

Nella visione della Cassazione Sezione 2, 18 febbraio 2015, n. 12625, l’indispensabilità può riguardare qualsiasi elemento dell’imputazione e ricorre anche quando le captazioni servano solamente come riscontri per il rafforzamento di dichiarazioni accusatorie.

Non solo: secondo la Sezione III, 29 gennaio 2015 n. 12536, non è neanche necessario che dalla conversazione intercettata emerga immediatamente l’esatta qualificazione giuridica del delitto “diverso” per il quale è obbligatorio l’arresto in flagranza. Le informazioni raccolte tramite le attività di captazione legittimamente disposte in un determinato procedimento, infatti, possono essere comunque utilizzate come “fonti” da cui eventualmente desumere una successiva notitia criminis. In altri termini, qualora emerga un delitto per il quale l’arresto in flagranza non è obbligatorio, dai risultati delle intercettazioni legittimamente disposte possono essere desunte notizie di reato.

Ognuno giudichi da sé ma non si direbbe che questi indirizzi abbiano valorizzato la regola dell’articolo 270.

3.e) La necessità della previa determinazione del luogo nelle intercettazioni ambientali (rectius, tra presenti)

La questione di gran lunga più interessante è in questo caso costituita dall’uso dei virus informatici (o agenti intrusori, come sono più garbatamente definiti nel linguaggio di legittimità) per scopi intercettivi.

Se ne è occupata la Cassazione Sezione 6, 26 maggio 2015, n. 27100 la quale ha ritenuto corretto distinguere le due modalità tecniche che si accompagnano a questo nuovo strumento: l’attivazione da postazione remota del microfono del dispositivo intercettato e l’attivazione della sua telecamera.

Nel primo caso si è ravvisata una forma di intercettazione di conversazioni tra presenti, ammissibile (secondo un’interpretazione rispettosa dell’articolo 15 della Costituzione) solo se preceduta dall’indicazione preventiva dei luoghi di captazione. L’attivazione del microfono consente infatti l’ascolto di conversazioni quale che sia il luogo in cui si trova il detentore del dispositivo e questo solo fatto viola non solo la normativa ordinaria ma anche il citato precetto costituzionale.

Se invece viene attivata la videocamera, le riprese ottenute sono assimilabili ai documenti ex articolo 234 del codice di procedura penale ma non possono comunque essere utilizzate quelle relative a luoghi di privata dimora ovvero quelle relative a luoghi che richiedono una tutela della riservatezza.

Sembra a tutti gli effetti un principio condivisibile ma, a distanza di poco tempo, un diverso collegio della stessa sezione si è discostato sensibilmente dal percorso argomentativo della sentenza 27100 e, ravvisando un conflitto interpretativo, ha trasmesso gli atti al Presidente della Corte di Cassazione per la devoluzione della questione alle Sezioni unite. Queste ultime si sono pronunciate di recente e hanno chiarito che l’uso degli agenti intrusori per fini intercettivi è legittimo senza previa determinazione dei luoghi nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata.

3.f) L’inutilizzabilità di captazioni ottenute mediante intercettazioni disposte in violazione di legge: la rilevabilità del vizio e i suoi effetti

Le garanzie costituzionali che sovrintendono alle intercettazioni sarebbero prive di effettività se la legge ordinaria non prevedesse un adeguato sistema sanzionatorio ogni qualvolta l’attività intercettiva sia stata disposta e svolta concretamente in modo illegittimo.

È questo il senso delle regole contenute nell’articolo 271 del codice di procedura penale che sanzionano con l’inutilizzabilità i risultati delle intercettazioni eseguite fuori dei casi consentiti o comunque ottenute in violazione della procedura delineata negli articoli 267 e 268.

A ulteriore presidio dell’effettività della sanzione, lo stesso articolo 271 pone a carico del giudice, in ogni stato e grado del processo, l’obbligo di ordinare la distruzione delle intercettazioni inutilizzabili.

Obbligo che trova ulteriore forza e significati nell’articolo 191 c.p.p. il quale ribadisce la rilevabilità d’ufficio dell’inutilizzabilità in ogni stato e grado del procedimento e priva di effetto le prove cui sia connessa tale sanzione.

La relazione del Massimario si sofferma in particolare sulla questione della rilevabilità del vizio.

Il nodo del contendere è fino a quando la parte che vi ha interesse possa eccepire l’inutilizzabilità delle intercettazioni e quali siano i presupposti in presenza dei quali il giudice di legittimità può riconoscere il vizio, anche a prescindere da un’iniziativa di parte, e trarne gli effetti di legge.

Le pronunce analizzate danno conto dell’esistenza di un conflitto interpretativo.

La Cassazione Sezione III, 26 novembre 2014 n. 15828/2015 ha ritenuto che il vizio può essere dedotto dalle parti, per la prima volta, nel giudizio di cassazione e rilevato oltre il devolutum anche dal giudice di legittimità ai sensi dell’articolo 609, comma 2 del codice di procedura penale, perché l’inutilizzabilità è rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento a norma dell’articolo 191 del codice di procedura penale.

Decisione, questa, chiaramente in contrasto con la Cassazione Sezione 5, 1 ottobre 2008, n. 39042 che escludeva la deduzione per la prima volta con il ricorso per cassazione dell’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche o ambientali.

Il Massimario ha intravisto infine una possibile composizione del conflitto in Cassazione Sezione 3, 27 febbraio 2015, n. 32699 la quale ha precisato che l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni non può essere dedotta per la prima volta con il ricorso per cassazione, qualora l’eccezione si fondi su questioni di fatto mai dedotte in precedenza. La preclusione deriva dall’impossibilità di attribuire ai fatti storici posti a fondamento della questione un significato diverso da quello prescelto dal giudice di merito.

Questa pronuncia non rappresenta una novità nel senso che fa seguito ad altre, anche risalenti nel tempo, di uguale prospettiva.

Ci chiediamo però se un indirizzo del genere sia davvero in sintonia con il senso complessivo degli articoli 271 e 191 e se ne valorizzi adeguatamente la funzione di norme immediatamente applicative di un primario precetto costituzionale.

La risposta dipende non solo dalla pronuncia da ultimo citata ma anche dalle altre che le si affiancano, componendo una trama più complessiva.

Viene in mente anzitutto il principio della cosiddetta autosufficienza del ricorso per cassazione.

