Identità professionale
In questi giorni si sente spesso parlare del progetto, promosso dal Dipartimento della funzione pubblica, denominato “Ri-formare la PA. Persone qualificate per qualificare il Paese”.
Un piano di formazione e aggiornamento volto alla valorizzazione e sviluppo del capitale umano della Pubblica amministrazione.
Si tratta certamente di un progetto interessante, ambizioso e di grande impatto, ma scorrendo documenti e articoli, ho notato che alcuni termini ricorrono con una certa frequenza (ad esempio si parla di competenza, di “mestiere”, di vertice “burocratico”), mentre, altri termini, mancano completamente.
Ad esempio, non ho trovato, almeno al momento, richiami espliciti alla dimensione professionale che connota oggi il dipendente pubblico. Vale a dire, le professionalità che esprime oggi la pubblica amministrazione, in comparazione alle attese in ruolo che definiranno le professionalità da acquisire, anche, attraverso la somma di enne competenze e affinché si sia in grado di affrontare le sfide dell’immediato futuro, date dalle progettualità richieste dal PNRR, e non solo da questo.
Insomma, a farla breve, si parla di mestiere (il che va anche bene), ma non si parla di professionalità.
La Treccani rappresenta bene la distinzione concettuale che caratterizza mestiere e professionalità, riconducendo l’uno al mondo del fare (mestiere) e l’altro al mondo del sapere (professione). Ancora, precisa la Treccani, i mestieri si basano sul fare e richiedono capacità e competenze di tipo essenzialmente pratico, mentre le professioni sono basate sul sapere, su un bagaglio di conoscenze di tipo intellettuale. Il mestiere viene appreso con la pratica e il tirocinio, mentre la professione richiede un titolo di studio formale rilasciato da istituti di studi superiori, in particolare dalle università.
Questa limitata ampiezza e chiarezza terminologica mi fa pensare che siamo di fronte, di nuovo, ad un’occasione persa. Intendo dire, l’occasione che avremmo potuto avere per recuperare la dimensione professionale che caratterizza il dipendente pubblico, al pari di quello privato.
Per esemplificare e farmi capire, nel comparto università, “tecnico-amministrativo” è una categorizzazione tanto ampia quanto debole nel significato di ciò che realmente esprime.
Cosa significa essere un “tecnico-amministrativo”? E’ una dimensione questa che non chiarisce, di per sé, la dimensione professionale.
Tecnico-amministrativo non significa nulla o significa davvero poco, al pari di: faccio il medico, faccio il professore, faccio l’insegnante. Il tema è: medico, di cosa? Professore, di cosa? E insegnante?! Cosa insegni?!
Essere un tecnico-amministrativo certamente non significa occuparsi, per definizione, di contabilità, di bilancio o di diritto amministrativo (luogo comune nel quale molti ricadono, vi assicuro, con una certa frequenza). Come per le categorie professionali rappresentante in breve poco sopra, essere tecnico-amministrativo, significa una pluralità di cose.
Forzo il concetto, ma al pari del mondo produttivo, all’università operano molteplici professionalità, in buona parte anche equiparabili alle categorie che ben conosciamo dalla nostra esperienza con il privato.
Certo, l’Università produce conoscenza e ciò implica che, così come nella P.A. sono presenti le professionalità più note del privato (per intenderci: professionisti H.R., esperti di comunicazione, architetti, ingegneri, avvocati, e così via …) siano anche presenti professionalità espressamente collegate agli ambiti, appunto, della conoscenza (dalla didattica alla ricerca e passando per la “terza missione” che si esprime nel trasferimento del sapere nel tessuto socio-economico).
Al di là di queste esemplificazioni, ciò che mi preme sottolineare in questo momento è il tema dell’identità professionale di chi opera nell’università, in quanto aspetto non più trascurabile.
L’identità, nelle definizioni più comuni, è traducibile con il “complesso di caratteri che distinguono, una persona o una cosa, da tutte le altre”.
Il professionista è colui che “utilizza nel proprio lavoro un corpo di conoscenze e abilità (competenze), che devono essere assimilate, interiorizzate e continuamente rinnovate nel tempo” (P. Piva – I servizi alla persona, Ed. Carocci Faber, 2007).
In sintesi, l’identità professionale è quella parte di noi che ci caratterizza al lavoro, come professionisti appunto, spesso appartenenti ad una data “famiglia professionale”; l’identità professionale è dunque parte e allo stesso tempo, intrinseca e complementare, all’identità globale citata poco sopra. È il nostro “io” per come questi si esprime nei contesti lavorativi e che, al contempo, nell’esprimere la molteplicità di competenze che ci caratterizzano, si plasma e adatta alle richieste stesse del contesto.
Bene, fin qui tutto chiaro.
Ma nel mondo accademico c’è un’altra anomalia. Non solo siamo ancora lontani dal comprendere il senso del contributo delle professionalità che definiscono questo contesto, schiacciando in una generica categorizzazione (il tecnico-amministrativo), le innumerevoli peculiarità che esprimono i diversi contributi professionali messi al servizio della vita stessa dell’istituzione e per la sua crescita. L’anomalia avviene quando, questa stessa categoria, viene definita attraverso una negazione. Quindi all’università c’è il personale docente e il personale NON docente. C’è il personale docente e il personale di supporto. Supporto di cosa? È questo il punto.
Ecco, è un retaggio che nel tempo abbiamo sentito sempre più distante e appartenente al passato, ad una visione (generalista e indefinita) del mondo professionale che, via via, sembra (sembrava?!) essere sempre più superata; però il tema è che accade ancora oggi di sentirsi (non) identificati attraverso una negazione. E allora mi chiedo: cosa significa “non essere”. Cosa sei, allora, se “non sei”?
