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Si può svolgere un’attività lavorativa, anche a favori di terzi, in malattia?

La risposta della Corte di Cassazione
attività lavorativa in malattia
attività lavorativa in malattia

Si può svolgere un’attività lavorativa, anche a favori di terzi, in malattia?

Indice

1. La malattia e il suo regime di tutela

2. La vicenda

3. La sentenza n. 13063/2022 della Corte di Cassazione

 

La malattia e il suo regime di tutela

Il dizionario della lingua italiana definisce la malattia come una “condizione abnorme e insolita di un organismo vivente, animale o vegetale, caratterizzata da disturbi funzionali, da alterazioni o lesioni – osservabili o presumibili, locali o generali – e, nel caso di animali a elevata organizzazione nervosa, da comportamenti inconsueti riconducibili a sofferenza psicofisica.

Per il giudice di legittimità, invece, la malattia è riscontrabile nelle “situazioni nelle quali l’infermità abbia determinato, per intrinseca gravità e/o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale – sebbene transitoria – incapacità al lavoro del medesimo”.[1]

Al di là dei profili esegetici dianzi passati in lettura, nel caso di malattia, in ossequio al c.d. principio della traslazione del rischio in capo al datore di lavoro, al prestatore è dovuta la retribuzione,[2] indipendentemente dall’esecuzione dell’obbligazione dedotta nel contratto di lavoro. L’egida sotto la quale opera tale disciplina è rappresentata dall’art. 2110 c.c., in ragione del quale “in caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge o le norme corporative[3] non stabiliscono forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un'indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali dalle norme corporative,[4] dagli usi o secondo equità”.

In siffatta ipotesi, orbene, vige una fattispecie derogatoria rispetto alla generale disciplina dei contratti (1463, 1464 c.c.), dettata – indubbiamente - dalla tradizione della legislazione sociale del diritto del lavoro [5].

Non solo. L’obbligo di corresponsione della retribuzione in costanza del periodo di comporto risponde ad esigenze costituzionali rinvenibili nel combinato disposto degli articoli 32 e 38.

La retribuzione, tuttavia, non completa il quadro del panorama delle guarentigie in godimento al lavoratore, poiché ad essa sono accompagnate altre tutele, tra cui la conservazione del posto di lavoro e la decorrenza dell’anzianità di servizio.

In ogni caso, significato a mero titolo prolusivo quanto sopra, e al fine di evitare sbavature di sorta rispetto al quesito introduttivo, l’autore – dopo aver accennato alla vicenda giudiziaria – passerà in rivista la massima della Suprema Corte, grazie alla quale è verosimile dettare il perimetro del diritto entro il quale è possibile garantire la conservazione del posto di lavoro, ancorché il lavoratore svolga una seconda attività lavorativa, anche a favore di terzi, durante il periodo di comporto.

 

La vicenda

Nel caso in esame, il licenziamento per giusta causa comminato al lavoratore dalla società datrice prendeva le mosse da alcuni post pubblicati dal dipendente sul profilo facebook, i quali – a parere della predetta società – avrebbero determinato una chiara simulazione della malattia e, comunque, pregiudicato o rallentato la guarigione.[6]

Il dipendente, avverso detto licenziamento, proponeva ricorso nell’ambito di un procedimento ex lege 92/2012 il quale, tuttavia, veniva rigettato dal giudice di primo grado.

Il lavoratore si opponeva alla situazione testé richiamata, proponendo, con ricorso, reclamo alla Corte d’Appello di Milano, la quale, in riforma della sentenza di primo grado, annullava il licenziamento intimato, poiché stabiliva che incombe sul datore di lavoro provare che la condotta compromette o comunque ritarda la ripresa lavorativa.

La società, quindi, presentava ricorso per Cassazione eccependo, quali punti di doglianza, la violazione e la falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. e 2110, 2119, 2697,  c.c. .

