Mani Pulite: cosa è stata e cosa ci ha lasciato - Parte quarta
Mani Pulite: cosa è stata e cosa ci ha lasciato - Parte quarta
Io stringo i pugni e mi dico
che tutto cambierà
Neffa, Cambierà
4.5. Lo sdegno, la solitudine, la desolazione e la paura
Il racconto e la comprensione di Mani Pulite non possono prescindere dai sentimenti indotti in coloro che ne subirono l’impatto più diretto, gli accusati.
Si sceglie di rappresentarli senza vani e presuntuosi commenti, attraverso le parole di due di essi che, dopo aver parlato, misero volontariamente fine alle loro vite.
La loro testimonianza è scritta in lettere.
La prima è quella che SM indirizzò al presidente della Camera dei Deputati prima di spararsi nella cantina di casa (vedi parte seconda, note nn. 9 e 10).
«Egregio Signor Presidente,
ho deciso di indirizzare a Lei alcune brevi considerazioni prima di lasciare il mio seggio in Parlamento compiendo l’atto conclusivo di porre fine alla mia vita.
È indubbio che stiamo vivendo mesi che segneranno un cambiamento radicale sul modo di essere nel nostro paese, della sua democrazia, delle istituzioni che ne sono l’espressione. Al centro sta la crisi dei partiti (di tutti i partiti) che devono modificare sostanza e natura del loro ruolo. Eppure non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito delle “decimazioni” in uso presso alcuni eserciti, e per alcuni versi mi pare di ritrovarvi dei collegamenti. Né mi è estranea la convinzione che forze oscure coltivano disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la “pulizia”. Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e i loro sistemi di finanziamento. C’è una cultura tutta italiana nel definire regole e leggi che si sa non potranno essere rispettate, muovendo dalla tacita intesa che insieme si definiranno solidarietà nel costruire le procedure e i comportamenti che violano queste regole.
Mi rendo conto che spesso non è facile la distinzione tra quanti hanno accettato di adeguarsi a procedure legalmente scorrette in una logica di partito e quanti invece ne hanno fatto strumento di interessi personali. Rimane comunque la necessità di distinguere, ancora prima sul piano morale che su quello legale. Né mi pare giusto che una vicenda tanto importante e delicata si consumi quotidianamente sulla base di cronache giornalistiche e televisive, a cui è consentito di distruggere immagine e dignità personale di uomini solo riportando dichiarazioni e affermazioni di altri. Mi rendo conto che esiste un diritto d'informazione, ma esistono anche i diritti delle persone e delle loro famiglie. A ciò si aggiunge la propensione allo sciacallaggio di soggetti politici che, ricercando un utile meschino, dimenticano di essere stati per molti versi protagonisti di un sistema rispetto al quale oggi si ergono a censori. Non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da “pogrom” nei confronti della classe politica, i cui limiti sono noti, ma che pure ha fatto dell’Italia uno dei Paesi più liberi dove i cittadini hanno potuto non solo esprimere le proprie idee, ma operare per realizzare positivamente le proprie capacità e competenze. Io ho iniziato giovanissimo, a solo 17 anni, la mia militanza politica nel Psi. Ricordo ancora con passione tante battaglie politiche e ideali, ma ho commesso un errore accettando il “sistema”, ritenendo che ricevere contributi e sostegni per il partito si giustificasse in un contesto dove questo era prassi comune, né mi è mai accaduto di chiedere e tanto meno pretendere. Mai e poi mai ho pattuito tangenti, né ho operato direttamente o indirettamente perché procedure amministrative seguissero percorsi impropri e scorretti, che risultassero in contraddizione di “ladro” oggi così diffusa. Non lo accetto, nella serena coscienza di non aver mai personalmente approfittato di una lira. Ma quando la parola è flebile, non resta che il gesto. Mi auguro solo che questo possa contribuire a una riflessione più seria e giusta, a scelte e decisioni di una democrazia matura che deve tutelarsi. Mi auguro soprattutto che possa servire a evitare che altri nelle mie stesse condizioni abbiano a patire le sofferenze morali che ho vissuto in queste settimane, a evitare processi sommari (in piazza o in televisione) che trasformano un'informazione di garanzia in una preventiva sentenza di condanna. Con stima».