Si tratta, né più né meno, di un onere di esclusiva creazione giurisprudenziale, posto a carico del ricorrente e concepito in modo progressivamente più gravoso.

I giudici di legittimità si limitarono inizialmente a chiedere che i motivi di impugnazione fossero formulati in modo chiaro, specifico, completo e preciso.

Di seguito pretesero una precisa indicazione degli atti e verbali che contenevano i dati cui erano riferiti i motivi di contestazione.

L’ultima e più stringente versione pretende, per di più a pena di inammissibilità, la trascrizione integrale all’interno del ricorso degli atti processuali posti a fondamento dell’impugnativa.

Ciò perché - si afferma ad esempio in Cassazione Sezione 6, 11 dicembre 2012, n. 4845 - “Il giudice di legittimità non deve essere costretto alla “ricerca” di quegli atti che confermerebbero la tesi del ricorrente”.

La motivazione di questo atteggiamento rigoroso è assai chiara: la Corte di Cassazione è subissata da ricorsi e, nel tentativo di recuperare spazi di agibilità, impone un’indebita corvèe ai ricorrenti, ponendo a loro carico attività che fisiologicamente spetterebbero al giudice.

Eppure questa prassi non solo è chiaramente estranea ad ogni funzione di garanzia ma addirittura la contraddice poichè, introducendo una causa di inammissibilità non prevista dalla legge, nega a ricorsi perfettamente legittimi la chance di essere presi in considerazione ed eventualmente accolti.

Il che, se suona male in generale, suona anche peggio quando si tratta di ricorsi che rappresentano vizi rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento.

L’azione di regolamento di confini della Corte Suprema non finisce qui.

Le Sezioni unite, con la sentenza 16 luglio 2009, n. 39061, si sono premurate di chiarire che “Non compete alla Corte di Cassazione, in mancanza di specifiche deduzioni, verificare se esistano cause di inutilizzabilità o di invalidità di atti del procedimento che non appaiano manifeste, in quanto implichino la ricerca di evidenze processuali o di dati fattuali che è onere della parte interessata rappresentare adeguatamente”.

Se non è un De profundis, poco ci manca. La Corte si colloca in una posizione differente da quelli di tutti gli altri giudici del procedimento e, pur non negando esplicitamente di essere anch’essa tenuta a rilevare d’ufficio le inutilizzabilità, condiziona questo suo obbligo al previo compimento di significative attività del ricorrente. Elude quindi sostanzialmente il disposto dell’articolo 609 del codice di procedura penale che attribuisce al giudice di legittimità non solo la cognizione del procedimento nei limiti dei motivi proposti ma anche la decisione delle questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo. Addossa un peso indebito al ricorrente e, come se non bastasse, si scarica altrettanto indebitamente del proprio.

Serve sottolineare, prima di abbandonare la questione, che l’inammissibilità creata dalle pronunce citate non è in alcun modo giustificata dalla riforma dell’articolo 606 codice di procedura penale operata dalla Legge 46/2006. La novella ha riguardato infatti, per quanto qui interessa, solo il vizio della mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, chiarendo che esso va rilevato non solo quando risulti dal testo del provvedimento impugnato ma anche da altri atti processuali specificamente indicati nei motivi di gravame.

Questa riforma aveva una chiara funzione garantistica. In precedenza, infatti, al giudice di legittimità  era precluso l’accesso ad atti processuali diversi dalla decisione impugnata. Il che gli impediva perfino di verificare se prove decisive fossero state ignorate nella fase di merito.

Il legislatore del 2006 considerò che la regolamentazione allora vigente limitasse in modo grave e ingiustificato il soddisfacimento di primarie esigenze di giustizia e concesse più ampi margini di rappresentazione al ricorrente attraverso, appunto, la facoltà di indicare specificamente gli atti processuali significativi per la dimostrazione del vizio di motivazione.

Tutto ci si poteva attendere tranne che l’apertura garantista della Legge 46/2006 fosse usata per scopi esattamente opposti, cioè come un grimaldello per estendere il principio dell’autosufficienza del ricorso a fattispecie che nulla avevano a che fare col vizio di motivazione. Eppure è esattamente ciò che è avvenuto.

Quel principio è stato infatti progressivamente esteso anche ai vizi in procedendo sebbene la norma che li regola, cioè l’articolo 606 comma 1 lettera c) codice di procedura penale, non fosse stata interessata dalla riforma del 2006. Per di più, l’estensione fu motivata anche sul presupposto che l’autosufficienza, in quanto richiesta dall’articolo 360 n. 5 codice di procedura civile, fosse diventata una sorta di principio generale dell’ordinamento che si estendeva dunque oltre i confini della giurisdizione civile. Non si diede alcun peso, ovviamente, al fatto che il suddetto articolo 360 si riferisse ad un vizio motivazionale.

Si tratta dunque di prassi interpretative prive di un reale fondamento normativo e, come già si diceva, nate per esigenze che nulla hanno a che fare con l’interesse ad una soluzione di giustizia e molto hanno invece a che fare con un interesse di tipo apparentemente efficientistico – quello dei giudici di legittimità a non sentirsi soffocare da una mole esorbitante di ricorsi – che svuota di significato la funzione stessa del giudizio in Cassazione.

Tanto ciò è vero che autorevoli opinioni critiche verso questo modo di vedere si sono manifestate all’interno della stessa Corte Suprema.

Così si è espresso, ad esempio, il Consigliere Giovanni Conti[1]: “Si è già osservato che non si può invocare la nuova formulazione della lett. e) dell’articolo 606 a proposito degli errores in procedendo, dato che essi appartengono al distinto caso della lett. c). Vi è stato però di fatto nella giurisprudenza penale un trascinamento della tematica dell’autosufficienza del ricorso su questo tipo di vizio, influenzato dalla giurisprudenza civile, che aveva come punto di riferimento l’articolo 366, comma primo, n. 6, cod. proc. civ., riferibile ad ogni vizio deducibile ex articolo 360 (…) Si tratta però (…) di una linea giurisprudenziale priva di base normativa”.

Un’opinione altrettanto netta è stata espressa da Ernesto Lupo, presidente della Suprema Corte, in occasione di un incontro di formazione, focalizzato sugli epiloghi decisori del processo penale in Cassazione, avvenuto il 13 dicembre 2012[2]: “Quello di autosufficienza è un concetto che la giurisprudenza penale farebbe bene a non utilizzare”.

