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Metaverso: brevi riflessioni sui profili di diritto penale

Metaverso
Ph. Stefano Lazzari / Metaverso

Metaverso: brevi riflessioni sui profili di diritto penale

 

La domanda più logica che nasce spontanea è se siano possibili delle conseguenze di natura penale o criminale (ma non solo) per i titolari, ‘proprietari’ della loro metamorfosi evolutiva nel mondo parallelo o digitale, dei loro alter ego virtuali, in base a quanto previsto nell’attuale ordinamento giuridico.

Vi sarà modo di denunciare un fatto-reato di cui si è vittime nel mondo virtuale o dei soggetti avatar? Come considerarli? Inoltre, in codesto nuovo palcoscenico surreale, potranno venire puniti giudizialmente i veri rei?

Partiamo per gradi secondo la procedura penale, per quanto riguarda il problema della  competenza (per territorio), si ritiene sia ormai pacificamente superato il dibattito, alla luce dei numerosi interventi giurisprudenziali in tema di diffamazione a mezzo internet. La Suprema Corte ha infatti statuito che, se è vero che nel caso di immissione nel sistema internet di scritti o immagini lesive dell’altrui reputazione, l’evento lesivo coincide con quello della percezione della comunicazione offensiva da parte di più fruitori della rete - e il reato si consuma non nel momento della diffusione del messaggio, ma nel momento e nel luogo in cui il collegamento viene attivato -, ai fini della individuazione della competenza, non può rilevare né il luogo del collegamento di un singolo fruitore del sito, né i criteri oggettivi, ex artt. 8 e 9 co. 1 c.p.p., di difficile ed anzi impossibile individuazione, quali quello dell’immissione della notizia nella rete e/o dell’accesso del primo visitatore (rectius, dei primi utilizzatori).

Sicché occorrerà fare ricorso ai criteri suppletivi, di cui all’art. 9 co. 2 c.p.p., ossia al luogo di residenza, dimora o domicilio dell’imputato.

Come prodromica specificazione di natura squisitamente ritual-processuale, ci si chiede su quali reati – e se – siano ascrivibili in astratto, secondo il nostro ordinamento; nonché, in seconda istanza, se si possano effettivamente contestare tali presupposti reati agli autori in c.d. materia umana cioè fisica.

È indiscusso come vi siano alcune fattispecie di reato che possono esser perpetrate (anche) a mezzo web, oltre, il delitto di diffamazione.

Si prenda ad esempio, la contravvenzione prevista ai sensi dell’art. 660 c.p. (molestia o disturbo alle persone - “chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito…”.

La fattispecie in esame può rientrare nel novero dei reati informatici o per mezzo virtuale. La giurisprudenza (cfr. Cass. pen. sez. I, 11/07/2014, n. 37596) ha ritenuto che, anche una pagina Facebook di un utente possa essere considerata “luogo aperto al pubblico”, al fine della realizzazione della fattispecie. 

Essendo il social una “Agorà immateriale”, che permette un numero indeterminato e non calcolabile di “accessi” e di visioni: essa, dunque, al pari di ogni social network o community liberamente accessibile da parte di chiunque utilizzi la rete, costituisce un vero e proprio “luogoaperto al pubblico, in cui può esser commesso il reato di molestie.

Anche la minaccia prevista e disciplinata dall’art. 612 c.p., o i ritenuti reati gravi degli atti persecutori (c.d. stalking, art. 612 bis c.p.) possono, anch’essi, commettersi per mezzo del web.

Sul punto, la Suprema Corte di Cassazione[1], con una pronuncia del 27/06/2016 (Vedasi anche: Cass. Pen., sez. V, n. 28739/2017, 11.01.2017, diffamazione a mezzo blog) “(…) perché se è individuabile il luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione, è in quel luogo che si determina la competenza territoriale per il giudizio – solo nel caso non si possibile, la competenza per territorio va determinata in forza del luogo del domicilio dell’imputato”, ha confermato l’ipotesi che le minacce, realizzate attraverso i social media, siano idonee a integrare il reato di atti persecutori.