La seconda è quella con cui GC (vedi parte seconda, nota n. 14) si congedò dai familiari prima di impiccarsi in carcere.
«Miei carissimi Bruna, Stefano, Silvano, Francesco, Chiti; sto per darvi un nuovo, grandissimo dolore.
Ho riflettuto intensamente e ho deciso che non posso sopportare più a lungo questa vergogna.
La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica.
La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto. Ci trattano, veramente, come non persone, come cani ricacciati ogni volta al canile. Sono qui da oltre quattro mesi, illegittimamente trattenuto. Tutto quanto mi viene contestato non corre alcun pericolo di essere rifatto, né le prove relative a questi fatti possono essere inquinate in quanto non ho più alcun potere di fare né di decidere, né ho alcun documento che possa essere alterato.
Neppure potrei fuggire senza passaporto, senza carta di identità e comunque assiduamente controllato come costoro usano fare. Per di più ho sessantasette anni e la legge richiede che sussistano oggettive circostanze di eccezionale gravità e pericolosità per trattenermi in condizioni tanto degradanti. Ma, come sapete, i motivi di questo infierire sono ben altri e ci vengono anche ripetutamente detti dagli stessi magistrati, se pure con il divieto assoluto di essere messi a verbale, come invece si dovrebbe regolarmente fare.
L’obiettivo di questi magistrati, quelli della Provincia di Milano in modo particolare, è quello di costringere ciascuno di noi a rompere, definitivamente e irrevocabilmente, con quello che loro chiamano il nostro “ambiente”. Ciascuno di noi, già compromesso nella propria dignità agli occhi dell’opinione pubblica per il solo fatto di essere inquisito o, peggio, essere stato arrestato, deve adottare un atteggiamento di “collaborazione” che consiste in tradimenti e delazioni che lo rendano infido, inattendibile, inaffidabile: che diventi cioè quello che loro stessi chiamano un “infame”.
Secondo questi magistrati, ad ognuno di noi deve dunque essere precluso ogni futuro, quindi la vita, la famiglia, gli amici, i colleghi, le conoscenze locali e internazionali, gli interessi sui quali loro e i loro complici intendono mettere le mani. Già molti sostengono, infatti, che agli inquisiti come me dovrà essere interdetta ogni possibilità di lavoro non solo nell’amministrazione pubblica o para-pubblica, ma anche nelle amministrazioni delle aziende private, come si fa a volte per i falliti. Si vuole insomma creare una massa di morti civili, disperati e perseguitati, proprio come sta facendo l’altro complice infame della magistratura che è il sistema carcerario.
La convinzione che mi sono fatto è che i magistrati considerano il carcere nient’altro che uno strumento di lavoro, di tortura, psicologica, dove le pratiche possono venire a maturazione o ammuffire, indifferentemente, anche se si tratta della pelle della gente. Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza testa né anima. Qui dentro ciascuno è abbandonato a se stesso, nell’ignoranza coltivata e imposta dei propri diritti, custodito nell’inattività e nell’ignavia; la gente impigrisce, istupidisce, si degrada e si dispera diventando inevitabilmente un ulteriore moltiplicatore di malavita.
Come dicevo, siamo cani in un canile dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la sua propria esercitazione e dimostrazione che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima, o alcune ore prima. Anche tra loro c’è la stessa competizione o sopraffazione che vige nel mercato, con la differenza che, in questo caso, il gioco è fatto sulla pelle della gente. Non è dunque possibile accettare il loro giudizio, qualunque esso sia.
Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime della totale asocialità.
Io non ci voglio essere. Hanno distrutto la dignità dell’intera categoria degli avvocati penalisti, ormai incapaci di dibattere e di reagire alle continue violazioni del nostro fondamentale diritto di essere inquisiti, e giudicati poi, in accordo con le leggi della Repubblica. Non sono soltanto gli avvocati, i sacerdoti laici della società, a perdere questa guerra; ma è l’intera nazione che ne soffrirà le conseguenze per molto tempo a venire.
