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La fabbrica dello Stato

L’ingranaggio del potere
L’ingranaggio del potere

L’ultimo libro di Lorenzo Castellani, L’ingranaggio del potere, si è subito imposto, sin dalla sua uscita lo scorso ottobre, come uno dei testi che hanno destato maggiore interesse fra i lettori, ma soprattutto fra gli addetti ai lavori. In questo saggio Castellani, che insegna Storia delle istituzioni politiche alla Luiss, ripercorre la storia ancora inesplorata della sovrapposizione fra democrazia e tecnocrazia, fra politica e tecnica, una storia che affonda le radici nella classicità ma che emerge nella modernità solo a partire dal Diciannovesimo secolo, quando i burocrati di professione entrano nella macchina dello Stato iniziando a manovrare i fili del potere, e arriva fino alla tecnodemocrazia odierna, in cui élites irresponsabili e politiche demagogiche entrano in fatale collisione, e si aprono crepe profonde nella legittimità della grande macchina del potere.

Burocrati di alto profilo sono ad esempio Emmanel Macron e Lord Robin Butler, il più stretto collaboratore dei Primi ministri inglesi Thatcher, Major e Blair, sono gli esperti americani che affluiscono dalle grandi università della Ivy League o dai think tanks di Washington, dalle società di consulenza internazionali, dagli studi legali, dalle grandi aziende multinazionali. Ma sono anche, per guardare in casa nostra, i dirigenti della Banca d’Italia, centro di potere trasversale “ove si è forgiato il pezzo più pregiato della classe dirigente del Belpaese”.

I tecnocrati sono ovunque, nella burocrazia nazionale e sovranazionale, negli enti internazionali, nelle commissioni e nelle authorities, nelle banche centrali e nei tribunali. Non esiste regime politico che non sia popolato da esperti e da figure non elettive che esercitano un potere pubblico. E in tale contesto opera e prospera anche l’“eurocrazia”, la struttura di potere dell’Unione Europea, un potere implacabile che impartisce direttive e regolamenti a centinaia di milioni di persone: funzionari senza volto, ad elevata competenza tecnica, che dai loro uffici nelle direzioni generali prendono decisioni dettagliate su determinati temi specialistici.

Pubblichiamo qui di seguito l’incipit del capitolo “La fabbrica dello Stato”, nel quale l’autore illustra l’origine dello Stato:

L’istituzione fondamentale per l’organizzazione sociale dell’Occidente è stata l’ascesa – e lo sviluppo – dello Stato territoriale centralizzato.

Nella sua affermazione come unità politica fondamentale nel diciassettesimo e diciottesimo secolo, lo Stato è diventato il centro di lealtà suprema dell’uomo e, più recentemente, il rifugio più sicuro contro le incertezze e le frustrazioni di altre sfere della vita. Mentre istituzioni come famiglia, comunità locale e religione si sono progressivamente svuotate di senso sociale e di carica simbolica, lo Stato si è imposto come forza istituzionale dominante e come il simbolo più evocativo di unità e finalità culturali, almeno fino alla metà del ventesimo secolo. Come si afferma, dunque, una tale forza? Se esiste un’origine dello Stato, comune a tutto l’Occidente, essa si trova nelle circostanze e nella conduzione della guerra.

Nella Francia e nell’Inghilterra altomedievali, questo proto-Stato non è altro che un legame limitato tra il capo militare e i suoi uomini. La primissima funzione del re è quella di condurre la guerra. Col tempo, però, alla funzione difensiva se ne aggiungono altre, di natura giudiziaria, fiscale e persino religiosa, così che, nel corso dei secoli, lo Stato evolve da complesso militare a istituzione capace di influenzare quasi ogni aspetto della vita. L’evoluzione è intermittente e graduale, ma è al contempo una delle tendenze più chiare e inesorabili della storia occidentale, come mostrerà Max Weber. Ed è in questo processo di trasformazione, nel passaggio dallo Stato militare allo Stato legale ed economico, che si può meglio scorgere l’influsso dello Stato su altri gruppi e istituzioni della società.

