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Una sintesi ragionata sugli squilibri finanziari dello stato

Prospettive
Ph. Fabio Toto / Prospettive

I valori fondanti e principali dell’ordinamento costituiscono il presupposto di una collettività, per il miglioramento della qualità della vita di tutti. La garanzia offerta dalle amministrazioni locali e centrali e la creazione di condizioni favorevoli ad assicurare il lavoro, il futuro certo e non solo la speranza di un futuro permette agli individui di programmare la propria vita, di avere accesso a beni e servizi di qualità, di rendere degna la propria esistenza e di qualificarla come un dono.

Un’attenta riflessione giuridica e di respiro costituzionale vuole che si instauri un processo virtuoso, che porti alla crescita e allo sviluppo delle potenzialità umane, con l’utilizzo equilibrato delle tecnologie a disposizione. Il mantenimento costante di crescita e sviluppo costituisce il fondamento della stabilità, intesa in tutte le sue forme, offrendo verso l’interno di una nazione e verso l’esterno la percezione di affidabilità, che a volte viene meno per la concausa di diversi fattori.

Il fenomeno del debito pubblico, dopo la legge n. 468 del 1978 e la legge n. 335 del 1976, è esploso, un debito che le generazioni attuali riversano su quelle future che dovranno in qualche misura farsi carico degli impegni assunti da quelle precedenti. Il debito può essere utile alla crescita e addirittura necessario quando lo si considera e lo si riserva alle spese d’investimento, quelle che producono una spinta al volano economico di un Paese.

Inoltre, un debito così elevato potrebbe essere giustificato e bilanciato da una crescita economica costante e non solo legata a fenomeni congiunturali o ciclici. Purtroppo, il debito lo si è utilizzato per decenni, almeno fino all’intervento della legge n. 196 del 2009 e del Trattato per il Funzionamento dell’UE, per coprire anche spese correnti, nelle quali confluiscono proprio gli interessi passivi maturati.

Se il tasso d’inflazione è basso, come lo è stato nel periodo di recessione, l’assorbimento degli interessi passivi è modesto; se, come ora, l’inflazione sale, può diventare un altro problema serio per il nostro Paese, che dovrà, prima o poi, confrontarsi nuovamente con le regole della stabilità finanziaria e conseguente sostenibilità del debito, condizioni volute dall’UE.

Anche le regioni hanno contribuito negativamente, dalla loro nascita nel 1971, ai saldi di bilancio della finanza pubblica, causando una forte rigidità di bilancio che toglie risorse agli investimenti.

È stata una scelta squisitamente politica che ha influenzato le decisioni di bilancio, scegliendo di ricorrere al mercato finanziario (l’ultimo saldo differenziale del quadro generale riassuntivo del bilancio dello Stato), sostenendo per decenni politiche di spesa sul modello Keynesiano, pur non sussistendo più le condizioni previste da Keynes. Tutto ciò nella consapevolezza che il credito di cui si usufruisce vada effettivamente indirizzato verso obiettivi di spesa, che permettano alle generazioni future di godere di un certo grado di ricchezza e di benessere, in modo da consentire la restituzione del prestito contratto in tempi precedenti.

Si nota come i deficit pubblici interni ed esteri siano strettamente collegati e lo dimostra la situazione congiunturale delle bilance commerciali dei Paesi dell’UE. A ragion del vero, la crescita esponenziale del debito pubblico non è la sola causa del deterioramento della situazione economica di alcuni Stati europei, ma a questo si deve aggiungere lo squilibrio nei rapporti di scambio con gli altri sistemi economici.

Anche le vicende dei mercati finanziari europei confermano la tesi secondo la quale l’accensione di una crisi del debito sovrano dipende in maggior misura dalla perdita di fiducia soggettiva dei mercati, più che dal superamento degli indici convenzionali e standardizzati (da Maastricht in poi). La reputazione degli Stati, percepita a livello internazionale, ha un ruolo fondamentale nel determinare l’andamento della crisi finanziaria in Europa, a cui segue una crisi economica, dove l’economia “virtuale” ha spiazzato quella reale, incidendo quindi sulla fiducia reciproca.

In Italia, rebus sic stantibus, il debito è destinato ad aumentare, nonostante gli sforzi per raffreddarlo, se lo Stato non compensa l’aumento tendenziale annuo della spesa con le entrate, non derivanti da accensione di prestiti, ma di natura tributaria ed extratributaria (quelle del primo saldo differenziale del quadro generale riassuntivo del bilancio dello Stato)[1].

L’evoluzione inefficiente della spesa pone l’accento sulla scarsa moralità di quegli Stati che insistono a finanziare il loro funzionamento con l’accensione dei prestiti, causando un aggravamento del saldo “ricorso al mercato”, confidando troppo sulla capacità di rimborso. In tal modo il debito si autoalimenta, non avendo lo Stato le risorse necessarie a fronteggiare i pagamenti, e assume la forma di una molla, e ad ogni giro si scende di livello.