Già oggi i processi, e non solo a Milano, sono farse tragiche, allucinanti, con pene smisurate, comminate da giudici che a malapena conoscono il caso, sonnecchiando o addirittura dormendo durante le udienze per poi decidere in cinque minuti di camera di consiglio. Non parliamo poi dei tribunali della libertà, asserviti anche loro ai pubblici ministeri, né dei tribunali di sorveglianza che infieriscono sui detenuti condannati con il cinismo dei peggiori burocrati e ne calpestano continuamente i diritti.
L’accelerazione dei processi, invocata e favorita dal ministro Conso, non è altro che la sostanziale istituzionalizzazione dei tribunali speciali del regime di polizia prossimo venturo. Quei pochi di noi caduti nelle mani di questa “giustizia” rischiano di essere i capri espiatori della tragedia nazionale generata da questa rivoluzione.
Io sono convinto di dover rifiutare questo ruolo. È una decisione che prendo in tutta lucidità e coscienza, con la certezza di fare una cosa giusta. Le responsabilità per colpe che posso avere commesso sono esclusivamente mie e, mie, sono le conseguenze.
Esiste certamente il pericolo che molti altri possano attribuirmi colpe non mie quando non potrò più difendermi.
Affidatevi alla mia coscienza, in questo momento di verità totale, per difendere e conservare sul mio nome la dignità che gli spetta.
Sento di essere stato, prima di tutto, un marito e un padre di famiglia, poi un lavoratore impegnato e onesto che ha cercato di portare un po’ più avanti il nostro nome e che, per la sua piccolissima parte, ha contribuito a portare più in alto questo Paese nella considerazione del mondo. Non lasciamo sporcare questa immagine da nessuna “mano pulita”. Questo vi chiedo, nel chiedere il vostro perdono con questo addio, con il quale vi lascio per sempre. Non ho molto altro da dirvi, poiché in questi lunghissimi mesi di lontananza ci siamo parlati con tante lettere, ci siamo tenuti vicini. Salvo che a Bruna, alla quale devo tutto. Vorrei parlarti, Bruna, all’infinito per tutte le ore e i giorni che ho taciuto, preso da problemi inesistenti e che alla fine mi hanno fatto arrivare qui. Ma in questo tragico momento cosa ti posso dire, Bruna, anima della mia anima, che lascio con impagabile debito di assiduità, di incontri sempre rimandati, fino a questi ultimi giorni che avevamo pattuito essere migliaia e migliaia da passare insieme, io e te, in ogni posto e che invece, qui, sto riducendo ad un solo sospiro?
Concludo con una vita vissuta di corsa, in affanno, rimandando veramente cose veramente importanti, la vita vera, per farne altre, lontane come miraggi e, alla fine, inutili. Anche su questo, soprattutto su questo, ho riflettuto a lungo, concludendo che solo così avremo finalmente pace.
Ho la certezza che la tua grande forza d’animo, i nostri figli, il nostro nipotino, ti aiuteranno a vivere con serenità e a ricordarmi, perdonato da voi per questo brusco addio. Non riesco a dirti altro: il pensiero di non vederti più, il rimorso di aver distrutto gli anni più sereni, come dovevano essere i nostri futuri, mi chiude la gola. Penso ai nostri ragazzi, la nostra parte più bella e penso con serenità al loro futuro. Mi sembra che abbiano una strada tracciata davanti a sé. Sarà una strada difficile, in salita, come sono tutte le cose di questo mondo; dure e piene di ostacoli.
Sono certo che ciascuno l’affronterà con impegno e con grande serenità come l’ha già fatto Stefano e come sta facendo anche Silvana. Si dovranno aiutare l’un con l’altro come spero stiano facendo, secondo quanto abbiamo discusso più volte in questi ultimi mesi, scrivendoci lettere affettuose.
Stefano resta con un peso più grave sul cuore per essere improvvisamente rimasto privato della nostra carissima Mariarosa. Al dolcissimo Francesco, piccolino senza mamma, daremo tutto il calore del nostro affetto e voi gli darete anche il mio, quella parte serena che vi lascio per lui.
Le mie sorelle, una più brava dell’altra in una sequenza senza fine, con le loro bravissime figliole, con Giulio e Claudio, sono le altre persone care che lascio con tanta tristezza.
Carissime Giuliana e Lella, a questo punto cruciale della mia vita non ho saputo fare altro, non ho trovato altra soluzione.
