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Da consigliere a “consigliori”: la responsabilità penale del difensore nei procedimenti di criminalità organizzata, tra ermeneutica di garanzia ed esigenze di politica criminale

From advisers to "consigliori": the criminal liability of the lawyer in organized crime proceedings, between hermeneutics of guarantee and criminal policy requirements
Independence Day, l'astratto a fuoco
Ph. Giacomo Porro / Independence Day, l'astratto a fuoco

Articolo pubblicato nella sezione La triade del giudizio del numero 1/2020 della Rivista "Percorsi penali".

 

Abstract

Il presente lavoro analizza il tema delicato inerente al rapporto tra esercizio dell’attività di difesa e rischio penale in materia di criminalità organizzata. Più in dettaglio, l’articolo si concentra sui pericoli di incriminazione che incombono sul professionista legale, qualora quest’ultimo si trovi ad assistere uno o più clienti affiliati a consorterie di stampo mafioso, e ponga in essere attività di consulenza che, in qualche modo, si pongono ai margini di un legittimo e doveroso espletamento dell’incarico professionale.

Scopo del contributo è quello di individuare correttamente il discrimen tra attività lecita e attività illecita dell’avvocato, specie nel caso in cui la magistratura requirente ipotizzi condotte di reato quali il concorso esterno ovvero la partecipazione ad associazione mafiosa. 

This paper analyzes the delicate issue inherent in the relationship between the exercise of defense activities and criminal risk in the field of organized crime. In details, the paper focuses on the dangers of incrimination that are incumbent on the legal professional, if the latter is to assist one or more clients affiliated with mafia-type factions, and carries out consultancy activities that, in some way, are placed on the margins of a legitimate and dutiful fulfillment of the professional assignment.

The purpose of the contribution is to correctly identify the distinction between lawful activity and illegal activity of the lawyer, especially in the event that the prosecuting judiciary hypothesizes criminal conduct such as external cooperation or participation in a mafia association.

 

Sommario

1. Attività difensiva e contiguità alla mafia: brevi riflessioni preliminari

2. I rischi del mestiere: la deontologia del difensore in “terra” di mafia

3. Profili problematici in punto di segreto professionale

4. Il rischio penale connesso all’attività di consulenza ante factum

5. Le garanzie di cui all’art. 103 c.p.p. e l’esposizione del difensore ad atti di indagine presso lo studio professionale.

6. L’avvocato “consigliori” nella recente prassi giurisprudenziale

6.1. Segue: la punibilità del difensore a titolo di concorso esterno ovvero di partecipazione nell’associazione di cui all’art. 416-bis c.p.

6.2. Segue: il problema della causalità nel concorso esterno del difensore. In particolare, la causalità psichica c.d. da “rafforzamento dell’organizzazione criminale” e la rilevanza delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia

7. Qualche riflessione conclusiva alla luce di recenti casi di cronaca giudiziaria

 

Summary

1.  Defensive activity and contiguity to the mafia: brief preliminary reflections

2.  The risks of the trade: the deontology of the defender in "land" of the mafia

3.  Problematic profiles in terms of professional secrecy

4.  The criminal risk associated with preventive consultancy

5. The guarantees referred to in article 103 of the Italian Criminal Procedure Code and the exposure of the lawyer to investigative acts at the professional firm

6.  The "consigliori" lawyer in recent jurisprudential practice

6.1.  Follows: the punishment of the defender by way of external cooperation or participation in the association referred to in article 416-bis of the Italian Criminal Code

6.2. Follows: the problem of causality in the external cooperation of the defender. In particular, the so-called psychic causality from "strengthening the criminal organization" and the relevance of the statements of collaborators of justice

7. Some conclusive reflections in the light of recent cases of judicial news

 

1. Attività difensiva e contiguità alla mafia: brevi riflessioni preliminari

In tempi recenti, il prestigio della professione forense è stato messo a dura prova per effetto di complesse e altisonanti vicende giudiziarie[1] che hanno coinvolto, in particolare, alcuni difensori sospettati di intessere oscure trame con i loro assistiti, questi ultimi membri di importanti famiglie mafiose.

