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Non è l’arena: che fare quando il dibattimento penale si fa duro?

Arena, Reggio Calabria
Ph. Giuseppe Vigliarolo / Arena, Reggio Calabria

Istruttorie dibattimentali: non è l’arena, che fare quando il dibattimento penale si fa duro?

 

Si leggono in questi giorni vari articoli piuttosto indignati, tutti riferiti alla stessa questione.

La cornice è quella delle istruttorie dibattimentali dei giudizi penali, il motivo dell’indignazione è che il giudice monocratico o il presidente del collegio interferirebbero in vari modi nel libero esercizio degli esami o controesami del difensore.

Più nel dettaglio, il giudice pretenderebbe di sapere anticipatamente in che direzione intende muoversi la difesa e quali risultati conoscitivi si propone di raggiungere oppure proteggerebbe troppo il dichiarante da domande incalzanti volte a sminuirne la credibilità o la correttezza del ricordo oppure si mostrerebbe troppo conservativo verso i risultati delle indagini preliminari così favorendo l’accusa pubblica oppure, addirittura, si sostituirebbe al difensore, esautorandolo ed assumendo egli stesso il ruolo di esaminatore.

Ognuna di queste modalità, si dice, lede le sacre prerogative difensive e ridicolizza l’altrettanto sacro principio del contraddittorio e della parità degli armi.

Queste sono le contestazioni e se ne prende atto ma l’impressione è che manchi qualcosa.

Manca anzitutto un confronto con le norme che regolano i compiti del giudice dibattimentale nella fase istruttoria.

Si omette quindi di ricordare che spetta al giudice non solo l’ammissione delle prove ma anche un costante controllo di appropriatezza sulla loro assunzione e finalizzazione, che gli tocca verificarne la pertinenza e la rilevanza, che può intervenire durante l’esame del teste per “assicurare la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell'esame e la correttezza delle contestazioni”, che proprio in funzione di questa posizione di custode della correttezza e dell’utilità del contraddittorio gli è riservata la direzione del dibattimento.

Manca pure un qualsiasi accenno all’essenza del ruolo delle parti e dello stesso giudice e del modo in cui deve essere inteso e interpretato.

Senza con questo voler sostenere la tesi che esiste uno stile obbligato, è bene ricordare che l’avvocato difensore deve avere come stella polare l’interesse del suo assistito sicché, ad esempio, non dovrebbe intendere la sua conduzione dell’esame o del controesame di un teste, per quanto importante sia, come una prova muscolare col teste stesso o con l’accusatore pubblico o col giudice ma esclusivamente come un mezzo per favorire l’emersione di elementi utili alla difesa direttamente (acquisizione di dati conoscitivi che rafforzano la tesi difensiva) o indirettamente (acquisizione di dati conoscitivi che indeboliscono la tesi accusatoria).

A sua volta il giudice deve esercitare le sue funzioni all’insegna di un salutare minimalismo (evitando cioè irruzioni non necessarie nelle altrui sfere funzionali) e accompagnare con saggezza e acume il percorso istruttorio, intendendolo con ampiezza nella fase iniziale e poi adattandolo progressivamente secondo l’andamento e i risultati acquisiti, fino a giungere al momento in cui il programma probatorio delle parti può dirsi ragionevolmente concluso. Non gli è evidentemente concesso di scendere in campo come protagonista abbracciando una tesi piuttosto che un’altra, né gli spetta di alimentare scontri con le parti o di dare dimostrazioni della geometrica potenza del suo ruolo.

Manca infine – e invece dovrebbe esserci – la considerazione degli effetti potenzialmente nefasti propri dei processi ad alto impatto mediatico o per i quali sarebbe gradito un risultato particolare.

L’umana fragilità rende assai più difficile in casi del genere sottrarsi a tentazioni narcisistiche o a pre-comprensioni (intuizioni di verità e di necessità che precedono l’acquisizione della verità processuale e tendono a conformarla nella direzione prefigurata).

Difficile ma non impossibile. È proprio in questi casi, in effetti, che si misura lo spessore di chi è chiamato ad esercitarvi un ruolo.

E se qualcosa andasse storto, se qualcuno cedesse e debordasse, se fossero violate norme e garanzie, il rimedio non sta certo nell’auto-vittimizzazione o nelle bordate mediatiche o nelle generalizzazioni così come non sta nelle difese castali e corporative.

I rimedi sono nella legge e nel suo spirito e, anche nei tempi più bui, si può e si deve credere che siano uno scudo effettivo. Altro non c’è.