Ricordo Sergio e la sua famiglia con tanto affetto, ricordo i miei cugini di Guastalla, i C. [si indica solo l’iniziale del cognome che nel testo originale è riportato per intero, Nda] e i loro figli. Da tutti ho avuto qualcosa di valore, qualcosa di importante, come l'affetto, la simpatia, l’amicizia. A tutti lascio il ricordo di me che vorrei non fosse quello di una scheggia che improvvisamente sparisce senza una ragione, come se fosse impazzita. Non è così, questo è un addio al quale ho pensato e ripensato con lucidità, chiarezza e determinazione.
Non ho alternative. Desidero essere cremato e che Bruna, la mia compagna di ogni momento triste e felice, conservi le ceneri fino alla morte. Dopo di che siano sparse in qualunque mare.
Addio mia dolcissima sposa e compagna, Bruna, addio per sempre. Addio Stefano, Silvano, Giuliana, addio. Addio a tutti. Miei carissimi, vi abbraccio tutti insieme, per l’ultima volta.
Il vostro sposo, papà, nonno, fratello».
5. L’eredità di Mani Pulite
Si è detto in apertura che Mani Pulite è ancora tra noi ed è arrivato il momento di giustificare questa affermazione.
La giustizia penale, i suoi luoghi e i suoi riti continuano ad essere oggetto di un fortissimo interesse mediatico.
Non è un fenomeno nato con Mani Pulite, sia chiaro, se già Francesco Carnelutti ne rilevava la pervasività negli anni Cinquanta dello scorso secolo [1].
L’inchiesta milanese gli impresse tuttavia una formidabile accelerazione e, se così si può dire, sdoganò la cronaca giudiziaria trasformandola in qualcosa di nuovo e diverso: i resoconti dei processi acquisirono in quegli anni una valenza politica, sociale e di costume, i cronisti giudiziari divennero sempre più spesso anche scrittori e opinionisti, il legal divenne un importante genere letterario frequentato da autori illustri, le inchieste più importanti e attrattive furono scandagliate senza risparmiare nessun possibile retroscena.
È sotto gli occhi di tutti che questa presa del complessivo circuito massmediatico su indagini e processi non è mai cessata e continua con ancora maggiore forza anche oggi.
Lo stesso vale per i principali effetti del fenomeno: l’immediatezza dello stigma, le ondate di indignazione verso gli indagati oggi aggravate dalla disponibilità delle piattaforme social e dalla facile aggregazione di odiatori in servizio permanente [2].
Tanto è forte questa presa che ci sono voluti ben cinque anni perché il nostro Paese recepisse con il decreto legislativo n. 188/2021 la direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali. E si continua peraltro a gridare allo scandalo perché si è osato ricordare che nessuno può essere presentato come colpevole senza esserlo nei modi previsti dalla legge così come nessuno può abusare della sua qualifica di inquirente e dell’attenzione privilegiata riservatagli dai mass media per diffondere giudizi prematuri o per dichiarare che intende rivoltare come un calzino questo o quel territorio o ambito.
Altrettanto forte e sempre più estesa e creativa è la neolingua giudiziaria.
Non è soltanto un fatto linguistico, si badi bene.
L’uso delle parole non è mai neutro e lo si può constatare nella proliferazione di espressioni che, dietro una rassicurante normalità, celano visioni che di rassicurante hanno ben poco.
A questa mistificazione sistemica hanno partecipato e continuano a farlo sia il legislatore che il giudice.
Ci si fa aiutare come di consueto da qualche esempio.
Si pensi, senza andare troppo indietro nel tempo, al contratto per il governo del cambiamento che mise nero su bianco la materia prima su cui avrebbe lavorato il Governo Conte I, il primo della legislatura in corso, sorretto dalla coalizione formata dal Movimento Cinque Stelle e dalla Lega.
Vi si parlava di “revisione” del regime penitenziario aperto ma ciò che si intendeva dire era che quel regime sarebbe stato sostanzialmente abbandonato per tornare alla clausura più rigorosa.
Si proclamava solennemente di volere salvaguardare la dignità dei detenuti ma si programmava di farlo costruendo nuove carceri.