I giudici del Consesso di legittimità hanno sottolineato come non sia tanto il mezzo – attraverso il quale si diffonde la comunicazione – che  consente di configurare il delitto di cui all’art. 612 bis c.p., quanto, piuttosto il contenuto della stessa, che deve costituire un comportamento concretamente vessatorio in danno della persona offesa.

Lo stesso Legislatore aveva in illo tempore modificato (con il D.L. n. 14 agosto 2013, n. 93, art. 1, comma 3, lett. a), convertito, con modificazioni, dalla L. 15 ottobre 2013, n. 119) l’art. 612 bis c.p., com. 2, inserendovi l’ipotesi di aggravamento della pena, quando il fatto fosse compiuto “attraverso strumenti informatici o telematici”. Ancora, gli strumenti informatici, possono divenire perfino una “risonanza”, una ripercussione per la commissione di specifici reati: si consideri, la istigazione a delinquere (art. 414 c.p.) ovvero alla propaganda di idee razziste (art. 3, com., 1 lett. a), l. 13 ottobre 1975, n. 654).

Nel primo caso la norma incriminatrice richiede un’istigazione avvenuta pubblicamente, ovvero (in base alla definizione legale di cui all’art. 266, co. 4 c.p.) col mezzo della stampa o con altro mezzo di propaganda: una descrizione molto ampia che permette di ricomprendervi, senza eludere il principio di tassatività, anche l’istigazione avvenuta a mezzo Facebook. Nel secondo caso, la legge nulla menziona (sine vinculo) in ordine al mezzo di diffusione della propaganda razzista, permettendo dunque la realizzazione della condotta anche attraverso il social di Facebook.

Si consideri anche il decreto legge 18 febbraio 2015, n. 7, in materia di contrasto al terrorismo, che, con gli artt. 1 e 2, il quale ha introdotto un aggravamento della pena se il fatto è commesso mediante strumenti informatici o telematici nel caso dell’art. 270 quinquies (addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale), nonché degli artt. 302 (istigazione a commettere un delitto doloso contro la personalità dello Stato), e art. 414, terzo comma[2]  e 414, quarto comma (pubblica istigazione o apologia di delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità). 8 Si prenda ora in esame lo specifico delitto di violenza sessuale. Ebbene, può sussistere una violenza sessuale in assenza di contatto fisico, anche nell’eventualità in cui autore e vittima non si siano mai incontrati personalmente, quindi fisicamente con un contatto materiale? Una  pronuncia della Corte di Cassazione (decisione  n. 25266 dell’8 settembre 2020), ha recepito la suddetta teoria. Il reato è senz’altro riconosciuto anche “oltre il fatto carnale”, e cioè - accogliendo la  premessa - è ben possibile parlare di violenza sessuale quando manca il contatto fisico o quando le persone coinvolte siano fisicamente distanti. La Cassazione suindicata del settembre 2020 ha, infatti, esteso la consistenza penale di queste specifiche ed anomale -per certi versi- condotte criminali.

In dottrina penale notiamo le prime valide considerazioni dell’avv. A. Continiello[3], la linea di pensiero seguita dalla dottrina di Continiello vede che: le azioni poste in essere da un avatar nei confronti di un altro utente del Metaverso dovrebbero/potrebbero essere ricondotte a mere intenzioni e/o pensieri e pertanto non punibili[4]Ciò in quanto il nostro sistema penale è caratterizzato dal principio di materialità ovvero nessuna offesa, per quanto grave e lesiva, potrà essere ritenuta penalmente rilevante senza un’azione che ne sia la causa. la materialità del fatto di reato può andare dalla estrinsecazione minima dell’inizio dell’azione (come, per esempio, i reati in forma tentata o di attentato), a quella intermedia (come i reati di mera condotta), fino a quelli della realizzazione dell’evento (reati di evento).

