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Nella mia ora di libertà

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Abstract

L’autore confronta una canzone di Fabrizio De André di quasi mezzo secolo fa con la situazione sociale di oggi e sottolinea le somiglianze e le differenze.

The author compares a Fabrizio De André song of almost a half century ago with the contemporary social situation and emphasizes the similarities and differences.

 

Era l’ottobre 1973 quando Fabrizio De André fece uscire il suo album “Storia di un impiegato”.

Non una semplice raccolta di canzoni ma appunto una storia, un racconto unitario (oggi si direbbe un concept) al cui centro si muove un modesto impiegato, insieme protagonista e io narrante.

Uno che si è stufato e non ce la fa più a stare fermo, ad aspettare ed avere paura.

Gli basta ascoltare una canzone francese di cinque anni prima, della primavera del Sessantotto, per capire quanto grigia, mediocre e borghese sia la sua vita.

In un delirio che confonde sogno e realtà si risolve a compiere il gesto che darà senso alla sua vita insensata: una bomba da scagliare contro il Parlamento.

Ma neanche questo gli riesce.

La bomba rotola miseramente, assurdamente, giù dalle scalinate dell’edificio contro cui è diretta e fa esplodere un piccolo chiosco di giornali.

Seguono il giudizio, la condanna, la galera, il distacco dalla donna amata.

Dentro il carcere, il luogo simbolo della vita non vita, avviene paradossalmente la rinascita che l’impiegato aveva inutilmente inseguito.

Lì, nell’altrove che oscura e nega l’individualità, il protagonista comprende la sua condizione di appartenenza a una collettività dolente e calpestata.

Scopre l’esistenza di una coscienza collettiva al di fuori della quale ogni gesto solitario è insensato e destinato al fallimento.

Ha finalmente uno scopo e una parte da cui schierarsi.

De André dedica a questa rivelazione l’ultima canzone dell’album, “Nella mia ora di libertà” e di questa voglio parlare anch’io.

Ha un senso farlo?

In fondo è passato quasi mezzo secolo, il clima sociale e politico di allora sembra più distante di un’era geologica, gli animal spirits contemporanei non potrebbero essere più diversi dal tempo in cui la brezza sessantottina aveva già lasciato il posto agli anni di piombo.

Eppure in quelle strofe c’è un anelito impossibile da dimenticare.

Quello di un uomo che vive una condizione estrema e, avendo finalmente compreso l’impossibilità della solitudine, sceglie, lui ultimo e sbagliato, di stare dalla parte dei suoi pari, di negarsi al potere e perfino di negargli la legittimità ad essere tale.

Sullo sfondo, come luogo perfetto di sperimentazione, il carcere, lì dove non si potrebbe essere più distanti dal potere pur provandone sulla pelle la capacità di violenza.

È cambiata la natura della pena e del carcere, c’è oggi una coscienza sociale diversa verso chi, come si suol dire, sconta il suo debito, i detenuti non sono più vuoti a perdere?

Dietro le sbarre c’è vita o la sua negazione?

Soprattutto, sono domande datate queste?

C’è qualcuno capace di sentire le urla dal silenzio o è una capacità ormai smarrita? Potrebbe servire a qualcosa l’ascolto o sarebbe solo tempo sprecato?

Non so.

So però che i versi di De André sono lì e dicono ancora qualcosa.

Li citerò pezzo per pezzo, strofa per strofa, e li metterò a confronto con quella che mi pare la realtà di oggi.

Per capire se quella canzone fosse solo il frutto della sensibilità esasperata di un grande artista o avesse invece un valore descrittivo e magari anche predittivo, se non capisse lui o non capiamo noi.

Di respirare la stessa aria di un secondino non mi va

perciò ho deciso di rinunciare alla mia ora di libertà.

Se c’è qualcosa da spartire tra un prigioniero e il suo piantone,

che non sia l’aria di quel cortile, voglio soltanto che sia prigione”.

Un proposito identitario ad alto prezzo.

Un’identità inseguita per differenziazione.