 

La sentenza n. 13063/2022 della Corte di Cassazione

La Cassazione – con un assunto già enunciato da precedente giurisprudenza – ha affermato che

non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare altra attività, anche a favore di terzi, in costanza di assenza per malattia, sicché ciò non costituisce, di per sé, inadempimento degli obblighi imposti al prestatore d’opera.[7]

Inoltre, la Suprema Corte, riprendendo ormai noti orientamenti sul tema, ha statuito che la condotta del lavoratore non è esente da risvolti disciplinari, qualora essa sia in grado di violare i doveri di correttezza e buona fede posti alla base del rapporto di lavoro.[8]

Orbene, secondo la Corte, e sulla scorta di quanto sopra esposto, è onere del lavoratore astenersi da tutti quei comportamenti che possono in qualche modo ledere l’interesse del datore di lavoro alla corretta esecuzione dell’obbligazione principale dedotta in contratto (la prestazione lavorativa), sicché “assume peculiare rilievo l’eventuale violazione del dovere di osservare tutte le cautele, comprese quelle terapeutiche e di riposo prescritte dal medico, atte a non pregiudicare il recupero delle energie lavorative temporaneamente minate dall’infermità, affinché vengano ristabilite le condizioni di salute idonee per adempiere la prestazione principale cui si è obbligati, sia che si intenda tale dovere quale riflesso preparatorio e strumentale dello specifico obbligo di diligenza, sia che lo si collochi nell’ambito dei più generali doveri di protezione scaturenti dalle clausole di correttezza e buona fede in executivis, evitando comportamenti che mettano in pericolo l’adempimento dell’obbligazione principale del lavoratore per la possibile o probabile protrazione dello stato di malattia”.

In altre parole, il lavoratore, onde evitare di incorrere in comportamenti contrati ai doveri di correttezza e buona fede, non deve porre in essere condotte incompatibili col proprio stato di salute o che, in qualche modo, rallentano la guarigione, dunque il rientro in servizio. La Cassazione, nel caso di specie, attesa l’assenza di un gravame specifico sul punto, ha aderito all’orientamento per cui, in ordine alla sussistenza dell’incompatibilità delle attività del lavoratore in malattia,[9] spetta al datore - in linea con l’art. 5 della legge n. 604/1966 - l’onere della prova .[10] Pur tuttavia, la Cassazione, quasi consapevole della difficoltà del datore di lavoro di reperire prove atte a dimostrare l’incompatibilità con lo stato di malattia delle attività espletate dal lavoratore in detto periodo, ha affermato che l’onere della prova può essere soddisfatto chiedendo al giudice di attivare i poteri officiosi ex art. 421 c.p.c.[11], ovvero attraverso l’esperimento di una consulenza tecnica d’ufficio.

 

[1] Cfr., fra tutte, Cass. n. 14065 del 1999

[2] La retribuzione corrisposta in costanza di malattia è ascrivibile in quella forma di retribuzione, c.d. indiretta, che il datore di lavoro deve corrispondere anche in assenza di prestazione lavorativa resa. Ad ogni modo, il comporto non esaurisce le singole ipotesi di retribuzione indiretta, giacché altre fattispecie, tra cui le ferie, i permessi, le festività, la tredicesima, ecc… sono annoverabili nell’anzidetta forma di retribuzione.

[3] Le norme corporative sono state abrogate, quali fonti di diritto, per effetto della soppressione dell'ordinamento corporativo, disposta con R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721 e della soppressione delle organizzazioni sindacali fasciste disposta con D. Lgs. Lgt. 23 novembre 1944, n. 369.

[4] Vedi supra nota 1

[5] M. Buoncristiano, Il tempo nella prestazione di lavoro subordinato, in Tratt. Rescigno, 15, Torino, 1991, 556

[6] Sul punto si veda l’ordinanza della Cassazione la n. 26709 del 01.10.2021. In particolare, la Cassazione con l’anzidetta ordinanza ha asserito che integra la violazione dei doveri di correttezza e buona fede quando il lavoratore, in costanza di malattia, ha uno stile di vita non compatibile con la patologia, ovvero che lo affligge, e in ogni caso idoneo a pregiudicarne la guarigione ed il rientro al lavoro.

[7] Cfr. Cass. n. 2244 del 1976; Cass. n. 1361 del 1981; Cass. n. 2585 del 1987; Cass. n. 381 del 1988; Cass. n. 5833 del 1994; Cass. n. 15621 del 2001; Cass. n. 6047 del 2018

[8] La Corte ha giustificato financo il licenziamento

[9] Sulla base dell’art. 3 della legge 20 maggio 1970, n. 300, di sovente le società incaricano agenzie investigative, al fine di verificare che il lavoratore in malattia non svolga attività incompatibile col suo stato clinico o che comunque rallenti la sua guarigione.

[10] Di contro, altro orientamento pone in capo al lavoratore l’onere di provare la compatibilità della malattia con le attività che esso ha svolto.

[11] Il giudice del lavoro ha ampi poteri istruttori.