Lo stesso Governo varò il decreto cosiddetto “sicurezza bis” e nessun cittadino potrebbe dolersi di un provvedimento che serve a farlo vivere più serenamente e al riparo da rischi ma il suo bersaglio vero furono gli immigrati irregolari e, pur non sottovalutando la sfida sociale ed economica che flussi migratori troppo ampi e incontrollati possono lanciare ad una qualunque comunità, finanche la più accogliente, sembra decisamente forzato additare come apogeo della pericolosità individui che nella maggior parte dei casi hanno il solo torto di non potere sfamare le famiglie o provenire da territori di guerra.
Meccanismi del genere si manifestano anche in periodi più vicini.
Si pensa in questo caso alla Legge delega per la riforma della giustizia penale patrocinata dalla ministra Cartabia. Nel suo art. 1, comma 1, si ha cura di precisare che la riforma ha finalità di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo ma nel rispetto delle garanzie difensive.
La declinazione pratica di questa felice coniugazione comporta tuttavia l’adozione ordinaria del rito camerale non partecipato per la definizione dei giudizi di appello e l’aggiunta del vizio di aspecificità come nuova causa di inammissibilità dei motivi di impugnazione in secondo grado.
È come dire: un po’ meno di difesa, un po’ più di difficoltà negli appelli.
Di nuovo un caso di mistificazione concettuale, almeno così pare.
La stessa tendenza, ma con intensità maggiore ed effetti più dirompenti, è dato cogliere nella giurisprudenza di legittimità e di merito [3].
Lo stesso può dirsi della tendenza a valorizzare (e tesaurizzare) una pretesa superiorità etica della classe magistratuale e, per investitura discendente, di chiunque, singolo o organizzazione che sia, professi acriticamente il culto di quella classe e del dogma della sua infallibilità.
Certo, il cosiddetto caso Palamara (denominazione fin dall’inizio gravemente sbagliata per difetto) ha reso meno perentoria quella pretesa ma non l’ha annichilita sicché, incredibilmente, è ancora necessario confutarla [4].
Sono ancora tra noi, ugualmente, le modifiche di fatto ma non per questo meno sostanziali che Mani Pulite, seppure non da sola, apportò agli equilibri interni della giustizia penale.
Oggi, ancora più di trent’anni fa, gli uffici del pubblico ministero sono il centro di comando della giustizia penale; tutto ciò che conta nei procedimenti penali avviene nella fase delle indagini preliminari dominata dalle Procure; le forme e i luoghi delle successive fasi giurisdizionali sono più frequentemente di quanto si vorrebbe miseri simulacri la cui unica funzione è ratificare verità decise prima e a prescindere e come tali insensibili al contraddittorio tra le parti; la difesa è spesso un ospite sgradito e tollerato con malcelato fastidio.
A ciò si aggiunga che la gerarchizzazione delle Procure dovuta alla riforma Mastella del 2006 ha trasformato i loro capi in potenti feudatari, dotati di autonomi poteri di giustizia esercitabili al di fuori di ogni possibilità di controllo e senza dover rendere conto ad alcuno del loro uso e dei loro risultati; tanto più è importante un territorio tanto maggiori sono i poteri del capo della Procura che vi è insediata, al punto che la direzione di Procure come quelle di Milano e Roma conferisce a chi la detiene un potere e un’influenza negli equilibri nazionali paragonabili a quelli di un leader politico o di un esponente istituzionale di primo piano.
Il risultato di queste condizioni di fatto ha comportato un’alterazione innegabile degli equilibri e dei contrappesi sui quali si regge l’architettura istituzionale italiana: il potere giudiziario, particolarmente quello degli inquirenti, ha acquisito da decenni un’inedita centralità che gli conferisce, quantomeno su un piano astratto, la capacità non solo di ostacolare le funzioni e gli scopi del legislativo e dell’esecutivo ma addirittura di influenzarne l’esercizio in direzioni corrispondenti ai suoi scopi di parte; al tempo stesso la politica, come dimostrato dalla vicenda Palamara, piuttosto che contrastare in modo trasparente questa deriva, la asseconda e recupera almeno in parte un suo ruolo inserendosi indebitamente nei meccanismi decisionali dai quali dipende la scelta dei capi delle Procure; ne deriva quindi un consociativismo indistinto che lega e fonde interessi e prospettive che dovrebbero rimanere separati.