In realtà, non si tratta di un tema di nuova emersione nella prassi giurisprudenziale.

Il mestiere dell’avvocato, infatti, è tra i più delicati e complessi, anche perché la linea di demarcazione che separa attività lecita del professionista – espressione del diritto di difesa e del rapporto fiduciario che intercorre con il cliente – e attività illecita – esorbitante dal mandato difensivo e contraria alle leggi penali – è, molto spesso, sottile ed evanescente.

La questione, poi, si complica ancor di più nei contesti associativi, cioè nei casi in cui il difensore assista uno o più soggetti appartenenti ad organizzazioni malavitose. È altissimo, infatti, il rischio che lo stesso rimanga coinvolto in attività – in qualche modo – esulanti dal legittimo mandato e finisca, conseguentemente, per concorrere nei reati contestati ai propri clienti. Ciò a causa delle seguenti circostanze, sempre più frequenti purtroppo nella prassi applicativa: a) che i membri della consorteria delinquenziale guardino al professionista come loro “uomo di fiducia” – situazione questa, come si vedrà, tutt’altro che irrilevante sotto il profilo probatorio –; b) che la trama associativa finisca, di fatto, per “affascinare” – per così dire – gli organi inquirenti e giudicanti, a tal punto da spingerli a guardare con occhi sospetti i difensori dei membri dell’organizzazione, finendo così per imputare ai primi gli stessi reati dei loro assistiti[2].

D’altronde, non è certamente un caso che, già durante l’epoca dell’associazionismo politico-terroristico[3], la figura del “difensore-complice” delle bande armate aveva suscitato un certo interesse all’interno del dibattito dottrinario. Non solo e non tanto perché si discuteva, già in quelle vicende giudiziarie, circa l’ammissibilità o meno di un “concorso eventuale” nei delitti associativi (nello specifico, nella fattispecie plurisoggettiva di cui all’art. 306 c.p.[4]); ma in quanto erano emersi, dal punto di vista applicativo, i profili problematici sopra segnalati e inerenti, appunto, alla punibilità delle condotte di quei professionisti legali che, andando oltre i limiti di un ordinario mandato difensivo, finivano poi per svolgere attività in favore di soggetti gravitanti nell’orbita delle consorterie terroristiche.

Orbene, quando e fino a che punto l’attività “ultra mandatum” esercitata dal difensore in favore di singoli membri di compagini delinquenziali si trasforma in attività prestata a vantaggio dell’associazione nel suo complesso? Quando tali attività possono dirsi idonee a configurare una responsabilità penale in capo al professionista

Questi interrogativi, che già agitavano la dottrina[5] penalistica durante gli “anni di piombo”, hanno suscitato un rinnovato e accentuato interesse in seguito alla progressiva affermazione giurisprudenziale del concorso esterno in associazione di tipo mafioso, da un lato, e alla contestuale emersione di studi socio-criminologici sul fenomeno della c.d. “contiguità alla mafia” dei professionisti, dall’altro.

Sotto il primo punto di vista, va osservato che la natura penetrante e, per certi versi, aleatoria della nuova tipologia delittuosa – frutto, come noto, di una operazione d’innesto derivante dall’applicazione della disciplina concorsuale di cui all’art. 110 c.p. alla fattispecie associativa mafiosa – ha finito, inevitabilmente, per travolgere tutta una serie di condotte “atipiche”, come tali non riconducibili direttamente allo schema partecipativo tassativizzato nei primi due commi dell’art. 416-bis c.p. In questo senso, la figura del concorso esterno ha assolto, essenzialmente, una funzione integratrice ed estensiva della punibilità – tipica, peraltro, del modello concorsuale di cui all’art. 110 c.p. –, in quanto finalizzata a colmare taluni deficit di criminalizzazione di stereotipi criminali complessi, che da tempo sfuggivano allo stigma penale. 

