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Semplicemente femm., perché ogni giorno sia l’8 marzo

Paola Rivolta, femm.
Paola Rivolta, femm.

Sono diverse, e tutte a loro modo “liberamente scorrette”, le autrici presenti nel catalogo Liberilibri, da Gertrud Stein a Ayn Rand, da Rose Macaulay a Pamela L. Travers, fino a una scrittrice contemporanea di estrema sensibilità: Paola Rivolta. Poiché l’8 marzo si avvicina, abbiamo scelto di ricordare questa data simbolica al di là di ogni inutile retorica, senza infiocchettarla con mazzetti di fiori gialli o liquidarla con auguri di circostanza che svaniscono di solito con il calar del sole. Lo facciamo invece attraverso una raccolta di racconti dedicata alle donne, intitolata semplicemente femm., convinti che possa lasciare spazio alla riflessione anche quando quei ciuffetti di mimosa saranno ormai sfioriti. Un titolo in minuscolo, abbreviato, che riassume in maniera significativa il mondo femminile in ogni epoca e latitudine.

Questo libro di Paola Rivolta ha rappresentato un’operazione del tutto inedita per la casa editrice, che uscendo dai temi più frequentati si rivolge stavolta, in maniera mirata, a un pubblico principalmente femminile, ma non solo. E si è rivelata una scommessa vinta. Diciotto racconti brevi da leggere tutti d’un fiato, di seguito, o saltando da un titolo all’altro a piacere.

Diciotto ritratti di donne amareggiate, tormentate, perfide, a volte malinconiche, amare, spesso inflessibili e granitiche. Donne che subiscono, e donne che si ribellano. Madri, sorelle, mogli, amanti sono gli imprescindibili cardini attorno ai quali ruota l’intera narrazione, dove ogni finale, pur differente l’uno dall’altro, contiene un suo particolare seme di tragicità.

Di fronte all’ambiguità della natura umana resta nel lettore un senso di smarrimento che lo costringe a cercare tra le parole lette una rassicurazione morale, o almeno una qualche certezza. È questo senso di sospensione, che incombe dalla prima all’ultima pagina, ad accomunare storie ambientate in culture, età, atmosfere e paesi diversi.

 

Di seguito, la prima parte del racconto “C’era un segno rosso, largo tre dita”:

Mi chiamo Lucia Rinaudi. Sono nata a Moncalieri il 23 febbraio 1972 da Luciano Rinaudi ed Elena Ceriani. Abito a Candiano, un paese di poche migliaia di persone in provincia di Torino, in una piccola abitazione unifamiliare ai margini del centro abitato.

Il 27 aprile 2010, come sempre, mi sono svegliata alle sei del mattino per andare a lavorare. Sono andata in bagno. Il bagno è sempre freddo a quell’ora, anche d’estate. Mi sono seduta sul water e lì sono rimasta qualche attimo con la testa appoggiata al muro e gli occhi chiusi. Poi mi sono alzata e sono andata al lavandino. Mi sono sciacquata la faccia, ho preso l’asciugamano che era appeso al termosifone e mi sono asciugata. Ho spazzolato i capelli e li ho raccolti senza guardarmi nello specchio. I miei capelli un tempo erano così belli! Erano l’invidia delle mie amiche. Neri e lucidi. Lo potrebbero essere ancora se li curassi di più e li tingessi per nascondere i capelli bianchi. Mi sono infilata i vestiti da lavoro: una vecchia tuta blu e sopra un grembiule di cotone dello stesso colore, un po’ sbiadito. Li porto tutta la settimana, li lavo il sabato e sono asciutti per il lunedì successivo. Ho sceso le scale e sono andata in cucina. Beh, cucina... se fosse in una casa diversa, la chiamerebbero un angolo cottura. Tre mobiletti verde chiaro con la carta adesiva sul piano e un frigorifero. Di fronte, un tavolo con quattro sedie di metallo e formica, verde chiaro anch’essa. Dall’altra parte della stanza, un divano letto. Ci dormiva mio fratello quando veniva a trovarmi. Ho acceso il fornello. Il fornello è vicino alla finestra. Da lì vedo la ferrovia e un tratto di strada. La luce del sole, al mattino, filtra di traverso sulla facciata della casa. Se scosto con le dita la tenda, quando è sereno, vedo la luce del sole illuminare la cancellata. Ho messo sul fuoco il latte per me e mio figlio. Ho un figlio, sì, di sette anni. Sono andata a svegliarlo con una carezza, come ogni mattina. Lui si è stropicciato gli occhi, ha scostato le lenzuola e si è alzato senza dire una parola. È andato verso il bagno strascinando i piedi nudi, con la testa china e gli occhi semichiusi. Sono tornata in cucina e ho messo il latte nelle tazze. La sua è bianca con un elefante azzurro disegnato sopra e dei piccoli fiori rosa e gialli. Gliel’ho regalata io al suo terzo compleanno. Ci mette un attimo a lavarsi, Giorgio. Così si chiama mio figlio. Sono sicura che l’acqua non la tocca quasi. Al tavolo della cucina lui si siede sempre allo stesso posto, con le spalle alla porta. Io resto in piedi, con la tazza in mano a guardare fuori dalla piccola finestra. Poche parole. Qualche sorriso. Finita la colazione, l’ho aiutato ad allacciarsi le scarpe e a rassettare i capelli. Non riesco a immaginare di poter rinunciare a questi gesti. Nemmeno quando sarà grande. Quando avrà una ragazza e una motocicletta. Ho preso la mia borsa, e lui il suo zaino e siamo usciti. L’ho accompagnato da mia suocera che abita in paese. Lo porta lei a scuola. Io farei tardi al lavoro. Lavoro in fabbrica. In una fabbrica che produce componenti elettrici. Dalle otto del mattino alle cinque del pomeriggio. Faccio le saldature su dei circuiti. Mio fratello una volta mi ha chiesto a cosa servissero quei circuiti. Non l’ho mai saputo. Non mi è mai interessato. Quando ti passano tra le mani decine di quelle tavolette ogni ora, il cervello rimane attento solo al ritmo da tenere. Se pensi a qualcosa sei fottuta. Le mani si intrecciano e il tuo pezzo se ne va senza saldatura e tu rischi una strigliata dal capo reparto. Non mi lamento del mio lavoro, però. Mi stanca, sì. Mi fa un po’ male la schiena. Ma non penso mentre lavoro e questo va bene. E mi pagano a fine mese.