Resta infine un ultimo confronto ed è quello che riguarda coloro che si trovano sottoposti alla pretesa punitiva statuale.
Non pare davvero che la loro condizione sia migliorata.
Le esigenze cautelari, oggi come ai tempi di Mani Pulite, sono soddisfatte in misura assolutamente prevalente con la custodia cautelare o gli arresti domiciliari, a dispetto dell’ampia gamma di strumenti contenitivi offerta dal codice di rito. In carcere e di carcere si continua a morire e i ristretti sono ancora trattati come vuoti a perdere di cui importa solo a pochissimi. Garanzie procedimentali primarie sono costantemente svuotate o messe in crisi da criteri interpretativi e canoni valutativi sempre più indifferenti ai diritti umani fondamentali. Indagati e imputati rimangono sotto il tallone della giustizia per anni e anni e nel frattempo assistono impotenti allo sfacelo delle loro vite, subendo danni che niente e nessuno potrà mai risarcire.
6. Parole finali
Queste sono in conclusione le impressioni di chi scrive, accompagnate da un senso di inquietudine per un meccanismo di tale intensità negativa da sembrare ormai sfuggito ad ogni reale controllo.
A meno che Neffa abbia ragione e, se fosse così, sperare in un cambiamento non sarebbe più un azzardo.
***
[1] F. Carnelutti, Le miserie del processo penale, ERI, Roma, 1957, p. 46. Così scriveva il grande giurista (i neretti sono dell’autore di questo scritto): «il processo medesimo è una tortura. Fino a un certo punto, dicevo, non si può farne a meno; ma la cosiddetta civiltà moderna ha esasperato in modo inverosimile e insopportabile questa triste conseguenza del processo. L’uomo, quando è sospettato di un delitto, è dato ad bestias, come si diceva una volta dei condannati offerti in pasto alle fiere […] L’articolo della Costituzione, che si illude di garantire l’incolumità dell’imputato, è praticamente inconciliabile con quell’altro, che sancisce la libertà di stampa. Appena sorto il sospetto, l’imputato, la sua famiglia, la sua casa, il suo lavoro sono inquisiti, perquisiti, denudati alla presenza di tutto il mondo».
[2] Si confronti G. Marotta, La vittima del processo penale: un nuovo processo di vittimizzazione, in Rev. Fac. Direito UFMG, Belo Horizonte, n. 70, pp. 359 - 369, primo semestre 2017. Così si esprime l’Autrice: «Il clamore mediatico che accompagna l’inizio delle indagini, modifica profondamente, rispetto al passato, le modalità di partecipazione della collettività alla vicenda processuale del singolo. In questa fase procedimentale, infatti, le notizie veicolate dai media sono esclusivamente quelle ritraibili dalle indagini dell’accusa e, inoltre, sono solo quelle che i media stessi ritengono rilevanti per la pubblicazione, criterio, questo, che non solo può non coincidere, come sovente non coincide, con ciò che è rilevante per l’indagine, ma, che, inoltre, pubblicizza solo parzialmente le acquisizioni degli investigatori, fornendo necessariamente una conoscenza incompleta. degli elementi, per cui la restante parte è colmata con ipotesi, presunzioni, immaginazione, di ognuno dei fruitori delle notizie. Deve aggiungersi che l’indagato, non avendo accesso a tutte le carte dell’accusa sino alla conclusione dell’indagine, in questo momento non può che misurare le proprie eventuali difese mediatiche su quelle stesse parziali informazioni che sono state scelte e pubblicate, senza possibilità di riscontro e di controllo alcuno. Insomma si realizza una indagine virtuale e putativa diversa per quanti sono coloro che se ne informano sui media. Anzi, in tal modo le indagini divengono, per la pubblica opinione, esse stesse il processo (anticipato), ma un processo sbilanciato tutto dalla parte dell’accusa, con la difesa sostanzialmente priva di strumenti e di parola, se non una trascurabile facoltà di tribuna, pur richiesta dai media, per quel che vale. Questo “processo” determina ovviamente convinzioni e pregiudizi e si conclude con un giudizio, anzi con tanti giudizi per quanti saranno coloro che sono stati raggiunti dalle informazioni fornite dai