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Quando il Virus alimenta il mostruoso Leviatano

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Nei mesi estivi, al termine del lockdown, quando la prima grande emergenza si andava affievolendo, Aldo Maria Valli, giornalista di lungo corso ed ex vaticanista del Tg1, avverte l’esigenza di una seria riflessione su quanto accaduto nei pochi mesi terribili che sono bastati a sconvolgere l’Italia. Le conclusioni, affidate a questo agile scritto, non sono affatto confortanti.

Durante la pandemia, sostiene l’autore, accanto alla sofferenza, alle morti, alla crisi economica e sociale, abbiamo assistito alla sospensione delle abituali procedure costituzionali.

L’Italia ha smesso di essere una Repubblica parlamentare e le funzioni di governo sono state esercitate attraverso le decretazioni del Presidente del consiglio (che perdurano tuttora), editti statali che hanno assunto valore quasi religioso, in cui la Salute è stata assolutizzata.

Abbiamo vissuto una forma di «dispotismo statalista e terapeutico» che, pur condiviso e accettato in maniera passiva dalla stragrande maggioranza dei cittadini e, colpevolmente, anche dalla Chiesa, ha generato prevaricazioni che non possono e non devono essere dimenticate, poiché «costituiscono un precedente pericoloso e preoccupante per tutti coloro che hanno a cuore la qualità della democrazia liberale.»

Anche l’informazione ha contribuito spesso ad alimentare la paura anziché razionalizzarla, e la libertà ne ha sofferto. Chi può assicurarci, si chiede e ci chiede Valli, che ciò non si ripeterà e che lo Stato d’emergenza, sostituito allo Stato di diritto, non possa essere istituzionalizzato?

Abbiamo scelto, come lettura, alcune riflessioni sul tema della libertà contenute nel capitolo finale del saggio, intitolato “Nelle braccia della grande madre”:

 

Quando descrive il «potere immenso e tutelare» che, negli Stati Uniti da lui osservati nel primo Ottocento, si incarica di guidare i cittadini e di «vegliare sulla loro sorte», Alexis de Tocqueville utilizza cinque aggettivi. Dice: «È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite.» Queste connotazioni possono fotografare anche il dispotismo statalista, condiviso e terapeutico del quale ci siamo occupati nelle pagine precedenti. Il fatto che si mostri previdente (si occupa della nostra salute) e mite (formalmente non minaccia nessuno) non toglie che sia assoluto, e che lo sia proprio a partire dalla pretesa di essere particolareggiato e di entrare anche negli aspetti più minuti della vita quotidiana.

Tocqueville aggiunge che tale potere «rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia».

Lasciate che ringrazi il grande Alexis, il quale, con le sue parole, mi ha tolto dall’imbarazzo. Avrei voluto già da un pezzo dire che in tutto questo desiderio di protezione e prevenzione ho avvertito l’eco delle raccomandazioni delle tipiche mamme italiche (“Non correre!” “Non toccare!” “Vieni via!”) e un deficit di virilità. E quando parlo di deficit di virilità, ovviamente, non mi riferisco soltanto alla figura del maschio (tanto spesso, e non a caso, ridotto a macho, grottesca parodia del vir), ma all’intera nostra società occidentale, ricordando che il virilis connota non solo l’essere maschile, ma l’adulto.

Questa grande madre che è lo Stato terapeutico ha un atteggiamento tipico nei confronti dei suoi sottomessi: «Lavora volentieri al loro benessere, ma vuole esserne l’unico agente regolatore; provvede alla loro sicurezza e ad assicurare i loro bisogni, facilita i loro piaceri, tratta i loro principali affari.» Dunque, «non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere?».

Ecco così che ogni giorno questo gigantesco apparato, che pensa e agisce per noi, «rende meno necessario e più raro l’uso del libero arbitrio, restringe l’azione della volontà in più piccolo spazio e toglie a poco a poco a ogni cittadino perfino l’uso di se stesso».

Tocqueville è incredibilmente profetico quando parla di un apparato statale che plasma a suo modo ogni cittadino e, così, conforma la società. E lo è ancora di più quando spiega che l’azione avviene coprendo la collettività di una rete di «piccole regole complicate, minuziose e uniformi» che non sembrano costituire un pericolo per la democrazia liberale ma, progressivamente e inesorabilmente, infiacchisce, piega e dirige la massa, impedendo anche ai più originali e vigorosi di sollevarsi.

Il sistema «raramente costringe ad agire, ma si sforza continuamente di impedire che si agisca; non distrugge, ma impedisce di creare; non tiranneggia direttamente, ma ostacola, comprime, snerva, estingue, riducendo infine la nazione a non essere altro che una mandria di animali timidi e industriosi, della quale il governo è il pastore».

Questa servitù regolata e tranquilla, non avvertita come tale e tuttavia obbligante, può convivere con forme esteriori della libertà, e perfino con principî solenni che parlano di sovranità del popolo. Non di meno, abbiamo una nazione fiaccata, all’interno della quale la libertà effettiva non è più nemmeno avvertita come un valore da difendere e rinsaldare.

Lo stesso Tocqueville quando si occupa di questo dispotismo ammette di non riuscire a trovare un’espressione in grado di descrivere esattamente l’idea che se n’è fatto. Nelle pagine precedenti, quando ho parlato di dispotismo statalista, condiviso e terapeutico, ho usato una formula forse non molto efficace, ma spero di essere riuscito a mostrarne i caratteri essenziali.

Si tratta di un dispotismo sostanzialmente amministrativo, che nasce da un potere politico centrale non sicuro di sé, ma debole, incerto, smarrito, e tanto più grave è lo stato di debolezza tanto più manifesta diviene la pretesa di regolare tutto per via amministrativa. Un dispotismo che è frutto e simbolo di una profonda crisi della politica e della stessa rappresentatività.

Quando e come ne usciremo? E ne usciremo mai?

Chi scrive, a differenza di Alexis de Tocqueville, non è profeta e dunque non si azzarda a inoltrarsi sul terreno delle previsioni. Credo comunque che accrescere la consapevolezza dei problemi sia una buona base da cui partire. L’infiacchimento del Paese determinato dal dispotismo statalista, con il conseguente deficit di spirito civico e amore per la libertà, va combattuto sul terreno culturale prima ancora che politico.

Aprirsi a un confronto serio, evitando i nuovi dogmatismi del politicamente corretto e abituandosi alla disputa onesta, è la strada da seguire anche in termini educativi. «Rifiutarsi di ascoltare un’opinione perché si è certi che è falsa significa presupporre che la propria certezza coincida con la certezza assoluta» scrive John Stuart Mill nel suo Saggio sulla libertà. «Ogni soppressione della discussione è una presunzione di infallibilità: per condannarla basta questo ragionamento, semplice, ma non per questo meno efficace.»

Aldo Maria Valli, Virus e Leviatano, collana Oche del Campidoglio, pagg. 96, euro 11.00, ISBN 978-88-98094-82-0.