La rassegna non sarebbe completa se non si segnalasse l’indirizzo, talmente consolidato da non essere affatto menzionato nella relazione del Massimario, che nega in radice l’esistenza della cosiddetta inutilizzabilità derivata.

L’assunto è che l’inutilizzabilità per violazione di legge del risultato di un’intercettazione non impedisce che questo sia comunque utilizzato come input per ulteriori attività investigative, come ad esempio la richiesta di una nuova sequenza intercettiva.

L’argomentazione consueta è che, mentre l’articolo 185 codice di procedura penale rende nulli anche gli atti successivi e conseguenziali ad un atto nullo, una disposizione simile non è stata prevista per gli atti inutilizzabili.

Questa interpretazione, a dispetto del suo indiscusso consolidamento, pare il frutto di una grave incongruenza semantica prima che giuridica.

Inutilizzabile, secondo qualsiasi dizionario della lingua italiana, è ciò di cui non si può fare alcun utile uso. E già questo basterebbe a spiegare perché il legislatore non abbia ritenuto necessario introdurre anche per l’inutilizzabilità una norma come quella per le nullità.

Ma se questa considerazione non fosse ritenuta sufficiente, si può comunque contare sul disposto dell’ultimo comma dell’articolo codice di procedura penale laddove si prevede, come atto dovuto e non meramente discrezionale, la distruzione della documentazione delle intercettazioni inutilizzabili.

Si badi bene, non solo l’eliminazione dei brogliacci o delle trascrizioni dal materiale procedimentale, ma la distruzione fisica della documentazione, cioè le registrazioni ed i relativi verbali.

Semmai ce ne fosse bisogno, un’autorevolissima conferma di quanto si afferma è stata data dalla sentenza n. 1/2013 con cui la Corte costituzionale ha deciso un conflitto di attribuzione promosso dal Presidente della Repubblica nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo.

Si ricorderà che l’oggetto del contendere era un’attività intercettiva nel corso della quale erano state captate casualmente conversazioni intrattenute dal Capo dello Stato.

L’iter argomentativo utilizzato dalla Consulta può essere così sintetizzato:

  • è intangibile la riservatezza della sfera delle comunicazioni presidenziali;
  • è per ciò stesso inutilizzabile qualunque captazione che abbia ad oggetto tali comunicazioni;
  • è quindi dovere ineludibile dell’autorità giudiziaria competente distruggere quelle captazioni;
  • lo strumento processuale idoneo a questo fine non è quello regolato dagli articoli 268 e 269 codice di procedura penale fondato sulla cosiddetta udienza stralcio; ciò per due motivi: il primo è che tale udienza è strutturalmente destinata alla selezione dei colloqui ritenuti rilevanti dalle parti e non regola, in virtù dell’espressa clausola di esclusione prevista dall’articolo 269 comma 2, il caso delle intercettazioni di cui sia vietata l’utilizzazione; il secondo è che l’adozione della citata udienza implicherebbe di per se stessa un ulteriore vulnus alla riservatezza delle comunicazioni presidenziali estendendo la loro conoscenza a tutte le parti del procedimento;
  • lo strumento adatto è invece quello indicato dall’articolo 271 comma 3 codice di procedura penale il quale dispone la distruzione delle intercettazioni eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge;
  • la distruzione deve essere compiuta sotto il controllo del giudice essendo inammissibile che a tale compito proceda unilateralmente il PM.

Siamo ben consapevoli che varie proposizioni della sentenza della Corte costituzionale sono riferibili esclusivamente al Capo dello Stato e alle eccezionali prerogative che si accompagnano al suo ruolo ed alle sue funzioni.

Tuttavia, l’apparato motivazionale contiene una parte non trascurabile che può essere senz’altro trasferita a tutti i casi in cui un’intercettazione risulti inutilizzabile per violazione di legge.

Quando ciò avviene, dice la Corte, l’unico rimedio praticabile è la distruzione ad opera del giudice in attuazione del disposto dell’articolo 271 comma 3. Ciò perché l’eliminazione fisica della documentazione dell’attività intercettiva illegittima è l’unico modo di preservare l’ordine giuridico violato ed impedire ulteriori lesioni alla sfera della riservatezza delle comunicazioni, bene che è attribuito non solo al Presidente della Repubblica a presidio delle sue elevatissime funzioni ma anche a ciascuno dei consociati dall’articolo 15 della Costituzione.

La teoria fondata sull’inesistenza dell’inutilizzabilità derivata e sulla conseguente asserita liceità dell’uso, quantomeno per fini diversi da quelli direttamente probatori, di captazioni ottenute contra legem finisce dunque per negare rilievo e tutela ad un precetto primario del nostro ordinamento che non si fatica a comprendere tra i valori essenziali del nostro Stato.

Non è un caso che le molte pronunce di legittimità che hanno concepito e radicato l’indirizzo che qui si contesta non amino confrontarsi col disposto dell’articolo 271 comma 3 codice di procedura penale né con la differente ratio del relativo istituto rispetto a quella che anima la previsione dell’udienza stralcio.

Eppure sia la lettera che la ratio della norma erano chiarissime fin dalle affermazioni contenute nella Relazione al progetto preliminare al vigente codice processuale penale la quale così recitava: “Per le intercettazioni illegittime è stata mantenuta, nell’articolo 271, l’inutilizzabilità a qualsiasi fine, accompagnata dalla distruzione della relativa documentazione”.

Ciò che rimane allora è la negazione di doveri funzionali, la disapplicazione di norme, l’adozione di criteri interpretativi “costituzionalmente disorientati”, l’avallo di prassi investigative che tradiscono la Costituzione e le leggi che ne sono diretta attuazione.

3.g) Altre questioni di dettaglio in materia di intercettazioni

L’articolo 203 codice di procedura penale vieta l’acquisizione e l’uso di informazioni fornite dagli informatori della p.g. se costoro non vengono sentiti come testimoni.