Il legislatore negli ultimi decenni ha sostanzialmente modificato il diritto penale assegnando, in alcuni casi, alla vittima il ruolo di definire (seppur con delle limitazioni di carattere oggettivo) se un fatto costituisce reato oppure lo esclude.

Immaginiamo lo Stalking nel quale il medesimo comportamento del soggetto agente può, nei confronti di un soggetto costituire reato, mentre per un altro no (immaginiamo lo stalker che appartiene alla classificazione del corteggiatore incapace, insistente, ossessionato).

Sicuramente questo allargamento del diritto penale, già contestato dal Prof. Sgubbi[5], è pericoloso. Si è venuta a creare “indebita assimilazione fra ragione di giustizia quale risoluzione imparziale di un conflitto e ragione di parte quale soddisfazione unilaterale del proprio personale interesse”, è anche perché si è imposta una “sensazione puramente soggettiva di verità”, secondo la mentalità perversa dell’ “it’s true because i feel it” (è vero perché lo sento), che ha dato vita alla categoria del “reato percepito”, con buona pace dei principi di materialità e di offensività.

L’informatica vede il Metaverso come una forma di realtà aumentata: definizione che sorride alle imprese già impegnate in questo settore (come Niantic, creatrice di Pokémon Go, Snap, Apple). Questa visione prevede non una realtà digitale “alternativa” a quella reale, ma un’integrazione fra le due. L’ultima interpretazione è anche la più diffusa e accreditata, e descrive il metaverso come una realtà virtuale: una sorta di grande videogioco dove sperimentare esperienze immersive[6].

Se seguiamo quest’ultima definizione, possiamo immaginare il Metaverso come un insieme di piattaforme a cui le persone possono accedere semplicemente con un computer e una connessione a internet.

Per fruire un’esperienza completa, tuttavia, serve qualcosa in più. Prima di tutto, trattandosi di una forma di realtà aumentata, uno schermo non basta: servono visori, caschetti e occhiali come quelli già in commercio da tempo (pensiamo ai noti visori Oculus, ad esempio).

In secondo luogo, per “vivere” l’esperienza di questa realtà virtuale serve un portafoglio crittografico (crypto wallet) e della criptovaluta da poter spendere.

Al livello infrastrutturale: una realtà di questo tipo necessita di connessioni veloci e protocolli di trasmissione che supportino grandi quantità di dati (bandwidth). Non solo 5G quindi ma anche Wifi più evolute, processori e schede grafiche adeguatamente potenti. Queste performance al momento sono garantite soltanto dai device più recenti e nelle aree metropolitane raggiunte da potenti connessioni in fibra ottica e reti mobile di ultima generazione.

Per quanto concerne il device per accedere al metaverso, l’infrastruttura che servirebbe ad accedere al metaverso quindi già esiste, ma al momento non abbiamo ancora device adeguati: i visori di realtà virtuale (VR) sono piuttosto scomodi con batterie che durano poco: utilizzarli continuativamente per ore è praticamente impossibile. Inoltre, le lenti hanno una risoluzione limitata così come – generalmente – la potenza dei processori grafici: siamo ben lontani dal poterci immergere in ambienti fotorealistici.

Per quanto riguarda invece la realtà aumentata (AR), siamo probabilmente ancora più lontani: non esiste praticamente nessun dispositivo che non sia praticamente un prototipo. A tendere, andremo verso la dimensione della realtà estesa (XR), ovvero un continuo passaggio da realtà fisica a realtà virtuale, passando attraverso la realtà aumentata, in modo fluido e in base alla convenienza per l’utente. Immaginatevi ad esempio che per una videoconferenza di lavoro da casa io possa scegliere di immergermi nelle realtà virtuale e invece per trovare le informazioni sul negozio sotto casa decida di sfruttare la realtà aumentata. Il tutto, indossando il medesimo paio di occhiali sempre connessi ad alta velocità alla rete e magari con controllo vocale.