Sotto il secondo profilo, va invece segnalato che i rapporti tra i professionisti e le organizzazioni mafiose sono da tempo oggetto di studi e ricerche nell’ambito delle scienze socio-criminologiche. D’altronde, che la vera forza della mafia sia ormai da ricercare in quelle “relazioni esterne”, è assunto oggi largamente condiviso dagli studiosi di sociologia[6] e, in certa misura, anche dagli operatori giuridici[7].

Il rapido evolversi della storia – specie degli ultimi trent’anni – ha permesso, infatti, di fotografare chiaramente il trapasso da una fase (per lo più coincidente con la c.d. “strategia stragista” della mafia corleonese) in cui le consorterie mafiose depredavano le risorse produttive attraverso il controllo para-militare del territorio a una fase (c.d. “della sommersione”), decisamente più articolata e complessa, ove gli stessi sodalizi criminali tendono a interloquire direttamente con i rappresentanti del potere finanziario e politico, finendo per dar vita a reti di relazioni capaci di raggiungere perfino i contesti istituzionali[8].

È, per usare una terminologia cara alle scienze sociali, la criminalità della c.d. “zona grigia”.[9]

Tra le varie prestazioni professionali suscettibili di rafforzare o comunque avvantaggiare le consorterie criminali, l’attività forense è spesso indicata dagli studiosi[10] di sociologia del diritto come quella più idonea: tutti i sistemi di elusione, di riciclaggio dei capitali illeciti e di infiltrazione nella società civile, sono resi possibili anche grazie alle sofisticate competenze e consulenze di avvocati i quali – avvalendosi del know-how inerente alle loro funzioni e attività, e suggerendo modalità o sistemi di elusione fraudolenti delle leggi – da consiglieri finiscono per trasformarsi in «oscuri consigliori» (così li definisce testualmente Cass., Sez. II, 29 aprile 2014, ud. 25 marzo 2014, n. 17894, facendo propria una terminologia tipica del linguaggio della mafia italo-americana), cioè uomini di fiducia al servizio delle associazioni di tipo mafioso.    

Ora, a ben vedere, su queste affermazioni potrebbe anche convenirsi, dal momento che esse esprimono, sostanzialmente, il bisogno di studiare, approfondire e cogliere la reale natura e le molteplici sfaccettature che contraddistinguono il fenomeno della contiguità alla mafia dei professionisti; bisogno che, ovviamente, non può essere soddisfatto muovendo da un approccio esclusivamente di tipo penalistico. Tuttavia, volgendo al termine di questa premessa introduttiva e avviandoci nel cuore della tematica, si impone preliminarmente una doverosa precisazione: bisogna respingere l’idea – molto spesso presupposta dagli studiosi di sociologia[11] – per cui ogni forma di “connivenza” tra professionisti legali e membri di organizzazioni criminali, od ogni attività dell’avvocato estranea al mandato defensionale, debba poi necessariamente tradursi in una condotta di contiguità penalmente perseguibile, specie se a titolo di partecipazione all’associazione ex art. 416-bis c.p. ovvero di concorso eventuale nel predetto reato. Siffatto modo di ragionare potrebbe, infatti, essere rischiosissimo se automaticamente trapiantato tout court sul terreno proprio del diritto penale, poiché andrebbe verosimilmente ad alimentare atteggiamenti giurisprudenziali “di sospetto” esasperatamente repressivi ed orientati a soddisfare, per lo più, esigenze di politica criminale (c.d. “giurisprudenza di lotta”). 

Ecco perché, allo stato attuale, perfino i pur importanti apporti delle scienze sociali, non sembrano in grado di offrire idonei parametri-guida utilizzabili dall’interprete giudiziale, e alla cui stregua tentare di rispondere agli interrogativi suesposti.