Non la pensa così, tuttavia, la Cassazione Sezione 2, 20 ottobre 2015, n. 42763, Russo) secondo la quale, una volta ottenuta una captazione derivante da un’intercettazione disposta nei confronti di soggetti individuati sulla base di fonti confidenziali, la medesima è inutilizzabile solo se le informazioni confidenziali abbiano costituito l’unico elemento da cui è stata desunta la sussistenza degli indizi di reato. La sentenza ha precisato inoltre che la fonte confidenziale, invece, può senz’altro essere usata per individuare la persona fisica da sottoporre a intercettazione.

E ancora, se il difensore chiede l’accesso, prima del loro deposito ai sensi dell’articolo 268, comma 4, codice di procedura penale, alle registrazioni di conversazioni intercettate, sommariamente trascritte dalla polizia giudiziaria nei cosiddetti brogliacci di ascolto, utilizzati ai fini dell'adozione di un’ordinanza di custodia cautelare, peraltro, il PM ha l’obbligo di provvedere, secondo la Cassione Sez. 4, 28 maggio 2015 n. 24866, solo quando il difensore specifica che l’accesso è finalizzato alla presentazione di un’istanza di riesame.

4) La legge n. 47 del 15 aprile 2015 e i suoi effetti sulle norme in materia cautelare

L’intervento legislativo in esame ha introdotto una serie di modifiche esplicitamente finalizzate ad un restringimento della misura carceraria e, più in generale, ad un uso più avveduto del potere cautelare.

4.a) L’attualità del pericolo

La legge 47 si è specificamente occupata delle esigenze cautelari del pericolo di fuga e della reiterazione della condotta criminosa.

La novità sta nel fatto che entrambe le esigenze devono essere collegate ad un pericolo non solo concreto ma anche attuale il quale non può essere desunto dalla gravità della fattispecie incriminatrice contestata e, limitatamente alla reiterazione della condotta criminosa, neanche dalla personalità dell’accusato.

Varie pronunce, e tra queste Cassazione Sez. 4, 18 giugno 2015, n. 28153, hanno escluso, tanto per cominciare, che questa caratterizzazione del pericolo sia una reale novità, osservando che anche la precedente normativa assumeva come presupposto implicito il requisito dell’attualità.

Vero. E tuttavia è ugualmente vero che questo veniva spesso desunto “dalla molteplicità dei fatti contestati, in quanto la stessa, considerata alla luce delle modalità della condotta concretamente tenuta, può essere indice sintomatico di una personalità proclive al delitto, indipendentemente dall'attualità di detta condotta e quindi anche nel caso in cui essa sia risalente nel tempo” (si veda, tra le altre,  Cassazione Sezione 3, 17 dicembre 2013, n. 3661/2014).

L’orientamento in esame non ha risentito della modifica normativa tanto che, ad esempio, Cassazione Sezione 5, 5 novembre 2015, n. 46442 afferma che la motivazione in ordine all’attualità e concretezza del pericolo di recidiva può basarsi “non solo sull'intrinseco disvalore del fatto, ma altresì su un'accertata e immanente proclività al delitto del soggetto attivo (ravvisata, nella specie, sulla base delle modalità particolarmente riprovevoli della sua condotta e della peculiare posizione fiduciaria rivestita rispetto alle persone offese), pur laddove il fatto contestato sia risalente nel tempo e indipendentemente dal fatto che il soggetto attivo non risulti aver posto in essere ulteriori condotte criminose”.

4.b) Gravità del titolo di reato

Su questo specifico aspetto si è formato uno specifico indirizzo interpretativo secondo il quale il divieto di trarre conclusioni negative dalla gravità del titolo di reato non impedisce che le medesime conclusioni siano invece tratte dalla gravità concreta del fatto contestato (tra le altre, Cassazione Sezione 2, 20 ottobre 2015, n. 42746).

Altre pronunce (come, ad esempio, Cassazione Sezione 2, 20 ottobre 2015, n. 45512) si sono assunte tuttavia il compito di ricordare che la nuova formulazione dell’articolo274 “lascia chiaramente intendere la necessità di superare l’indirizzo interpretativo” favorevole alla valutazione della personalità sulla scorta delle modalità e della gravità del reato.

4.c) Le nuove disposizioni in tema di scelta della misura cautelare

Il nuovo testo dell’articolo 275 comma 2 bis del codice di procedura penale, quale riformato dalla Legge 117/2014, vieta il ricorso alla custodia cautelare carceraria quando il giudice ritiene che il  giudizio si concluderà con l’irrogazione di una pena detentiva non superiore a tre anni.

Varie decisioni, e tra queste Cassazione Sezione I, 1 ottobre 2015, n. 40887, hanno riconosciuto senza mezzi termini che la novella “ha introdotto un espresso «divieto» di applicazione della custodia in carcere” in presenza del requisito richiamato.

Il logico corollario è che il giudice ha l’onere di formulare un giudizio prognostico sul quantum di pena irrogabile in caso di condanna.

Non sono mancate tuttavia voci dissonanti. In particolare la Cassazione Sezione 3, 27 febbraio 2015, n. 32702 ha osservato che “nonostante i limiti e le preclusioni previste dall'articolo 275, comma 2 bis, secondo paragrafo, la misura della custodia cautelare in carcere può essere applicata quando il giudice ritenga possibile una condanna a pena uguale o inferiore a tre anni di reclusione e contestualmente reputi inutile, sul piano cautelare, ogni altra misura meno afflittiva (tanto varrebbe, allora, non applicare affatto alcuna misura cautelare)”.

Difficile non cogliere in questa pronuncia un tono indispettito, quasi che la riforma, per il solo fatto di avere introdotto un limite al potere cautelare, non solo abbia indebolito irragionevolmente le esigenze di difesa sociale ma abbia anche fatto un torto personale al detentore di quel potere.

Un’ulteriore questione è quella legata all’uso del cosiddetto braccialetto elettronico, in ordine al quale la Legge 47/2015 ha posto, attraverso l’inserimento del comma 3 bis nell’articolo 275 del codice di procedura penale, un onere motivazionale a carico del giudice che è tenuto a spiegare le ragioni per le quali sceglie la misura carceraria e non ritiene adeguato il regime degli arresti domiciliari con il predetto braccialetto.

La discussione si è incentrata sugli effetti dell’eventuale indisponibilità degli strumenti elettronici.