L’impiegato individua il secondino come simbolo del potere e della sua ottusità e sceglie di non condividere nulla con lui, neanche l’aria da respirare, neanche quell'unica e preziosa ora del cosiddetto “passeggio” che permette di fare un po’ più dei canonici cinque passi sul lato lungo e due su quello corto consentiti dalla cella standard.

Suona strana questa scelta.

Certo, il secondino indossa la divisa e chiunque ne porti una rappresenta le istituzioni e contribuisce a suo modo a legittimarle e consentirgli di esercitare il loro potere.

E poiché il potere punitivo è quello più odioso, per osmosi è odioso chiunque lo eserciti, anche ai livelli più bassi.

Senza contare che il carcerato ha contatto solo con quei livelli.

Raro che veda funzionari, rarissimo che veda il direttore, un evento che si interessi di lui chi gli ha inflitto la pena o deve sorvegliarne l’esecuzione.

E allora, da chi dovrebbe differenziarsi il rivoluzionario recluso se non dal secondino?

Eppure qualcosa continua a non funzionare.

Cos’ha una guardia di diverso dal detenuto?

Fanno quasi la stessa vita. Reclusi entrambi, esistenze oscure consumate in luoghi angusti all'ombra di alte mura. Il detenuto è un reietto, certo: nessuno sano di mente invidierebbe la sua condizione. Ma si è forse felici stando a contatto giorno e notte con i disperati, tenendo attaccate al cinturone d’ordinanza le pesanti chiavi che chiudono le loro celle, osservando la loro infelicità e finendone inevitabilmente contaminati? È possibile pensare al futuro, concepirne uno, quando attorno nessuno ne ha? It takes a fool to remain sane.

Nulla che De André già non sapesse.

Nel 1990 uscì il suo album “Le nuvole”.

Tra le tante bellissime canzoni c’era “Don Raffaé”.

Basta l’inizio:

Io mi chiamo Pasquale Cafiero e son brigadiero del carcere, oiné.

Io mi chiamo Cafiero Pasquale, sto a Poggioreale dal ‘53.

E al centesimo catenaccio alla sera mi sento uno straccio,

per fortuna che al braccio speciale c’è un uomo geniale che parla co’mme.

Tutto il giorno con quattro infamoni, briganti, papponi, cornuti e lacchè,

tutte ll’ore co’ ‘sta fetenzia che sputa minacce e s’a piglia co’mme”.

I 17 anni da “Storia di un impiegato” sono bastati a De André per capire che i tanti Cafiero Pasquale erano uomini tra gli uomini, disgraziati tra i disgraziati.

Quella condizione, allora come oggi, poteva accompagnarsi alle prospettive più disparate.

Il distacco e l’indifferenza quasi indispensabili alla sopravvivenza, la compassione e l’empatia, la rabbia. In qualche caso, la compiacenza verso reclusi del calibro di Don Raffaé o la furia cieca verso i bersagli più facili e scontati. In qualche altro caso, quando ogni possibilità di resistenza è stata consumata e l’insensatezza del contesto annulla ogni luce, un gesto estremo verso sé stessi: anche gli agenti penitenziari, come i loro compagni di sorte, morivano e muoiono in carcere e di carcere.

De André restituisce a Cafiero e ai suoi uguali la loro giusta dimensione: non più (necessariamente) antagonisti ma vittime anch'essi di un'insensatezza di sistema.

È cominciata un’ora prima e un’ora dopo era già finita

ho visto gente venire sola e poi insieme verso l’uscita.

Non mi aspettavo un vostro errore, uomini e donne di tribunale,

se fossi stato al vostro posto ma al vostro posto non ci so stare”.

Il primo flashback: il momento del giudizio.

A De Andrè bastano poche righe per sintetizzarne l’essenza.

La rapidità, frutto dell’ineluttabilità: il processo dell’impiegato non richiede tempi lunghi, la verità è lì, pronta da cogliere, e non c’è ragione di attendere oltre.

C’è poi un non detto: l’imputato detenuto è un problema per la giustizia e il giudice, un boccone indigesto da cui possono venire solo guai e seccature. I processi con uomini in gabbia devono andare veloci perché per loro è basso il tempo di tolleranza del sistema.