Tuttavia, considerare lo Stato come mera sovrastruttura del potere non è sufficiente. Al principio, infatti, Stato e governo erano la stessa cosa. Lo Stato era ben poco più del re e si configurava come un rapporto verticale tra re e suddito. Per lungo tempo, la forte concorrenza nell’obbedire a Chiesa, classe e corporazione economica, rese relativamente tenue il legame politico fra la maggioranza delle persone nel territorio di una nazione. Come osservato da Robert Nisbet, la qualità rivoluzionaria della storia politica moderna risiede nel graduale distaccamento del potere politico dai legami che gli erano stati imposti da autorità precedenti, e nella crescente importanza funzionale del rapporto politico nella vita di molti esseri umani.

Lo Stato moderno è, in definitiva, potere centralizzato e monopolio della violenza in un dato territorio. Ed è un potere monistico poiché la sua autorità si estende direttamente a tutti gli individui entro i suoi confini. Esso può essere diviso al suo interno, assumere forme differenti, delegare parzialmente i propri poteri, ma la sua caratteristica fondamentale è essere l’unità essenziale del potere pubblico. La straordinaria unità di rapporti nello Stato contemporaneo, insieme con il massiccio accumulo di funzioni effettive, fa del controllo dello stesso la meta maggiore, il maggior premio delle lotte per il potere.

Nell’epoca pre-rivoluzionaria vi erano ancora troppe barriere sociali tra il potere spettante al monarca e l’esecuzione effettiva di questo potere sugli individui. Il prestigio e l’importanza funzionale della Chiesa, della famiglia, delle corporazioni e delle comunità locali, dei Parlamenti quali istituzioni sociali forti limitavano l’assolutezza del potere dello Stato. La storia dell’espansione statale è stata caratterizzata dal graduale assorbimento di poteri, diritti e responsabilità detenuti in precedenza da altre associazioni e dalla crescente immediatezza del rapporto tra l’autorità sovrana dello Stato e il singolo cittadino.

Inoltre la storia dello Stato, e delle sue articolazioni, si lega direttamente all’ascesa del capitalismo. Certamente hanno giocato un ruolo fondamentale i conflitti economici interni al sistema corporativo e l’ascesa della nuova classe borghese nelle città, ma è oramai acclarato che senza i cambiamenti nelle istituzioni politiche verificatisi nel Quattrocento e nel Cinquecento, l’affermazione del capitalismo non sarebbe avvenuta allo stesso modo. […]

Lo sviluppo da parte della comunità politica come sistema legale unificato, sanzionato dal potere militare, da sostituire al pluralismo giuridico delle corporazioni, della Chiesa e del feudo; l’affermarsi di sistemi standardizzati di moneta, peso e misura; le sovvenzioni e protezioni fiscali ai nuovi imprenditori che stavano cercando di operare al di fuori del sistema feudale e la creazione di uffici amministrativi ben disciplinati fornirono un potente stimolo allo sviluppo del capitalismo. Soprattutto, però, lo Stato offrì al capitale un ambiente neutralizzato, impersonale e calcolabile e quindi una “camera” entro cui i capitalisti potevano agire come individui, invece che come membri di un gruppo tradizionale. Considerato ciò, alcuni studiosi si sono chiesti in quale misura il capitalismo fosse una creatura dell’uomo d’affari e fino a che punto, invece, esso fosse la conseguenza dell’implosione del sistema medievale causato dalla potenza militare dello Stato assoluto.

Fra lo Stato e l’individuo, dunque, sorse un’affinità originaria, che non fu oscurata dai conflitti, anche intensi, tra il diritto pubblico e il diritto privato. Anzi la storia dello Stato, in termini politici, si lega alla riflessione e ai problemi della libertà individuale, dei diritti dell’uomo e dell’uguaglianza sociale. Il significato dello Stato nell’Europa occidentale non può essere limitato a mere ragioni di potere e governo, come ancora faceva Niccolò Machiavelli all’inizio del Cinquecento. Vista con secoli di distanza l’influenza rivoluzionaria dello Stato è venuta dal fatto che esso è risultato un complesso di diritti individuali, di libertà e uguaglianze e, cosa forse più importante di ogni altra, una sfera crescente di partecipazione popolare al funzionamento della società.

Come sottolineato da Tocqueville, l’effetto dello Stato nella storia è fondamentalmente livellatore. In questo rapporto tra individuo e Stato, protesi al superamento del vecchio ordine, nasce il cittadino.

Lorenzo Castellani, L’ingranaggio del potere, collana Oche del Campidoglio, Liberilibri 2020, pagg. 248, euro 17.00, ISBN 978-88-98094-71-4