Il dibattito ha registrato la divisione tra chi ritiene che in tal caso sia legittimo ricorrere alla misura carceraria, ad esempio Cassazione Sezione 2, 19 giugno 2015, n. 28115, e chi invece, come ha fatto la Cassazione Sezione 1, 10 settembre 2015, n. 39529, pensa che sia iniquo che chi subisce la limitazione della sua libertà personale paghi anche il prezzo delle difficoltà tecniche o amministrative connesse al controllo elettronico. La conclusione è che, secondo questo indirizzo, in casi del genere si applica ugualmente il regime degli arresti domiciliari ed il controllo è affidato ai mezzi tradizionali.

4.d) Le nuove disposizioni in tema di motivazione dell’ordinanza cautelare

La legge 47, evidentemente sulla scorta dell’osservazione di un trend tanto consolidato quanto negativo, ha inteso evitare che l’uso del potere cautelare sia giustificato da impianti motivazionali sostanzialmente tarati sulle argomentazioni del PM (ed eventualmente, ancora più a ritroso, della PG).

Il giudice è quindi tenuto ad una valutazione autonoma di tutti gli elementi rilevanti e cioè: gravità indiziaria, argomentazioni difensive, esigenze cautelari, scelta della misura più adeguata.

Corrispondentemente, il tribunale dei riesame è tenuto ad annullare il provvedimento impugnato se la motivazione manca o è priva di quell’autonoma valutazione.

Come d’abitudine, sono fiorite numerose pronunce che si sono affrettate a rilevare che le novità normative non hanno aggiunto nulla sul piano sostanziale poiché anche in precedenza la scure della nullità colpiva le motivazioni che, pur formalmente complete, si traducessero in un’adesione acritica alla prospettiva accusatoria (ad esempio, Cassazione Sezione 6, 1 ottobre 2015, n. 44607).

Nondimeno, in modo piuttosto contraddittorio, è stata espressamente ribadita la legittimità della motivazione per relationem sempre, che, si capisce, il giudice abbia dato prova di conoscere adeguatamente l’atto cui si è riferito ma anche di averlo soppesato con attenzione (Cassazione Sezione Feriale, 12 agosto 2015, n. 34858).

5) La confisca in sede penale  

La pronuncia più significativa è senz’altro Sezioni unite, 26 giugno 2015, n. 31617.

Prima di dare conto delle conclusioni cui è giunto l’organo nomofilattico, si impone un esame preliminare dei principi affermati dalla giurisprudenza della Corte EDU.

L’occasione del suo intervento è riferita all’articolo 44 comma 2 del Decreto del Presidente della Repubblica 380/2001 il quale, una volta accertata con sentenza definitiva l’esistenza di una lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere che vi sono state abusivamente costruite.

La giurisprudenza nazionale ha costantemente interpretato la norma nel senso che la confisca potesse essere disposta anche senza una condanna. Per due ragioni essenziali: si riteneva sufficiente l’accertamento dell’effettività della lottizzazione a prescindere dall’affermazione di responsabilità penale (quindi anche nel caso di proscioglimento o assoluzione); la confisca era una sanzione amministrativa e non penale.

Questa visione è stata messa in crisi dalla differente opinione della Corte di Strasburgo.

Attenti come sono più ai profili sostanziali che a quelli formali, e non tenendo in particolare conto le definizioni e classificazioni proprie delle legislazioni statali, i giudici di Strasburgo, a partire dalla sentenza Sud Fondi c. Italia, hanno elaborato un ben diverso indirizzo il quale, attribuendo natura sostanzialmente penale alla sanzione della confisca, ha escluso che la sua irrogazione possa essere disposta senza un previo giudizio di colpevolezza conseguente all’imputazione soggettiva del fatto.

L’orientamento è stato rafforzato ed esteso con la sentenza Varvara c. Italia nella quale è stato affermato che la dichiarazione di prescrizione, impedendo l’affermazione della responsabilità e la condanna, impedisce anche l’applicazione della confisca urbanistica, in quanto sanzione penale.

L’indirizzo della Corte EDU è legato a due precise direttrici.

La prima è l’applicazione dei cosiddetti criteri Engel (così denominati in quanto affermati nella sentenza Engel c. Paesi Bassi del 1976) i quali identificano un’accusa penale tutte le volte in cui ricorra almeno uno dei seguenti requisiti:

  • l’illecito contestato sia qualificato come penale dal sistema giuridico dello Stato interessato;
  • esso accordi tutela erga omnes a beni giuridici della collettività;
  • sia punito con una sanzione particolarmente afflittiva e grave, tale da incidere profondamente nella sfera giuridica dell’accusato.

La seconda direttrice attiene alla concezione del diritto di proprietà che, nella visione della Corte EDU, è fondamentale ed assoluto laddove nella previsione costituzionale italiana è soggetto ai limiti che ne assicurano la funzione sociale.

È chiaro a questo punto che si scontrano due visioni, quella nazionale e quella dei giudici dei diritti umani, profondamente contrastanti.

La nostra Corte di Cassazione, precisamente la terza sezione penale, con ordinanza del 20 maggio 2014, ha avvertito di conseguenza la necessità di sottoporre la questione alla Consulta sulla base di un preciso presupposto: la sentenza Varvara avrebbe modificato il contenuto del citato articolo 44 comma 2°, attribuendogli un significato differente da quello consolidato nella giurisprudenza interna e lo avrebbe in tal modo reso illegittimo per contrasto con le norme costituzionali poste a tutela di beni primari quali il paesaggio, l’ambiente e la salute.

Nel medesimo contesto si è inserito anche il Tribunale di Teramo che però si è mosso secondo una prospettiva completamente differente, chiedendo alla Consulta di adeguare la previsione dell’articolo 44 alla sentenza Varvara nel senso di escludere che possa farsi luogo a confisca allorchè il reato di lottizzazione abusiva sia dichiarato estinto per prescrizione.

La Corte Costituzionale, con la sentenza 49/2015 depositata il 26 marzo 2015, ha dichiarato inammissibili entrambe le questioni, sfruttando l’occasione per ribadire e rafforzare la propria visione sui rapporti tra l’ordinamento italiano e quello che ruota attorno alla CEDU.

Il giudice delle leggi ha richiamato anzitutto l’obbligo dei giudici interni di tentare un’interpretazione convenzionalmente orientata delle norme nazionali. Ha tuttavia chiarito che tale obbligo vale soltanto in riferimento alla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, venendo invece meno per le pronunce isolate o comunque espressive di orientamenti ancora ondivaghi.

