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ADULTI

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ADULTI

“Quando sarò grande, io…” chissà che cosa credevo avrei fatto o sarei stata. Di certo diversa, diversa da tutti. Non mi sarei fatta intimorire da nulla in nome dei miei ideali.

Adulti, dunque. Così vengono definiti quelli che hanno finito di crescere, che hanno raggiunto il pieno sviluppo fisico e mentale. Adulti, siamo adulti.

E che mondo è quello dei grandi?

Ora che mi ci trovo in mezzo, osservarli, osservarmi è davvero un’esperienza che richiede una certa onestà e forse anche un certo pelo sullo stomaco per non gridare al fallimento, alla débâcle più completa.

A volte si incontrano involucri ben vestiti, professionalmente arrivati, che cercano di tappezzare con una bella camicia ferite antiche mai rimarginate, fragilità, psicosi, manie. L’ipocondria e la paura della morte sono le più gettonate, ma non sono da meno la fobia della solitudine, della vecchiaia che bussa alla porta, del fallimento amoroso… ci si trova tutti in palestra in queste occasioni, a rassodare il rassodabile, tutti insieme allegramente a camminare sul tapis roulant della nostra disperazione. In altri casi donne adulte sbandierano sguaiatamente la loro indipendenza, ostentando una solidarietà che non hanno mai avuto e che ora risulta affettata, inautentica, forzata, coperta da un profumo inebriante e da risate eccessive; condividono garrule isterie e delusioni per qualcosa che avrebbero voluto e che non è avvenuto così come l’avevano sempre accarezzato, idealizzato.

Sembra quasi una rincorsa alle emozioni, quelle sopite fin dalla fanciullezza, non espresse a tempo debito, ma ora accozzate, esplosive, inopportune, a volte grottesche e, come un profumo troppo fruttato su una pelle cadente, denunciano una marcescenza, non una fioritura.

Eppure, ci si sente a cinquant’anni ancora acerbi, pare di non aver ancora vissuto davvero, ma di attendere dal destino non si ha più voglia. Si vuole agire, procedere, arraffare qualcosa, purché sia qualcosa, dal lauto banchetto dell’esistenza, ma spesso ci si agita a vuoto, pigiando un acceleratore in folle. Girare tra queste anime e far parte di questo mondo non può che provocare una frustrazione stridente in noi… dove siamo finiti? Questo è quello che abbiamo sempre sognato?

Il tempo dall’alto sorride beffardo, mentre annaspiamo in un conflitto costante tra ciò che avremmo voluto e ciò che siamo. Che disdetta! O forse no, è una benedizione. Anzi, è di certo una benedizione!

Per la prima volta, dopo anni di inseguimenti vani, possiamo arrenderci all’evidenza, possiamo guardarci con tenerezza, possiamo accogliere i nostri dettagli, così spesso vituperati, con un sorriso. Siamo quel che siamo, non c’è da forzare, c’è solo da amare.

C’è da amare l’imprevisto che è avvenuto per comprenderne i risvolti, per osservare da scorci inaspettati panorami diversi e grandiosi, c’è da togliersi i panni finti, sporchi e stare a proprio agio nella propria pelle, segnata da una storia unica, forse dolorosa, ma eccezionale, in cui abbiamo avuto l’onore di fare la conoscenza di noi stessi.

Essere adulti vuol dire focalizzare attentamente sul dono che quell’io bambino conserva da sempre e che il nostro io adulto può finalmente regalare con forza, con decisione e sapienza. Vuol dire non aver più bisogno di omologarsi a nessuno, perché le gambe tengono bene e le braccia e le mani creano senza paura, abbracciano, collaborano con scelte chiare alla costruzione del sogno della nostra vita che non è, non è probabilmente quello che avevamo immaginato, ma è ontologicamente corrispondente a noi, è  più intenso, è vero, è quello giusto.