media, in anticipo, a volte di molti anni, rispetto all’esito del vero processo, il quale sbiadisce come trascurabile appendice rispetto a quello celebratosi al tempo delle indagini, e poco importa se si concluderà con una sentenza di assoluzione. Nel descritto meccanismo, naturalmente, la notorietà del soggetto coinvolto, come si è visto in numerosi casi, funge da potente amplificatore, ma non è un elemento decisivo, perché è l’oggettivo interesse di notizia dell’evento che discrimina tra clamore mediatico del fatto e dei soggetti coinvolti, oppure l’anonimato. Il ruolo fondamentale dei mass media è evidente: sono essi che selezionano i fatti più importanti o più “attraenti” da riportare, filtrandoli attraverso una serie di “cancelli” secondo il metodo del gatekeeping. Senza dilungarci sulle diverse interpretazioni presenti nella letteratura sul tema, basti sottolineare come sia i media classici sia i new media diano rilevanza in particolare ai fatti di cronaca nera (presunti autori, vittime, svolgimento delle attività investigative, alcuni processi), a volte, come si avuto modo già di scrivere, trasformandoli in “spettacolo” con voyeurismo morboso, adducendo come giustificazione che rappresentano notizie “più vendibili”».
[3] Sia consentito il rinvio, per un approfondimento in tema di giurisprudenza di legittimità, a V. Giglio, La cattedra nomofilattica e altro ancora: i mantra della giurisprudenza penale di legittimità, in Filodiritto, 29 gennaio 2020, a questo link.
[4] Si legga G. Fiandaca, Fiandaca: i magistrati non sono i custodi della virtù, non diamogli un ruolo salvifico, nel Giornale di Sicilia, 13 marzo 2022, a questo link. Così si esprime lo studioso: «è forse superfluo richiamare i moniti di Leonardo Sciascia contro il grave rischio non solo di errori giudiziari, ma anche di fanatico giustizialismo connesso alla tentazione di elevare i tribunali ad altari sacri, con conseguente fiducia fideistica nell’operato dei magistrati inquirenti e giudicanti. Essendo la giurisdizione penale una istituzione di garanzia, ma ancor prima una macchina di potere che – specie se azionata con sovraesposizione combattentistica o spericolata imprudenza – può stritolare i malcapitati che cadono nei suoi ingranaggi, ritengo che abbia senz’altro ragione il mio amico giusfilosofo Luigi Ferrajoli a non stancarsi di additare una fondamentale massima deontologica: la regola cioè del «dubbio metodico» – anche quando le indagini riguardano boss mafiosi o membri di altre forme di criminalità sistemica – quale abito mentale che meglio si addice sia ai giudici, sia ai pm di una democrazia costituzionale degna di questo nome. Tutto ciò premesso, confesso che mi hanno convinto poco le «precisazioni» (sic!) che Giancarlo Caselli ha pubblicato su questo giornale (Giornale di Sicilia del 9 marzo) a proposito della precedente intervista rilasciata a Visconti da Giuseppe Di Lello (Giornale di Sicilia del 6 marzo). Invero Di Lello, sollecitato a riflettere a distanza di circa un trentennio sulla sua esperienza di magistrato antimafia a Palermo (interrotta dalla successiva attività politico-parlamentare), ha detto diverse cose nel porre a confronto i magistrati di ieri e di oggi. Ma riassumo qui quelle più rilevanti, anche rispetto alla replica caselliana. Primo: sostiene Di Lello che, a partire da un certo punto in poi, una parte dei magistrati – forse anche ispirata dall’«ondata giustizialista» – ha sposato «l’idea che toccasse alla magistratura salvare l’Italia»; e che, nel perseguire questo obiettivo di moralizzazione pubblica, sarebbe passata in secondo piano l’accuratezza delle indagini sino al punto che si sarebbero anche celebrati processi basati su ipotesi accusatorie «risibili». Secondo: sostiene sempre Di Lello che la magistratura penale dovrebbe avviare una rinnovata riflessione sull’autonomia della pubblica amministrazione e della politica, non avendo essa ancora interiorizzato a sufficienza il principio della separazione dei poteri. Orbene, cosa c’è di veramente nuovo, trasgressivo o addirittura