Forse è via via più chiaro il punto al quale vorrei arrivare.
Da un lato e come molte volte già detto, credo sia importante acquisire una più ampia e diffusa consapevolezza organizzativa, dei ruoli e funzioni che la compongono. L’una funzione non esisterebbe senza l’altra, e l’Università stessa non esisterebbe senza il contributo di tutti. Il personale accademico, nelle proprie innumerevoli specificità disciplinari, nulla potrebbe fare senza il contributo del personale “tecnico E amministrativo” se questi non fosse, parimenti, differenziato e specializzato, nelle competenze richieste per la propria “famiglia professionale” e in funzione degli obiettivi che l’organizzazione stessa si dà.
Allo stesso modo, i “tecnici E GLI amministrativi” non potrebbero esistere senza il personale docente, o meglio, non potrebbero esistere nell’università ma, come professionisti - attraverso l’elaborazione delle competenze possedute e esprimibili in conoscenze e capacità adattabili a contesti plurimi - potrebbero benissimo esprime le proprie conoscenze e capacità altrove, riappropriarsi così del proprio essere. Essere un formatore, essere un ingegnere, essere un avvocato, essere un H.R. Essere.
A farla breve, la logica che sottostà al funzionamento delle università è win win, semplicemente perché si vince insieme, docenti e tecnici-amministrativi, nella convergenza fra le differenti finalità dei ruoli che li caratterizzano (politico e gestionale) e delle diverse professionalità che esprimono, al di là quindi delle macro categorie e delle dicotomie.
D’altro canto, il tema è più delicato perché, appunto, muovendoci nell’alveo dell’"identità", riconoscere qualcuno per ciò che NON è (invece che per ciò che è), crea demotivazione, la demotivazione inficia il clima, e un clima organizzativo insano, danneggia l’organizzazione in quanto tale, limitandone le possibilità di espressione e crescita.
Non molto tempo fa, ho appreso che (fortunatamente), queste riflessioni non appartengono esclusivamente a “mie malinconie”. Lo stesso mondo accademico, da molti anni ormai, sta focalizzando le proprie ricerche nell’esplorazione della “Higher Education Studies” e, al suo interno, della disciplina dell’"Higher Education Management dell’università". Quest’ultima disciplina parla specificamente del personale tecnico-amministrativo, dal punto di vista professionale, dei ruoli e dell’identità, ma anche di molto altro.
Preme sottolineare come molti di questi concetti trovati nella letteratura, anche se sembrano specifici di un paese, esempio gli UK, non lo sono affatto; questo succede perché l’università è un mondo a parte, con specifiche connotazioni e dinamiche, e chi studia l’università, rileva vi siano similarità che l’accomunano e ciò al di là delle differenze di contesto e culturali che contraddistinguono ogni nazione.
Tornando a parlare dei tecnici-amministrativi, come evidenzia Celia Whitchurch nel suo articolo “Who do they think they are? The changing identities of professional administrators and managers in UK higher education”, le università contemporanee, che servono i mercati dell'istruzione superiore di massa, si trovano ora ad occuparsi di progetti complessi dove, i concetti consolidati di amministrazione accademica e gestione decentrata, sono stati scalzati da strutture e culture istituzionali più fluide. Questi sviluppi hanno portato ad importanti cambiamenti nelle identità dei tecnici-amministrativi e dei manager delle Università, proprio perché chiamati ad adottare ruoli di staff sempre più specializzati. Trent'anni fa, infatti, si parlava di "amministrativi" (Shattock, 1970) o anche di "personale di supporto" (Sloman, 1964, p. 87) e queste definizioni hanno promosso l'idea del funzionario pubblico generalista e genericamente dedito, agli aspetti legali e normativi della politica, e alla loro attuazione, segnando il confine tra quella che era vista come ''l'Amministrazione'' e l'attività accademica, per cui le identità del personale amministrativo e accademico erano chiaramente distinte.
Man mano che il mondo dell'istruzione superiore diventava più complesso (ed è Ronald Barnett che ci parla di complessità e di super-complessità nell’università che cambia, 2000), e le istituzioni affrontavano le implicazioni delle rivoluzioni della conoscenza e delle comunicazioni, i confini organizzativi diventavano più liberi, più fluidi, generando assetti organizzativi molto più diversificati e nei quali è sempre più richiesta una buona dose di specializzazione (e di competenza).
Ciò detto si sono consolidati ruoli e identità di “professionals” che si muovono poi in spazi di lavoro condivisi tra docenti e tecnici-amministrativi, denominati, in letteratura, “Third spaces of collaboration”, cioè spazi di interazione, collaborazione, e anche di sovrapposizione di attività e responsabilità fra amministrativi e docenti.
Ma non mi voglio dilungare oltre sui tecnicismi – vi lascio un po' di bibliografia, se vorrete approfondire – ciò che mi preme evidenziare in questa sede, è l’importanza di riconoscere, di riconoscersi, anche attraverso lo sguardo degli altri, per la propria unicità, i propri talenti, ciò che siamo, ciò che conosciamo e quanto sappiamo fare. Per la nostra professionalità appunto.
Occorre conoscersi, riconoscersi e rispettarsi reciprocamente, nella comune corrispondenza di obiettivi, ma anche di ideali e valori che caratterizzano ciascuno di noi nella propria vita privata, ma anche nell’attività lavorativa, nella vita professionale e nell’espressione della propria professionalità, all’interno del gruppo di lavoro e per la propria istituzione; come parte integrante di una comunità che solo nella chiara rappresentazione dei ruoli che la connotano, nell’uso corretto delle definizioni, così come nella convergenza di intenti, visioni e obiettivi, potrà esprimersi al meglio delle proprie possibilità.