Pubblico ufficiale - Cassazione Penale: commette il reato di rifiuto di atti d’ufficio il giudice che deposita tardivamente un provvedimento
La Corte di Cassazione ha stabilito che, in tema di reati contro la pubblica amministrazione, il deposito tardivo di un provvedimento giudiziario integra il reato di rifiuto di atti d’ufficio di cui all’articolo 328 del Codice Penale. Ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, è sufficiente la consapevolezza in capo all’agente del proprio contegno omissivo, dovendo egli rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento contra ius, senza che il diniego di adempimento trovi alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione.
Il caso in esame
La Cassazione si è pronunciata su ricorso proposto da un soggetto condannato dai giudici di merito alla pena di quattro mesi di reclusione, in relazione al reato di rifiuto di atti d’ufficio di cui all’articolo 328 del Codice Penale, per aver omesso di depositare tempestivamente, nella sua qualità di presidente del collegio della Corte di appello di Messina e di estensore della motivazione, un provvedimento avente ad oggetto l’applicazione di misure di prevenzione, nonostante le sollecitazioni provenienti dal soggetto cui il provvedimento si riferiva e dal difensore di questo. In particolare, la decisione era stata riservata all’udienza del 1 luglio 2009 ed era stata depositata solo il 24 marzo 2011, dopo le sollecitazioni formulate nelle date dell’11 marzo 2010 e del 14 maggio 2010, e la denuncia del 14 febbraio 2011.
In particolare, il ricorrente lamentava violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato, avuto riguardo all’elevata produttività dell’imputato in termini di provvedimenti emessi e l’abnorme carico di lavoro gravante sull’ufficio di appartenenza, risultando tali circostanze idonee di per sé a dimostrare l’assenza del dolo richiesto dalla fattispecie incriminatrice.
La decisione della Suprema Corte
La Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato.
In particolare, i giudici di legittimità hanno ritenuto di aderire al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui “ai fini della configurabilità dell’elemento psicologico del delitto di rifiuto di atti d’ufficio, è necessario che il pubblico ufficiale abbia consapevolezza del proprio contegno omissivo, dovendo egli rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento contra ius, senza che il diniego di adempimento trovi alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione”.
Con riferimento alle specifiche deduzioni prospettate nel ricorso, la Corte ha rilevato come dalle sentenze di merito non fosse in alcun modo emerso che l’imputato, il quale aveva anche altri ritardi nella redazione delle sentenze, avesse adottato iniziative per redigere sollecitamente il provvedimento, come richieste di esonero parziale per eccessiva gravosità dei carichi di lavoro, né che sussistessero effettivamente carichi di lavoro insostenibili o ingestibili, dato che problemi analoghi a quelli riguardanti l’imputato non avevano interessato gli altri membri della Sezione cui lo stesso faceva parte.
Secondo la Suprema Corte, l’imputato, “agendo nell’esercizio della funzione giudiziaria, e quindi quale pubblico ufficiale, aveva piena consapevolezza del proprio contegno omissivo rispetto al dovere di redigere il provvedimento di prevenzione, anche per le sollecitazioni scritte ricevute, […] il diniego di adempimento non ha trovato alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione gravante su di lui, anche perché egli non ha attivato quelle iniziative previste dall’ordinamento giuridico che gli avrebbero consentito fruire di maggior tempo per provvedere”.
Tuttavia, i giudici di legittimità, rilevando la non inammissibilità del ricorso e, quindi, la corretta costituzione del rapporto giuridico processuale davanti alla Corte di Cassazione, hanno rilevato l’estinzione del reato de quo per prescrizione.
Ciò in quanto, essendo il reato di cui all’articolo 328 del Codice Penale reato istantaneo, il cui momento consumativo si realizza con il rifiuto o con l’omissione, “l’agente è punibile per reato istantaneo senza che abbia nessun rilievo l’ininterrotta protrazione dell’inattività individuale, giacché la legge non riconosce alcuna efficacia giuridica a detta persistenza e nemmeno all’eventuale desistenza”.
Con riferimento al caso esaminato, il reato si era consumato entro il 4 giugno 2010, ossia dopo l’inutile decorso di trenta giorni – termine richiesto dall’articolo 328 cpv. – dalla presentazione dell’ultimo degli atti di messa in mora.
Per queste ragioni, la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata.
(Corte di Cassazione - Sezione Sesta Penale, Sentenza 3 ottobre 2018, n. 43903)