scandaloso in affermazioni come queste, che dal canto mio condivido? Chi è a conoscenza del dibattito sulla giustizia penale che da tempo si svolge nel nostro paese – e alludo soprattutto a serie analisi saggistiche, lontane dalla superficiale contrapposizione politico-mediatica tra le opposte tifoserie dei «giustizialisti» e dei «garantisti» – sa bene che opinioni molto simili a quelle di Di Lello sono state manifestate, e continuano a essere espresse con dovizia di argomenti da studiosi molto accreditati di vario orientamento politico-ideologico, per nulla assimilabili a filo-mafiosi o a filo-corrotti affetti da garantismo peloso: basta dare uno sguardo alla pubblicistica più meditata in tema di giustizia per averne riscontri anche recentissimi (cfr. ad esempio S. Cassese, Il governo dei giudici, Laterza 2022). Cosa obietta Caselli a Di Lello? L’ex procuratore di Palermo (al quale anch’io da siciliano, in ogni caso, mai cesserò di attestare gratitudine per il valoroso impegno antimafia) contesta, innanzitutto, che la magistratura si sia fatta trascinare dall’ondata giustizialista al punto da avviare indagini sulla base di ipotesi accusatorie assai labili. Ora, è possibile che Di Lello abbia un pò ecceduto nell’etichettare come «risibili» i presupposti di alcune indagini sfociate poi in esiti assolutori; ma non mi parrebbe davvero decisivo chiarire se questa forse poco felice etichettatura – come Caselli ha risentitamente creduto di dovere intendere – includesse (nelle intenzioni dell’intervistato) i casi richiamati a titolo esemplificativo di processi su politici come Mannino, Musotto o Giudice, instaurati appunto durante la gestione caselliana della procura palermitana. La questione di fondo su cui occorre oggi tornare a riflettere è di ordine generale, e non riguarda quindi questo o quel processo singolo celebrato a Palermo o altrove. Il dato indiscutibile, e preoccupante, è piuttosto questo: si aprono specie a carico di politici molte indagini che poi si risolvono, appunto, in un nulla di fatto. Tra le possibili cause, ravviserei la perdurante convinzione di alcuni magistrati di dovere fungere da «custodi della virtù» (A. Pizzorno) degli esponenti del ceto politico e di quello economico-imprenditoriale; per cui si fanno non di rado investigazioni che, anziché muovere da una preesistente ipotesi concreta di reato, vanno alla ricerca di reati «possibili». È lecito sollecitare una revisione critica di una simile convinzione da parte degli stessi esponenti della magistratura che la hanno finora interiorizzata? La seconda cosa importante che Caselli rimprovera a Di Lello è – se ho ben compreso – di sottovalutare il fatto che la parte più coraggiosamente combattiva della magistratura ha evitato «il rischio concreto che la nostra democrazia crollasse». Con tutto il rispetto per Caselli, userei una certa cautela prima di fare affermazioni così perentoriamente impegnative in chiave macro-sistemica. Senza nulla togliere al grande (e talora eroico) contributo fornito dalle istituzioni giudiziarie nel contrasto di Mafiopoli e Tangentopoli, giungere a sostenere senza esitazione che la magistratura (o una sua parte) abbia svolto un ruolo addirittura salvifico della nostra democrazia in grave crisi nei primi anni Novanta è, infatti, una tesi su cui non risulta che concordino i più autorevoli storici e politologi di professione. E, anzi, non sono pochi oggi gli studiosi che, con buon fondamento, pensano che le cosiddette «rivoluzioni giudiziarie» abbiano finito col produrre – come anch’io ritengo – esiti politici complessivamente più negativi che positivi. È giustificato, allora, che questo ruolo salvifico se lo auto-attribuisca la stessa magistratura per bocca di una delle sue più rappresentative figure storiche? Forse, vale la pena discuterne più approfonditamente sotto plurime angolazioni disciplinari e professionali. Anche perché non si tratta di fare solo storiografia; ne va dell’autopercezione di ruolo che i magistrati in servizio possono avere di sé stessi nella realtà contemporanea».