La remunerazione degli interessi sul prestito già acquisito ha, ormai, superato il 10% della spesa totale dello Stato; quindi, ci si trova con un debito che anziché essere “fisiologico” è divenuto “patologico” ed è causa di difficoltà nel raggiungere e rispettare i vincoli di bilancio come il pareggio, s’intende pareggio finanziario e non solo contabile, vincolo di natura costituzionale (art. 81 Cost. riformato nel 2012). Qui entra di prepotenza il senso di “responsabilità”, che deve costantemente essere presente in coloro che prendono decisioni pubbliche e governano amministrazioni centrali, regionali e locali. La responsabilità delle regioni nella gestione del debito non è marginale, anzi dalla fine degli anni settanta è stata una delle ragioni di incremento esponenziale del debito, godendo le regioni in quegli anni di sola finanza di trasferimento (cfr. l’art. 119 Cost. riformato).

Si è anche osservato che “qualsiasi nazione, come qualsiasi individuo, prendendo un prestito ama giocare con il proprio futuro”[2]. Ma si tratta di un gioco ad alto rischio, perché se non si contiene il gioco entro certi limiti il debito danneggia la generazione che lo contrae e soprattutto quella successiva che dovrà restituirlo, compromettendo la qualità di vita delle persone.

Fondare in modo azzardato e costante la copertura finanziaria con il debito significa, inoltre, compromettere la “legittimazione” democratica delle decisioni di bilancio (conseguenza attualmente riscontrabile nelle decisioni del governo); con legittimazione si intende una provenienza dal basso, dalla collettività, che, sul presupposto della buona fede, riconosce in qualche misura la rilevanza di un comportamento giuridicamente qualificato, in base al principio di “effettività” della norma giuridica.

Si è detto che “il regime democratico-rappresentativo scopre la propria debolezza di fronte ai vincoli della finanza pubblica, in particolare la produzione di elevati disavanzi di bilancio e l’aumento del debito pubblico”[3]. In questo caso si nota una evidente discrepanza tra decisione e responsabilità. Le generazioni future che saranno destinate a pagare, e non si sa bene con quali sacrifici, il debito attuale avranno difficoltà ad esprimersi con il consenso elettorale; mentre chi vota oggi condividendo scelte azzardate, non sarà in grado di manifestare un controllo democratico attraverso i meccanismi di dissenso e di protesta, quando ormai gli effetti negativi delle scelte operate emergeranno con tutte le loro conseguenze e ricadute in ambito economico.

Del resto, far leva sul debito anziché incrementare le entrate fiscali e, soprattutto, ridurre le spese, secondo la logica della spending review è premiante dal punto di vista elettorale, perché il debito è opaco, consente di vedere meno ciò che sta al di là, al contrario dell’imposta. Posticipando le decisioni più difficili i governi si garantiscono il potere, fino a quando le condizioni esterne legate per lo più dall’andamento dei mercati finanziari, le rendono inevitabili e non più rinviabili. Allora ecco spuntare le emergenze di risanamento dei bilanci pubblici, che sono in grado di giustificare così le decisioni impopolari, che dagli elettori vengono percepite come l’ultimo salvagente per non affondare, innescando nella società la paura del fallimento dello Stato[4], l’emergenza che giustifica tutto!...

Le politiche macroeconomiche degli Stati che hanno aderito all’euro, con riferimento particolare dal 2010 ad oggi, possono essere lette con differenti sfumature concettuali. Innanzitutto, serpeggia la convinzione che la crisi dei debiti sovrani si possa affrontare con la ricostruzione degli equilibri di bilancio, con conseguente rallentamento del ricorso al mercato finanziario (indebitamento); in secondo luogo, la ricerca dei criteri a favore della ripresa economica va nel senso delle riforme strutturali (in tutta Europa), che però si sono concentrate per rendere più flessibile il versante dell’offerta nel sistema economico complessivo[5].

Questo ragionamento, non certamente privo di una sua ratio, è criticabile, come se si fosse lasciato spazio a politiche di bilancio prigioniere della rigidità finanziaria, trascurando un’efficace programmazione degli obiettivi di crescita e di occupazione, soprattutto in Italia. La politica di bilancio, unitamente alla politica fiscale e monetaria, dovrebbe essere collocata più al centro e in una diversa prospettiva, in modo da consentirle l’esercizio della funzione che le è propria, cioè progettare e coltivare le scelte pubbliche più adeguate al soddisfacimento dei bisogni delle persone.

Il rispetto dei valori fondanti dell’ordinamento giuridico implica la necessità di scelte operate da autorità democraticamente legittimate, verso il traguardo della fiscal union, cioè l’omogeneità delle politiche di bilancio in Europa, l’armonizzazione dei sistemi di bilancio e dei conti pubblici. Questo garantirebbe con più vigore la difesa e la protezione della moneta unica, a cui non si può rinunciare senza pagarne il prezzo. Ciò darebbe ristoro ai problemi generati dai debiti sovrani, evitando di scivolare verso situazioni di default.