Non che l’impiegato si immagini o pretenda un destino diverso: sa bene che la giustizia fa il suo corso e nel suo caso il corso porta dritto alla condanna.

Un esito differente equivarrebbe ad un errore e uomini e donne di tribunale di errori non ne commettono.

Non per questo, secondo De Andrè, sono incapaci di sentimenti.

Due anni prima di Storia di un impiegato aveva composto l’album Non al danaro non all’amore né al cielo, liberamente ispirato all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.

Fra le canzoni, una in particolare, Il giudice.

Un uomo afflitto dalla bassa statura, deriso e mortificato, ma alla fine pronto alla rivalsa: 

Giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male

E allora la mia statura non dispensò più buonumore
A chi alla sbarra in piedi mi diceva “Vostro Onore”
E di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio
Prima di genuflettermi nell’ora dell’addio
Non conoscendo affatto la statura di Dio
”.

L’impiegato sa tutto quello che sa l’artista che l’ha creato. Sa di non avere nulla a che fare con quel mondo.

Una consapevolezza pacata, lucida, interrotta solo per un istante da un pensiero errante: “se fossi stato al vostro posto”.

Che avrebbe fatto l’impiegato se fosse stato al posto di quegli uomini e di quelle donne? De Andrè non lo dice, ci invita a riempire da noi lo spazio vuoto. Forse avrebbe detto che l’impiegato, giudicando sé stesso, avrebbe ceduto all’umana debolezza e, pur sapendosi colpevole, si sarebbe assolto e liberato dall’angoscia del dopo. Oppure no, la sua nuova dimensione sociale lo avrebbe indotto a scegliere la strada verso le sbarre come percorso necessario verso la rinascita. O magari avrebbe scorto una terza via: non compete all’uomo giudicare i suoi simili perché il giudizio non è una relazione umana accettabile. Chissà. Speculazioni inutili, comunque: “al vostro posto non ci so stare”.

Sullo sfondo la gente. Sparpagliata all’inizio, in gruppo alla fine. De André esclude ogni individualità, c’è solo folla ad assistere. Poche parole ma quelle giuste per descrivere l’inesistenza di reazioni soggettive al giudizio e la sua capacità di aggregare e condensare umori popolari per far sì che la gente resti tale, un corpo unico che lascia scorrere i suoi sentimenti primitivi. Tutti contro uno: questo sembra dirci de Andrè.

Fuori dell’aula sulla strada ma in mezzo al di fuori anche fuori di là,

ho chiesto al meglio della mia faccia una polemica di dignità.

Tante le grinte, le ghigne, i musi, vagli a spiegare che è primavera 
e poi lo sanno ma preferiscono vederla togliere a chi va in galera
”.

Ancora un flashback: il momento dopo il giudizio.

Chiamiamo cronache il racconto dei processi e del loro epilogo, giurisprudenza le sentenze, dottrina i loro commenti, storia i verdetti importanti che segnano un’epoca e cambiano il corso delle cose.

Ma non sappiamo come chiamare quel momento, è fatto solo di emozioni e sentimenti privati, soggettivi, non c’è nessun nome possibile e non è essenziale darglielo.

L’impiegato è solo, il suo corpo è fuori dell’aula ma lui si sente oltre ogni luogo.

Il suo volto è austero, dignitoso. Occorre, perché invece intorno a lui non ci sono altro che grinte, ghigni e musi.

Nessuna novità, è una ricorrente umana. La forca, il patibolo, il fuoco hanno un fascino irresistibile, quasi non si riesce a distogliere lo sguardo. E il volto di chi guarda è quasi sempre corrotto e deformato dal tremendo spettacolo della pena violenta e definitiva. Forse ci sono occhi pietosi qua e là, venature di compassione, più raramente autentica empatia ma sono sempre e solo moti individuali. La folla no, segue istinti primordiali mentre la bontà, a dispetto di Rousseau, non è primordiale, semmai un prodotto maturo o addirittura decadente dello sviluppo umano, di certo fragile ed effimero.