Allora, emerge chiaramente come la soluzione della quaestio non possa che derivare da un equo e ragionevole bilanciamento degli interessi in giuoco: da un lato, l’interesse ad una corretta amministrazione della giustizia e alla repressione dei reati, che richiede l’eliminazione di possibili “zone franche” immuni da responsabilità penale; dall’altro, la piena esplicazione del diritto di difesa – costituzionalmente tutelato all’art. 24 Cost. – cui sono a ciò funzionali tutte le garanzie previste dal codice di procedura penale all’art. 103, quali il divieto di procedere ad ispezioni e perquisizioni presso lo studio del difensore, nonché l’importante divieto di utilizzare intercettazioni relative a conversazioni fra costui ed il suo cliente.

 

2.  I rischi del mestiere: la deontologia del difensore in “terra” di mafia

Ai sensi dell’art. 24, co. 2, della Costituzione: «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento». Tale disposizione deve coniugarsi con quanto statuito all’art. 111 Cost. a seguito della novella attuata con legge costituzionale del 23 novembre 1999 n. 2, il quale, dopo aver sancito che «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge», afferma che «ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale […]».

Da siffatte norme costituzionali emerge, dunque, l’importanza fondamentale che riveste il ruolo del difensore nell’ambito di un ordinamento, quale il nostro, di stampo liberal-democratico, poiché esso «deve garantire il rispetto dello Stato di Diritto e gli interessi di coloro di cui difende i diritti e le libertà. L’avvocato ha il dovere non solo di difendere la causa del proprio cliente ma anche di essere il suo consigliere. Il rispetto della funzione professionale dell’avvocato è una condizione essenziale dello Stato di diritto e di una società democratica»[12]

Tali principi sono suscettibili di acquisire un più pregnante e denso significato soprattutto nei procedimenti di criminalità organizzata, caratterizzati come noto da alcune peculiarità: l’elevato numero degli imputati e, di conseguenza, dei difensori coinvolti; la “spettacolarizzazione” massmediatica dei processi; la concreta possibilità che l’avvocato si trovi a dover difendere uno o più soggetti collaboranti con l’Autorità giudiziaria o imputati accusati di crimini efferati (quali omicidi o stragi)[13]. Ciò perché, essendo particolarmente gravi e pesanti le accuse mosse in tali procedimenti, il mestiere dell’avvocato finisce inevitabilmente per colorirsi di complessità e delicatezza. Da un lato, in ossequio ai principi costituzionali di difesa e di giusto processo, egli ha il compito di difendere – al meglio delle sue capacità – anche soggetti accusati di gravi delitti quali quelli mafiosi (ferma restando la possibilità in capo al difensore di non accettare l’incarico professionale ovvero di rinunciarvi in corso di causa); dall’altro, però, il professionista, ove decida di instaurare un rapporto di fiducia con soggetti accusati del reato associativo ex art. 416-bis c.p. o di altri reati simili, deve essere ben consapevole di addentrarsi all’interno di un “oscuro limbo” che, in alcuni casi, potrebbe esporlo a forme di responsabilità sia disciplinari sia penali.

Si intende alludere, più specificamente, a plurimi profili di estrema delicatezza (in primis, i rapporti con la parte assistita e i colleghi) che, complici visioni enfatizzate di alcune componenti della magistratura requirente, talvolta finiscono per rendere evanescente la linea di demarcazione tra attività lecita e illecita del professionista legale[14].

Ecco perché, specie in subiecta materia, diviene anzitutto fondamentale la puntuale osservanza delle norme deontologiche e processuali da parte del difensore. Come è stato brillantemente osservato, la più importante virtù dell’avvocato è l’indipendenza: è dovere di ogni difensore «essere indipendente da ogni interesse personale, da ogni intrigo, da ogni influenza esterna di ogni cliente per quanto importante, da ogni condizionamento»[15]. Tale requisito si riferisce, soprattutto, all’esigenza che l’avvocato non si identifichi con il suo assistito, finendo con l’appiattirsi ad una logica di asservimento degli interessi processuali ed extraprocessuali di quest’ultimo[16].

