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Dalla vetta del monte Maslow

Una riflessione sui maestri nelle relazioni professionali
Monte Maslow
Monte Maslow

Dalla vetta del monte Maslow

Ognuno di noi, se pensa alla propria vita in generale e all'esperienza lavorativa in particolare, ricorda le persone da cui ha imparato di più. 

Queste persone, sul lavoro non importa se collaboratori o superiori, hanno lasciato una traccia così profonda che ci sorprendiamo a ricordarle quando il loro insegnamento o il loro esempio affiorano nel nostro agire.

Limitandosi al campo professionale: perché alcune persone ci insegnano qualcosa e altre, pur potendolo, pur essendo preparate o addirittura delle fuoriclasse, non lo fanno? Potrebbe essere una questione di collocazione?

Le persone che ci hanno insegnato qualcosa di davvero importante sono state sulla vetta del monte Maslow (con licenza sostituiamo l’originaria piramide). In questo spazio di visuale aperta a 360 gradi, esse si sono confrontate con i propri bisogni più profondi e quindi con le domande che hanno a che fare col senso delle cose.

Ma come ci sono arrivate fin lassù? Nella vita professionale sperimentiamo essenzialmente due approcci: si può lavorare per raggiungere la vetta o raggiungere la vetta come conseguenza dell’aver ben lavorato (consiglio, a questo punto, la lettura del contributo su ambizione e competizione). 

Chi lavora con l’ossessione per la vetta imposta il proprio percorso professionale sul raggiungimento di un obiettivo di status e dunque azioni e relazioni tendono ad essere (im)piegate a questo fine. Tutto è volto a saturare competitivamente ogni spazio vuoto prima che lo riempiano altri.

È un percorso in cui non trova uno spazio sereno l'imprevisto, lo stop, il pausare, una distrazione, una riflessione inutile o una relazione genuina con qualcuno che non è propriamente mainstream, tutte cose che potrebbero rallentare o mettere in cattiva luce.

Una vera e propria corsa, in tensione continua, che spesso è imbiancata da un'apparentemente candida, ma a ben guardare perversa, retorica del merito. Nell'attuale mercato delle competenze, dove più o meno tutto può essere certificato da un corso a pagamento che rilascia bolli, patenti, coccarde e fiocchi, la gara a chi può esibire il medagliere più pesante prevede esclusivamente solisti, perché tutti sono gli avversari di tutti. Ecco perché non si insegna niente a nessuno.  

Per chi semplicemente lavora, l'obiettivo di status non è il principale carburante della motivazione. Il senso del lavoro è principalmente definito dal desiderio di veder realizzata un'opera attraverso il proprio contributo, dalla scoperta di trovarsi capaci di creare qualcosa di valido, di dare un significato meno superficiale alle proprie azioni.

Ecco che veniamo al nostro quesito iniziale: chi imposta il percorso professionale per arrivare primo prende tutto quello che può prendere, chi per dare il proprio contributo dà tutto quello che può dare.

È nell’ambito di questo dare, di questa volontà di contribuzione, che la situazione può prendere una piega ancor più esistenziale, che si esprime nella preoccupazione di dar vita ad una nuova generazione per lasciare a questa una traccia, un’eredità. 

Arrivati ad un certo punto (non ad una certa età!), una vita passata esclusivamente per sé stessi inizia a pesare come la prigionia di un’adolescenza perenne. 

Nasce quindi l'esigenza di compromettersi fino in fondo, mettendo in circolazione il meglio di sé e di ciò che si sa fare, nella percezione di sé stessi non solo come individui ma anche come anelli di una sequenza generazionale. Ci si mette così a disposizione di un futuro che, con ogni probabilità, non si avrà il tempo di vivere. Questa sublime modalità di realizzazione è, con le parole del sociologo Mauro Magatti, espressione di una libertà che non è consumo individualizzato ma opera relazionale.

Capiamo meglio quanto in discussione se pensiamo alla bottega. L’artigiano non si risparmia nel trasferire arte e mestiere all’apprendista, pur nella consapevolezza che, prima o poi, il giovane prenderà la propria strada e aprirà una bottega che gli farà concorrenza. Questo artigiano, più del timore di perdere qualche cliente, è preoccupato dal fatto che, ovunque il giovanotto andrà, la comunità ne riconoscerà la filiazione professionale.

Non casualmente, questo bisogno di generatività è il miglior fattore abilitante del processo culturale, ovvero la manifestazione più nobile del dialogo intergenerazionale, dove la cultura, intesa come il patrimonio acquisito di conoscenze che si prepara per essere tramandato, è il gesto di cura per chi viene dopo.

Con queste chiavi di lettura potremmo farci un'idea del perché alcuni sono maestri e altri no. E domandarci se per caso, nel nostro agire professionale, non siamo stati talvolta colpevoli di aver generato, piuttosto che filiazione, orfanezza.

Epilogo

Chi raggiunge la vetta del monte Maslow ha compiuto un viaggio straordinario ma, come ogni alpinista sa, ci si trova solo a metà del percorso. Dopo le fatiche dell’ascesa e il brivido della vetta, è durante la discesa che si tirano le fila: infatti si attraversano le stesse situazioni, gli stessi fenomeni, gli stessi bisogni incontrati durante la scalata – tutti rimasti là dove li si era lasciati – ma, con gli occhi pieni dell’orizzonte, ora possono essere guardati e attraversati diversamente.

È sulla strada del ritorno che si diventa maestri. Qui si gioca la differenza fondamentale tra l’essere arrivati e l’essere compiuti.