Se dal punto di vista dell’esperienza utente ci mancano i device, siamo invece a buon punto per quanto riguarda le piattaforme: Decentraland, Horizon, The Sandbox, Roblox, Axie Infinity (o se preferite World of Warcraft) sono mondi virtuali persistenti che già si prestano ad essere utilizzati da aziende per creare i propri spazi nel Metaverso – e infatti molte aziende li stanno già sperimentando con successo. Certo, l’esperienza si limita il più delle volte a navigare da browser o da app su un dispositivo mobile, ma sempre meglio di niente. Purtroppo, infatti, i visori VR come Meta Quest (ex Oculus) sono ancora supportati parzialmente: ad esempio non esiste una versione ufficiale Roblox VR (anche se ci sono diversi metodi per poterlo usare con i visori).

In qualche modo, è – incredibilmente – come se l’attenzione delle aziende nei confronti del Metaverso fosse partita ben prima della reale disponibilità di tale tecnologia per il grande pubblico. Ovvero è come se tutti avessero cominciato a sviluppare app per iPhone prima ancora che fosse presentato l’App Store – che nella prima iterazione dell’iPhone non c’era!

Tutto questo semplicemente non ha senso. O forse sì: se è vero infatti che i mondi virtuali evolveranno naturalmente assieme alle piattaforme che li ospitano, allora significa che saranno già pronti quando avremo tutti un paio di occhiali (VR o AR) appoggiati sul naso. Per una volta, arriva prima il software dell’hardware.

La materialità del fatto di reato può andare dalla  estrinsecazione minima dell’inizio dell’azione (es. reati di tentativo o di attentato), a quella intermedia della realizzazione dell’intera azione (es. i reati di mera condotta), fino a quella massima della realizzazione dell’evento materiale (es. reati di evento).

Tale assunto si deduce implicitamente dall’art. 25, comma secondo, Cost. laddove parla di “fatto commesso”, intendendo per tale una modificazione materiale della realtà (nota: e non si vede neppure violato il principio di offensività, che, com’è noto, subordina la sanzione penale all’offesa, per l’appunto, di un bene giuridico, tanto nella forma della lesione - intesa come nocumento effettivo - quanto in quella dell’esposizione a pericolo - concepita in termini di nocumento potenziale). Riprendendo l’analisi dell’art. 49 del cod. pen., vero è che, il suddetto istituto, sancisce altresì, al netto della esclusione (impossibilità) della punibilità, la possibilità per il giudice di applicare una misura di sicurezza, qualora reputi il soggetto sia pericoloso: ma, nel caso preso in esame, siamo certamente ancora al di fuori del principio di materialità/offensività (quindi anche dell’art. 49 c.p. ult. c. c.p.[7]). Eppure, si potrebbe eccepire che, ad ogni qual modo, questi individui avrebbero intenzionalmente nel caso si sollevi il reato di violenza sessuale ad oggi più attenzionato - con dolo, quindi - comandato i loro avatar affinché portassero a compimento il delitto di violenza sessuale di gruppo contro un altro avatar[8].

L’intenzione e la volontà c’erano, ma non un reale delitto, si ripete. Trattasi, comunque, di una spregevole condotta che, pur non avvenuta nel mondo reale, ha provocato disgusto, per usare un eufemismo, nella vittima. Ma c’è da chiedersi, come contrappasso nel ragionamento, se queste Metacondotte non rischino di ampliare eccessivamente l’applicazione del diritto penale. «Già nel 1990 il prof. Filippo Sgubbi definiva, infatti, il reato come un “rischio sociale”. Nel suo “Il reato come rischio sociale. Ricerche sulle scelte di allocazione dell’illegalità penale”, il professore ha sostenuto come “lo spazio di libertà dei singoli si riduce progressivamente (…) al punto che, oggi, è davvero raro rintracciare condotte che possano dirsi con certezza estranee all’area di operatività del diritto penale”.