In ultima analisi, si potrebbero rimettere in moto quei meccanismi di trasferimento di risorse ispirati ai modelli di solidarietà, a cui fa riferimento l’intera Unione europea. Di certo sarebbe auspicabile un’armonizzazione anche tributaria, creando maggior equità fiscale e minor concorrenza sleale da parte delle imprese per la affannosa ricerca di bassi costi ed alti profitti. Poi una political union, un progetto di promozione umana e sviluppo sociale a livello europeo[6].

I principi e gli ideali che hanno ispirato le Costituzioni europee potrebbero essere ripresi, confermati e garantiti da una Costituzione europea che i Paesi membri devono trovare il coraggio di preparare e approvare in tempi ragionevoli. Ma bisogna inserire prima nelle singole costituzioni e poi in quella europea nuovi limiti che impediscano che la tecnocrazia possa sostituirsi alla democrazia, creando i presupposti per governi autoritari e pericolosi. Con ciò si consentirebbe di affermare la capacità delle istituzioni di governare le risorse e razionalizzare le spese centralmente, rendendo accessibili a tutti beni, servizi e opportunità, che singolarmente i Paesi membri non sono più in grado di garantire, se non a costi molto elevati. Ma si tratta di un percorso di non facile attuazione.

Dunque, dopo aver indugiato sul sistema finanziario complessivo e sulle sue evoluzioni possibili, vi è da dire che la contabilità e la finanza delle regioni è sempre al centro di un movimento dinamico di riforma, alimentato da un ampio dibattito scientifico e politico.

Questo movimento parte dai “piani di risanamento della finanza pubblica”, per orientarsi successivamente verso il “patto di stabilità” interno e verso gli interventi legislativi e normativi che hanno portato le regioni a consolidare nel tempo le loro posizioni, seppure tra alterne vicende. Si arriva alla riforma del titolo V, parte seconda della Costituzione, in cui cambia decisamente la prospettiva regionale nel contesto italiano ed europeo. Da ultimo, dopo il recente tentativo fallito, con referendum, di ulteriore riforma costituzionale, si approda all’“armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle regioni, degli enti locali e dei loro organismi”, che nel 2011, nel 2014 e nel 2016 compongono il nuovo assetto dell’ordinamento contabile regionale e delle nuove leggi di bilancio.

Anche il nuovo ruolo amministrativo e quello dell’autonomia tributaria che le regioni hanno acquistato con le recenti riforme fa maturare un altro valido motivo per riformare parzialmente la Costituzione, per adeguarla alle esigenze del tempo, cancellando le ambiguità ancora presenti, tenendo conto in primis di ciò di cui sopra.

Il reperimento delle risorse, la razionalizzazione delle spese, il funzionamento complessivo del Trattato dell’Unione europea e il suo adeguamento alle logiche interne dei paesi membri sono i tre nodi gordiani che si dovranno sciogliere con il contributo di tutti, con un esercizio corretto del potere e della “responsabilità”, pensando all’importanza che le due funzioni esercitano nelle decisioni politiche[7] 

 

[1]In sostanza, la differenza tra le entrate tributarie più quelle extratributarie e le spese correnti determina il saldo differenziale chiamato “risparmio pubblico”; se è negativo, diviene un “consumo pubblico di risorse private”, quando per es. le spese correnti che contengono l’ammontare degli interessi passivi sul debito, superano le entrate correnti. La politica ha tentato di “addomesticare” questo saldo, depurando le spese correnti dagli interessi passivi generati dal debito pubblico, in modo da far rilevare che senza questo fardello la differenza sarebbe sempre positiva; quindi, meritevole per il governo che la sta rivendicando. Ma, secondo chi scrive, è un’operazione meramente algebrica, che non sposta gli squilibri di bilancio, ben sapendo che bisogna “fare i conti con l’oste”, altrimenti ci si trova in un mare di difficoltà.

[2] J. Attali, Come finirà?L’ultima chance del debito pubblico, Fazi Editore, Roma, 2010, p. 182.

[3] L. Verzichelli, La politica di bilancio, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 11

[4] L. Bini Smaghi, Austerity European Democracies against the Wall, Centre for European Policy Studies (CEPS), Brussels, p. 1 ss.

[5]P. De Grauwe, Macroeconomic Policies in the Eurozone since the Sovereign Debt Crisis, KU Leuven Euroforum, 2014, p. 16 ss.

[6] F. Pizzolato, Integrazione giuridica e identità plurale dell’Unione europea, in Anthopologica, 2014, dove vi sono interessanti riflessioni sulle varie forme di integrazione politica e giuridica dell’ordinamento sovranazionale.

[7] In tema di “responsabilità” mi è caro ricordare l’amico e professore Vincenzino Caramelli, compianto autorevole studioso e brillante docente di economia e scienza delle finanze; è stata una guida scientifica, accademica e morale di alto profilo per me e per il Dipartimento di Economia e Statistica “S. Cognetti de Martiis”, a cui ho l’onore di afferire.