Se dunque il giudice interno ritiene di aderire a pronunce europee non consolidate, rimane privo della possibilità di eccepire l’incostituzionalità della norma interna contrastante poiché il parametro di riferimento, cioè la disposizione CEDU per come interpretata dalla Corte di Strasburgo, non ha la consistenza necessaria per sovrastare la legislazione statale.

Il che è come dire che, a fronte di indirizzi europei privi di adeguato consolidamento, il giudice interno farebbe bene ad affidarsi ai principi costituzionali che, comunque, prevalgono sulla CEDU.

Se invece il contrasto avviene tra una norma interna e un’interpretazione consolidata di disposizioni CEDU, la via obbligata è quella del ricorso alla Corte costituzionale per contrasto con l’articolo 117 comma 1°. La questione così sollevata consentirà alla Corte l’espunzione della norma interna contrastante.

Se, infine, il contrasto chiamasse in causa una norma CEDU contraria alla Costituzione, il giudice interno sarebbe tenuto a impugnare la legge di adattamento della CEDU nella parte in cui ha consentito appunto l’ingresso di una norma siffatta.

Quanto poi alla pronuncia strasburghese sulla confisca urbanistica, la Corte l’ha facilmente liquidata osservando che si tratta di una decisione non espressiva di un indirizzo consolidato, con tutto ciò che ne consegue nei termini già chiariti.

La sentenza ha in ogni caso chiarito che “nel nostro ordinamento, l’accertamento ben può essere contenuto in una sentenza penale di proscioglimento dovuto a prescrizione del reato, la quale, pur non avendo condannato l’imputato, abbia comunque adeguatamente motivato in ordine alla responsabilità personale di chi è soggetto alla misura ablativa, sia esso l’autore del fatto, ovvero il terzo in mala fede acquirente del bene”.

Ciò vale a dire che la correlazione tra confisca e accertamento della responsabilità è ravvisabile anche nel caso in cui quest’ultimo sia stato fatto incidenter tantum.

È questo, dunque, il  quadro complessivo in cui si è inserita la pronuncia n. 31617/2015 delle Sezioni unite richiamata in premessa di paragrafo.

L’oggetto della questione era costituito dalla confisca del prezzo o del profitto del reato, occorrendo stabilire se si trattasse o no di una sanzione penale alla stregua dei parametri indicati dalla Corte EDU.

Le Sezioni unite hanno attribuito all’istituto la natura di misura di sicurezza.

Hanno ritenuto che per la sua applicazione non sia sufficiente un accertamento incidentale della responsabilità del destinatario poiché, se così fosse, la confisca si trasformerebbe indebitamente in un’actio in rem.

Hanno quindi affermato che “l’accertamento della responsabilità deve confluire in una pronuncia che, non solo sostanzialmente, ma anche formalmente, la dichiari, con la conseguenza che l’esistenza del reato, la circostanza che l’autore dello stesso abbia percepito una somma e che questa abbia rappresentato il prezzo o il profitto del reato steso, devono aver formato oggetto di una condanna, i cui termini essenziali non abbiano, nel corso del giudizio, subito mutazioni quanto alla sussistenza di un accertamento “al di là dì ogni ragionevole dubbio”.

La confisca può infine essere disposta anche nel caso in cui sia intervenuta una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione ma quest’ultima “deve rivelarsi quale formula terminativa del giudizio anodina in punto di responsabilità, finendo in tal modo per “confermare” la preesistente (e necessaria) pronuncia di condanna, secondo una prospettiva, a ben guardare, non dissimile da quella tracciata dall’articolo 578 del codice di rito in tema di decisione sugli effetti civili nel caso di sopravvenuta declaratoria di estinzione del reato per prescrizione”.

Le Sezioni unite precisano ulteriormente, rifacendosi alle linee guida tracciate dalla Corte costituzionale nella sentenza 49/2015, che, a proposito di prescrizione, “L’obbligo della relativa immediata declaratoria, infatti, lungi dallo stemperare il “già accertato”, ne cristallizza gli esiti “sostanziali”, sia pure nella circoscritta e peculiare dimensione della confisca del prezzo del reato, dal momento che – altrimenti – al giudice incomberebbe un onere di “conformazione costituzionale” della interpretazione, attenta a salvaguardare anche i “controlimiti” che la pronuncia della Corte costituzionale ha implicitamente, ma chiaramente, evocato. In altri termini, l’opposta tesi dovrebbe fare i conti con la gamma non evanescente di valori costituzionali che verrebbero ad essere ineluttabilmente coinvolti da un sistema che, dopo aver accertato la sussistenza del reato, la responsabilità del suo autore e la percezione da parte di questi di una somma come prezzo del reato, non consentisse l’ablazione di tale prezzo, esclusivamente per l’intervento della prescrizione che giustifica “l’oblio”ai fini della applicazione della  pena, ma non impone certo la inapplicabilità della misura di sicurezza patrimoniale”.

Ben diversa deve essere, secondo le Sezioni unite, la regolamentazione della confisca per equivalente, poiché si tratta di un istituto che una natura pacificamente sanzionatoria.

Così richiamati i punti essenziali della pronuncia 31617/2015, pare chiaro che il profilo di maggiore interesse e novità è l’affermazione del concetto di “condanna in senso sostanziale” ed il suo utilizzo come grimaldello per legittimare una confisca altrimenti impossibile.

Le conseguenze davvero importanti di questa novità, che potrebbe abbastanza agevolmente essere estesa a tutte le situazioni giuridiche negative il cui presupposto sia una condanna penale, rendono quantomai necessaria la verifica della sua tenuta giuridica e logica.

C’è anzitutto un dato normativo di cui tenere conto ed è quello contenuto nel primo comma dell’articolo 240 c.p. il quale affida al giudice il potere discrezionale di disporre la confisca delle cose “che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto”.

Questo potere è esercitabile – premette la norma – solo nel caso di condanna.

Si è ben consapevoli che l’interpretazione meramente letterale delle disposizioni normative è, per dirla con le parole usate dalla Consulta nella citata sentenza 1/2013, un “metodo primitivo sempre”.

È vero, il tenore letterale non è di per se stesso sufficiente ma ciò non significa che se ne possa prescindere.

Bisogna allora chiedersi quale sia il significato più corretto da attribuire al termine “condanna” usato dal legislatore codicistico.