Il fascino della violenza, quindi: che la primavera sia solo per i giusti della terra, che non la veda più chi non la merita, che siano negati per sempre la sua luce e i suoi profumi a chi minaccia il benessere della comunità e si ostina ad essere diverso.

Sono cambiate le cose? Rimane ancora qualcosa del modello di società generosa, accogliente, multiculturale delineata dalla Costituzione? Non avviamo più alla rottamazione i reietti né abbiamo più paura dell’altro da noi? Abbassiamo o alziamo le mura delle carceri?

Ognuno risponda come vuole.

Tante le grinte, le ghigne, i musi, poche le facce, tra loro lei, 
si sta chiedendo tutto in un giorno, si suggerisce, ci giurerei, 
quel che dirà di me alla gente, quel che dirà ve lo dico io, 
da un po’ di tempo era un po’ cambiato ma non nel dirmi amore mio. 

In mezzo a quella folla indistinta e disumana c’è qualcuno che non le appartiene, c’è lei ed è l’unica che conta.

L’impiegato farebbe bene a dimenticarla, sa che sarà condotto in un luogo senza ritorno, eppure non ci riesce.

Prova a seguire i pensieri della sua donna e li immagina preoccupati e contraddittori. Lei vorrà giustificarsi, dire qualcosa alla gente perché è in mezzo ad essa che dovrà continuare a vivere. Ma non rinuncerà a difendere l’umanità del suo compagno. Era cambiato ma non era cambiato il suo amore per lei.

Un amaro destino per entrambi che sarebbe descritto perfettamente dal titolo di un altro bellissimo pezzo di De André, La canzone dell’amore perduto.  Sanno entrambi che è finita, possono solo provare a sopravvivere.

Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza 
fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza, 
però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni 
da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni. 

 

È già finita, appunto, e qui comincia la consapevolezza dell’uomo nuovo, l’essere che inizia a dare un senso più stabile al suo gesto deviante.

Si allontana da sé stesso, non più disposto a una ginnastica d’obbedienza.

Si rifiuta di rimanere un coglione e il risveglio della sua consapevolezza lo obbliga a considerare fisiologicamente violenta ogni forma di potere perché la violenza è parte integrante del potere.

Si avverte chiaramente in questa strofa e in quelle che seguono lo spirito del tempo: il vento del ‘68, le reazioni conservatrici, la radicalizzazione dello scontro, la nascita e il consolidamento di formazioni terroristiche di estrema destra e estrema sinistra, la violenza come strumento di definizione e comunicazione di ideologie e programmi politici eversivi.

C’è tutto questo nel manifesto dell’impiegato e lo stesso c’era in quegli anni che furono di desideri, di speranze e di sogni ma anche di un’indicibile violenza.

Altro è naturalmente la riflessione sulla natura ultima del potere, sul fascino irrefrenabile che sprigiona, sugli strumenti che gli esseri umani usano per acquisirlo e mantenerlo.

Altro è la verifica costante, che ogni democrazia dovrebbe considerare una necessità sacrosanta, della corrispondenza tra l’esercizio del potere e la soddisfazione dei bisogni sociali reali.

E adesso imparo un sacco di cose in mezzo agli altri vestiti uguali 
tranne qual è il crimine giusto per non passare da criminali. 
C’hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane 
ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame. 


L’impiegato inizia in carcere la sua terza vita.

È stato un grigio e insoddisfatto borghese.

È stato un bombarolo improvvisato.

Così De Andrè descrive (Il bombarolo, altro pezzo della Storia di un impiegato) i suoi pensieri nei minuti che precedono l’attentato:

Nello scendere le scale ci metto più attenzione,
sarebbe imperdonabile giustiziarmi sul portone,
proprio nel giorno in cui la decisione è mia,
sulla condanna a morte o l’amnistia.

Pensieri individuali e solitari, ai quali è estraneo ogni sentimento collettivo.

Ma in carcere il linguaggio cambia.

L’impiegato non agisce più come singolo, nelle sue parole affiora il senso di appartenenza a una comunità, quella di chi ha fame ed è reietto solo perché vorrebbe mangiare.

Parole e pensieri di quasi mezzo secolo fa, certo.