Con queste parole voleva descrivere efficacemente gli effetti dell’ipertrofia del diritto, analizzava le conseguenze nefaste della sua incessante voracità patologica e ne evidenziava il contrasto con il suo tradizionale carattere di “frammentarietà”, tanto da rilevare “un drastico rovesciamento dei postulati tradizionali” perché, concludeva il ragionamento, “frammentaria è ora la libertà”. A trent’anni da quella celebre opera, il professore ha poi pubblicato “Il diritto penale totale” nel quale ha descritto e denunciato, tramite l’esposizione di venti tesi, il consolidamento e soprattutto gli ulteriori sviluppi di quella degenerazione, già in atto da decenni.

Si è giunti, secondo l’Autore, alla realizzazione di un diritto penale concepito e percepito, sia dalla politica sia dalla società nel suo complesso, come “il rimedio giuridico a ogni ingiustizia e ogni male sociale”, che ha assunto, nel tempo, una pericolosa e innaturale connotazione palingenetica, distante e addirittura contraria alla sua tradizionale funzione.

Tutto è cominciato, a suo pensiero, dall’irreversibile crisi del principio di legalità, che ha creato lo spazio per la nascita di “fonti sociali di creazione e definizione di precetti penali”. Se si è venuta così a creare una “indebita assimilazione fra ragione di giustizia quale risoluzione imparziale di un conflitto e ragione di parte quale soddisfazione unilaterale del proprio personale interesse”, è anche perché si è imposta una “sensazione puramente soggettiva di verità”, che ha dato vita alla categoria del “reato percepito”, con buona pace dei principi di materialità e di offensività.

Ecco che condotte prive di una tangibile e attuale lesività vengono impropriamente assorbite in artificiali, e spesso artificiose, fattispecie di reato, dando vita ad alcuni paradossi, come la reificazione del plurisecolare fenomeno della maleducazione o la previsione di illeciti a tutela di beni giuridici ancora inesistenti al momento della realizzazione della condotta. Secondo Sgubbi, abitiamo una società caratterizzata dalla cultura del sospetto, nella quale si dividono gli individui nelle categorie dei puri e degli impuri, dove diritto e morale si confondono, si sovrappongono al punto che “l’etica pubblica si trasforma in diritto penale[9]. Il rischio di una deriva che renda illeciti comportamenti immorali, può sempre esserci, effettivamente». Il pericolo è, dunque, di rendere illecito un mero comportamento immorale, violando i principi cardine del nostro diritto.

Note

[1] Sentenza del 27/06/2016; altalex, documents/news, diffamazione-a-mezzointernet-nei-piu-recenti-orientamenti-giurisprudenziali, 2016; Vedi id.: GIURISPRUDENZA PENALE WEB, 2022,  del 05 5 20217

[2] Cass. Pen., sez. V, n. 19363, ud. 11.01.2017; in: GIURISPRUDENZA PENALE WEB, 2022, 5 6 apologia di delitto.

[3] Avv. Del Foro di Milano, in: Giurisprudenza Penale web 2022, n.5.

[4] In ordine al principio secondo cui nessuno può subire una pena per i suoi pensieri “cogitationis poenam nemo patitur”.

[5] Prof. Avv. Filippo Sgubbi, in: “il diritto penale totale” ed. 2019, il Mulino; vedi: dirittodidifesa.eu.

[6]Pasquale Borriello, amministratore delegato di Arkage Artattack Group, specializzato in filosofia e matematica con competenze in marketing in Canada

[7] Reato impossibile.

[8] A. Continiello profusamente in: “Giurisprudenza Penale web” cit-

[9]  Filippo Sgubbi:”Il Diritto Penale Totale” di: Francesco Federico, cit.