Si potrebbe iniziare rilevando che mai nessuno finora, ivi comprese le stesse Sezioni unite in precedenti pronunce sulle medesime questioni, aveva inteso quell’espressione in modo diverso da “giudicato formale di condanna”. Questa prospettiva non porterebbe però molto lontano perché il suo presupposto logico sarebbe che chi dice qualcosa mai detto prima ha sempre torto. Anche questo sarebbe un metodo primitivo e quindi lo si scarta a priori.

È invece imprescindibile il confronto con l’articolo 27 comma 2 della Costituzione ed il principio di presunzione di innocenza, o meglio di non colpevolezza, ivi contenuto.

Il Costituente non si è accontentato di affermarlo ma ha inteso dargli la massima ampiezza, estendendolo fino al momento della condanna definitiva.

La previsione in esame va letta in modo congiunto con quella contenuta nell’articolo 24 comma 2 la quale, attribuendo alla difesa la natura di diritto inviolabile, lo riferisce esplicitamente ad “ogni stato e grado del procedimento” e con l’ulteriore previsione dell’articolo 111 comma 7 che ammette il ricorso per cassazione per violazione di legge contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale.

La Costituzione considera dunque un’imprescindibile garanzia, ancorchè affidata all’iniziativa delle parti, la possibilità di dar vita ad un giudizio scandito in gradi, ognuno dei quali necessario ma non sufficiente per il risultato finale.

In piena coerenza con questo postulato, chi subisce da accusato un procedimento penale ha il diritto di non essere considerato colpevole fino a che il mosaico complessivo delineato dalla Costituzione non si compone per intero.

Sicchè, qualunque lettura che pretenda di anticipare a momenti processuali precedenti al giudicato l’affermazione della responsabilità, e ne tragga per di più spunto per l’irrogazione di sanzioni che presuppongono tale affermazione, viola palesemente la lettera e la ratio del principio di non colpevolezza.

Esposto questo primo ineludibile passaggio, già di per se stesso sufficiente a dimostrare l’erroneità del convincimento delle Sezioni unite, occorre adesso soffermarsi sulla natura dell’istituto della prescrizione e sul modo in cui si esso incrocia con il processo e il giudizio.

È nella consapevolezza pressochè unanime che la prescrizione appartiene all’ambito del diritto penale sostanziale e trova la sua ragion d’essere nell’esaurimento, una volta decorso un prefissato periodo di tempo, dell’interesse repressivo dello Stato riguardo ad un determinato fatto – reato.

L’effetto della prescrizione è chiaramente esplicitato nel primo comma dell’articolo 157 del codice penale e consiste nell’estinzione del reato.

La prescrizione, a differenza delle cause di estinzione della pena, rende quindi definitivamente impossibile l’emissione della sentenza di condanna, facendo mancare il suo necessario presupposto cioè l’esistenza giuridica di un reato.

Proprio per questa ragione ed ai sensi dell’articolo 129 del codice di procedura penale, una volta che sia verificata la causa estintiva, il giudice, in qualunque stato e grado del processo, è tenuto a riconoscerne d’ufficio l’esistenza con una sentenza dichiarativa.

L’unica possibilità alternativa a questo epilogo è la sentenza di assoluzione o non luogo a procedere se gli atti processuali già disponibili rendono evidente la ricorrenza di una  ragione assolutoria di merito.

Lo stesso obbligo è posto a carico del giudice dall’articolo 531 del codice di procedura penale, per di più esteso anche ai casi in cui vi sia il semplice dubbio dell’esistenza di una causa di estinzione.

È una regolamentazione chiara che è il frutto di un’altrettanto chiara volontà legislativa, realizzatrice di una finalità di indubbia ragionevolezza, tra l’altro fortemente collegata al principio costituzionale del finalismo rieducativo della pena.

Emerge anche per questa via la vistosa forzatura logica in cui sono incorse le Sezioni unite.

In altri termini: collegare, anche in presenza di un epilogo prescrittivo, l’accertamento definitivo della responsabilità all’emissione di una sentenza di condanna non smentita da successive pronunce assolutorie, è come dimenticare che la prescrizione funziona esattamente nel senso di porre nel nulla accertamenti di merito già compiuti ed impedire analoghi accertamenti futuri.

Non si tratta dunque di un’anodina formula terminativa del giudizio e non può essere affatto utilizzata come conferma della pronuncia di condanna.

La prescrizione determina al contrario una sorta di cessazione della materia del contendere, conseguente ad un’esplicita rinuncia statale alla pretesa punitiva, che nessun giudice può ignorare a pena di farsi indebitamente legislatore.

Ci sono infine tre ultimi rilievi da formulare.

Il primo: la possibilità di far luogo alla confisca anche in caso di prescrizione poggia, secondo il ragionamento delle Sezioni unite, sulla disponibilità di un accertamento di responsabilità il quale a sua volta presuppone una cognizione piena del merito.

Questa eventualità è chiaramente impossibile nelle situazioni regolate dall’articolo 129 del codice di procedura penale il quale, non a caso, titola “Obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità”. Il giudice che si confronti con evenienze del genere non può e non deve quindi compiere alcun accertamento di merito.

Potrebbe tuttavia capitare che la prescrizione si maturi dopo il primo grado di giudizio, ad esempio in appello, quando cioè una prima delibazione di condanna nel merito è già disponibile.

È evidente che in un caso del genere, e sempre che non vi sia stata espressa e preventiva rinuncia alla prescrizione, il giudice dell’impugnazione non potrebbe che prendere atto della causa estintiva e dichiararla.

Si cristallizzerebbe in tal modo la valutazione del merito contestata con l’impugnazione senza che le contestazioni possano dipanarsi e, in ipotesi,  produrre effetti positivi a favore dell’appellante.

Dunque, prescrizione in entrambi i casi ma, secondo le Sezioni unite, confisca possibile solo nel secondo. E non per una qualche apprezzabile ragione ma solo per un accidente legato al momento processuale in cui matura la prescrizione. Sarebbe ragionevole questa diseguaglianza o violerebbe l’articolo 3 comma 1° Cost.?

Il secondo rilievo: le Sezioni unite hanno introdotto un concetto, quello di “condanna sostanziale”, sconosciuto alla legge ed alla nostra civiltà giuridica e lo hanno usato in malam partem. È possibile questo, è consentito alla luce dei principi costituzionali e generali dell’ordinamento che sono stati illustrati in precedenza?