Così lontani ma anche così vicini come imparano sulla loro pelle ogni profugo straniero mentre attende in prossimità delle nostre coste un sì che non verrà e gli individui che vorrebbero continuare ad essere uomini tra gli uomini.

 Di respirare la stessa aria dei secondini non ci va 
e abbiamo deciso di imprigionarli durante l’ora di libertà 
venite adesso alla prigione state a sentire sulla porta 
la nostra ultima canzone che vi ripete un’altra volta 
per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti. 

Il destino dell’impiegato si compie.

Fa l’ultimo passo e si colloca definitivamente dal lato sbagliato della società.

Direbbe Bertolt Brecht: “ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati”.

Si ribellano, lui e i suoi compagni, scelgono l’unico bersaglio alla loro portata, chiedono con forza di essere ascoltati e, ribaltando ogni ruolo, assumono la veste di accusatori e giudici.

De Andrè non ci racconta la fine della storia e in fondo non serve.

La sua parte scontata la sappiamo già.

Il potere non rimarrà a lungo sotto scacco, reagirà con tutta la sua forza, la rivolta verrà debellata e i suoi protagonisti ridotti all’impotenza e puniti in modo esemplare.

Ma c’è anche un’altra parte ed è quel giudizio inappellabile: “per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti”.

Non ci sono altre strofe, l’autore ha detto tutto.

E noi contemporanei, dovremmo dire qualcosa di più e di diverso?

Sì, abbiamo da dire.

Noi abbiamo vissuto dal 1973 ad oggi: conosciamo gli anni di piombo, l’assassinio efferato e insensato di tanti giusti, la proliferazione di formazioni estremistiche che hanno seminato terrore all'insegna di programmi così distanti dall'uomo da risultare folli, lo sciupio di vite, intelligenze, affetti, lo sforzo talvolta improbo delle istituzioni di non deragliare dalle vie della democrazia nella scelta degli strumenti di reazione.

La strada dell’impiegato è quella sbagliata, la più sbagliata, senza se e senza ma.

Lascia solo macerie e dolore e disperazione.

Non è di questo che si può dibattere.

Non si può e non si deve invece, come si anticipava, interrompere la riflessione sul potere.

Sono anni difficili anche questi.

Siamo immersi in gigantesche trasformazioni sociali e ci sentiamo assai spesso spettatori più che protagonisti.

Cambiano senza sosta le fondamenta della vita individuale e comunitaria.

Si affacciano nuovi bisogni che chiedono di essere trasformati in diritti.

Si mettono a fuoco nuovi doveri e se ne chiede il rispetto.

Sono tutti movimenti di massa che necessitano di regole e per ciò stesso sollecitano risposte politiche e normative.

Si aggiungono poi nuovi modi di essere, nuovi pensieri e sentimenti, talvolta reali, altre volte indotti, e anch'essi si tramutano in domande, criteri di selezione, strumenti di aggregazione di consenso o dissenso.

Non si può rimanere insensibili a tutto questo né è bene chiamarsene fuori.

Vale per tutti, non solo per chi ha l’abitudine di osservare le norme e la loro applicazione, di trarne deduzioni e trasformarle in sistemi.

I nuovi spazi creati da Filodiritto servono appunto a questo, mettono a disposizione un’agorà in cui riflettere ad alta voce sul potere e sulle sue dinamiche, sulla sua capacità di rispondere equamente e con intelligenza alle domande del corpo sociale e dei singoli individui.

Questo si desidera fare e questo si proverà a fare.

M. Capanna, Lettera a mio figlio sul Sessantotto, Mondadori, 1998

S. Zavoli, La notte della Repubblica, Mondadori, 1992

L. Viva, Non per un Dio ma nemmeno per gioco. Vita di Fabrizio De Andrè, Feltrinelli

L. Wacquant, Iperincarcerazione. Neoliberismo e criminalizzazione della povertà negli Stati Uniti, Ombre corte, 2013

L. Santa Maria, Piccolo manifesto per un programma di idee sul diritto e il processo penale, Diritto penale contemporaneo, 7 febbraio 2017