Il 27 aprile 2010 la sirena della fabbrica ha suonato come sempre alle cinque del pomeriggio. All’uscita, quella carogna di Giuseppe, uno che lavora nella postazione accanto alla mia, infilandosi la sigaretta in bocca, ad alta voce, ha detto — Cosa dai da mangiare a tuo marito, stasera? Carne cruda? — l’ho fulminato con lo sguardo. È proprio uno stronzo. Ci aveva provato con me quando avevo cominciato a lavorare qui. Un giorno ho alzato la voce davanti agli altri operai per oppormi ai suoi abbracci. Non l’ha mai digerita. I compagni di lavoro non ci fanno più caso a queste sue battute. Carne cruda! Lui l’ha visto mio marito che picchiava duro Ernesto, un giorno al bar del paese. Non lo riuscivano a fermare in tre. Come una belva inferocita. Mio marito lavora anche lui in una fabbrica. Una fabbrica metalmeccanica. Fa il turno di notte. Torna alle cinque del mattino. Dicono che la fabbrica chiuderà. Tutti sanno che se ne andrà a produrre all’estero, ma fanno finta di non sapere. Ci si attacca a quello che si ha, anche se è uno schifo. All’uscita dalla fabbrica, sono salita in auto con le operaie che mi danno un passaggio fino a casa. Condividiamo le spese per l’auto di Mirella. Nel tragitto si fanno battute, pettegolezzi. Si scarica la tensione della giornata.

È bello sentirle ridere. Sono arrivata a casa alle cinque e mezzo. Ho appoggiato la borsa sulla seggiola all’ingresso. Ho salito le scale e aperto la porta della camera di mio figlio. — Giorgio? — Giorgio era seduto, con le spalle girate alla porta, sulla sua sedia davanti alla scrivania. Un piccolo tavolo, dove anch’io facevo i compiti da bambina. Aveva davanti a sé il quaderno di scuola. Ho guardato la pagina bianca, mentre gli appoggiavo la mano sulla spalla. Per terra, vicino alla sedia, c’era un foglio a quadretti accartocciato. Ho chinato la testa di più per guardarlo in faccia. Due lacrime gli solcavano le guance. Ho pensato, di nuovo! Gli ho alzato la maglietta sulla schiena. C’era un segno rosso, largo tre dita. Ho preso Giorgio per le spalle e l’ho costretto ad alzarsi. Lui si opponeva. Diceva — Lascia stare mamma, non importa! — alzando la voce e piangendo. Gli ho sfilato la maglia. Sulle braccia e sul petto altri segni, alcuni erano rosso cupo. Li conosco bene. Li ho visti su me stessa. Negli ultimi anni, spesso. Quando l’ho conosciuto... mio marito non era così. Mi faceva la corte. Mi portava fiori, dolci. Era affettuoso. Nei primi anni di matrimonio mi avrà dato solo un paio di volte una sberla. Io non sapevo fare molto in casa a quell’epoca. Pensavo, se imparo a essere più brava come moglie, passerà. Ma non è andata così. Mi picchiava e poi mi chiedeva scusa. Poco per volta i nostri amici non ci frequentarono più. Nemmeno mio fratello venne più a trovarmi. Non sopportava i miei lividi, il suo alzare la voce, i secchi scapaccioni che mi dava sul collo, sorridendo, come se scherzasse. Non sopportava la mia paura.

Paola Rivolta, femm., Liberilibri 2019, collana Narrativa, pagg. 182, euro 16.00, ISBN 978-88-98094-58-5.