Il  terzo: le Sezioni unite, pur così attente alle ramificazioni degli ordinamenti sovranazionali nella materia trattata, sembrano non avere tenuto in considerazione la Direttiva 2014/42/UE emessa dal Parlamento europeo e dal Consiglio.

Il provvedimento è stato assunto sulla base degli articoli 82 § 2 e 83 § 1 TFUE i quali legittimano il Parlamento e il Consiglio ad istituire norme finalizzate ad agevolare la cooperazione penale o reprimere reati transnazionali di elevata gravità.

I primi articoli sono destinati alla definizione degli istituti. La confisca, contemplata nell’articolo 2 comma 1 - 4, è definita come una “privazione definitiva di un bene ordinata da un’autorità giudiziaria ad relazione ad un reato” e si applica a tutti i reati previsti dall’articolo 3 o, in assenza di altri strumenti giuridici di attuazione, a tutti i reati puniti con una pena il cui massimo edittale sia non inferiore a quattro anni.

Entro il 4 ottobre 2016 gli Stati membri dell’UE, ai sensi dell’articolo 4 comma 1, sono tenuti ad adottare le misure necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale, di beni strumentali e proventi da reato, o di beni di valore corrispondente a detti beni strumentali o proventi, in base a una condanna penale definitiva, che può anche essere pronunciata a seguito di un procedimento in contumacia”.

Il provvedimento brevemente commentato è una direttiva e pone quindi a carico degli Stati membri un’obbligazione di risultato senza tuttavia essere direttamente applicabile nei loro ordinamenti.

Tuttavia, si tratta pur sempre di un atto che dovrà essere presto tradotto in norme nazionali ed è difficile immaginare che tale traduzione avverrà prescindendo dal requisito della condanna penale definitiva o attribuendogli un significato sostanziale e non formale.

Per di più, la direttiva 42 risale al 3 aprile 2014 ed era dunque ben nota quando le Sezioni unite vararono il principio che si sta commentando senza darle il minimo rilievo.

In conclusione, una pronuncia sicuramente innovativa ma di questo “nuovo che avanza” si sarebbe volentieri fatto a meno.

Conclusione

La lettura di questo scritto potrebbe far pensare che esso abbia fini esclusivamente demolitori, che sia servito cioè ad esprimere una posizione di critica preconcetta, ingiustificata e ingenerosa verso l’opera dei giudici di legittimità.

In realtà questo non è vero o forse è meglio dire che è vero solo in parte e con varie puntualizzazioni.

Non si può essere disinteressati e neutrali verso le prospettive che i massimi interpreti giuridici nazionali indicano quotidianamente con le loro sentenze, tutt’altro.

Non li si vuole certo schiavi del legislatore, arroccati a difesa di vecchi e non più proponibili equilibri di potere e antichi costumi, isolati dalla comunità quasi fossero sommi sacerdoti che nel contatto con la gente comune perderebbero la loro purezza, insensibili ai nuovi bisogni collettivi e individuali.

Ma si pretende qualcosa da loro, che questa partecipazione al sentire comune sia filtrata dalla razionalità e illuminata dai valori essenziali della nostra Costituzione e delle altre fonti sovranazionali, particolarmente quelle poste a presidio dei diritti umani e di libertà.

Al tempo stesso, si rivendica il diritto di usare il proprio intelletto anche in direzione critica, di non sottostare a nessuna parola d’ordine, di non credere aprioristicamente ad alcuno slogan, di essere laici in una società che si vorrebbe laica.

Sicchè, anche le sentenze della Corte di Cassazione possono e devono essere vagliate criticamente, non solo per mero interesse intellettuale e professionale ma soprattutto perché i loro effetti, presto o tardi, si fanno sentire nella vita quotidiana di ognuno.

Chiarita e giustificata in tal  modo la finalità di questo scritto, la valutazione conclusiva è che l’opera complessiva della giurisprudenza penale di legittimità stia progressivamente restringendo gli spazi delle libertà individuali e assecondando derive securitarie che contraddicono i valori essenziali che ogni giudice dovrebbe difendere.

Con intensità crescente, la nostra magistratura di vertice sta trasferendo sugli utenti gli effetti dell’inadeguatezza e dell’inefficienza dell’amministrazione della giustizia. Non solo scaricando su di loro oneri e responsabilità che sarebbero invece propri del giudice ma anche accentuando a dismisura, ben oltre il consentito, il distacco dal cuore dei temi processuali e riducendo drasticamente le occasioni di controllo effettivo sulla correttezza delle valutazioni contestate dai ricorrenti.

La funzione nomofilattica sta perdendo qualità e spessore dal momento che, sempre più spesso, decisioni importanti e su temi sensibili si distaccano immotivatamente da principi consolidati per inseguire prospettive più legate ad improvvisazioni concettuali che ad un’analisi effettiva e puntuale dei valori in campo.

Infine, la propensione dei nostri interpreti ad utilizzare le spinte provenienti dalle fonti e dalle giurisdizioni sovranazionali sembra il frutto non di una reale apertura a nuove sensibilità ma di un’esigenza tattica che porta ad utilizzare soltanto gli input che meglio assecondano le visioni interne del momento.

Il risultato è una giurisdizione di legittimità che in più casi opera all’insegna dell’autoreferenzialità, adotta tecniche difensive (facendo quello che ai medici si impone di non fare) rispetto alla crescente domanda di giustizia, minimizza consapevolmente il proprio ruolo critico verso le dinamiche processuali sulle quali deve pronunciarsi, salvo poi, qua e là, varare nuovi indirizzi che talvolta aumentano la confusione e l’incertezza anziché dissiparle.

La Corte di Cassazione, purtroppo, è sempre meno ciò che ostenta di essere nel preambolo della relazione del Massimario.

Un quadro piuttosto sconfortante e non c’è alcun piacere a sottolinearlo. Ma così appaiono le cose.

 

[1] Il testo virgolettato è tratto dalla relazione, disponibile sul web, di G. Conti sull’autosufficienza del ricorso nel giudizio penale in cassazione svolta nell’ambito di un corso tenuto il 14 giugno 2012.

[2] Il report sull’incontro è anch’esso disponibile sul web.