Fatta questa breve premessa, risulta adesso opportuno evidenziare alcuni principi e regole di condotta contenuti nel Codice Deontologico Forense, suscettibili di acquisire una certa rilevanza nei procedimenti di criminalità organizzata, la cui violazione comporta – ai sensi dell’art. 20 del predetto codice – l’applicabilità di sanzioni di natura disciplinare[17].

Il principale punto di riferimento è rappresentato dalla regola generale desumibile dall’attuale articolo 9: «L’avvocato deve esercitare l’attività professionale con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della difesa, rispettando i principi della corretta e leale concorrenza.  L’avvocato, anche al di fuori dell’attività professionale, deve osservare i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense». Analogo principio si ritrova anche nel Codice Deontologico degli Avvocati Europei[18].

L’aspetto più interessante è che i suddetti obblighi di condotta devono essere rispettati dal difensore «anche al di fuori dell’attività professionale»: ciò significa che i doveri di indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza devono caratterizzare in toto l’attività del difensore anche nell’ambito della propria vita privata, specialmente nei casi in cui la violazione di tali doveri sia comunque in grado di ripercuotersi negativamente sulla sua reputazione personale, compromettendo altresì l’immagine della classe forense e suscitando il clamore dell’opinione pubblica (c.d. “strepitus fori”)[19].

Il principio in questione, specie se inquadrato nell’ambito che qui maggiormente interessa, si traduce essenzialmente in un monito all’avvocato di rispettare, anche al di fuori della propria attività professionale, condotte di vita che garantiscano, soprattutto, il necessario distacco da determinate categorie di soggetti o di situazioni.

A conferma dell’assunto, va osservato, che secondo l’interpretazione del C.N.F., la reputazione e l’immagine della classe forense sarebbero già compromesse (e dunque legittimerebbero le sanzioni disciplinari) in tutti i casi in cui il difensore intrattenga frequentazioni con soggetti – anche solo considerati[20] appartenenti a consorterie di stampo mafioso. Così è stato, ad esempio, affermato che «l’avvocato che frequenti continuamente un ambiente ritenuto il “domicilio” di un’associazione a delinquere di stampo mafioso; che utilizzi espressioni di tono familiare (dandosi del “tu” con un noto capo di un’associazione criminosa) e adotti un comportamento senza il necessario distacco da persone chiaramente tese a propositi delittuosi; che prospetti l’ipotesi di una testimonianza volta a provocare la revisione di un processo pone in essere un comportamento contrario ai doveri di lealtà, probità e decoro» (così C.N.F., 27 luglio 1994, n. 74, in Rassegna Forense, 1994, 325). Va poi osservato che, nel caso in cui il difensore venga condannato (o persino indagato) per il reato di cui all’art. 416-bis c.p. o per altre fattispecie simili, nei suoi confronti potranno essere applicate le sanzioni della radiazione ovvero della sospensione cautelare dall’Albo degli avvocati. Quest’ultima, in particolare, non ha natura di mera sanzione disciplinare ma è un provvedimento amministrativo precauzionale, per la cui applicazione «non è necessario che il C.d.O. apra un procedimento disciplinare e valuti la fondatezza delle incolpazioni o delle imputazioni penali, ma solo la gravità delle stesse e l’opportunità della sospensione, ove ritenga possa configurarsi, a causa del comportamento del professionista, una situazione di allarme per il decoro e la dignità dell’intera classe forense» (cfr. C.N.F., 5 luglio 1999, n. 86, in Rassegna Forense, 1999, 933. Nel caso di specie, il professionista legale era stato condannato per associazione mafiosa e nei suoi confronti era stata emessa ordinanza di custodia cautelare in carcere)[21].

 

3.  Profili problematici in punto di segreto professionale

Un primo punto critico nei rapporti tra difesa tecnica, rischio penale e doveri deontologici è costituito dalla disciplina del segreto professionale[22]. Si tratta di un profilo estremamente delicato, poiché il discrimen tra attività lecita e illecita del professionista legale inizia ad apparire decisamente più sfumato e oscuro. Ciò a causa, per un verso, del difficile coordinamento tra le diverse discipline coinvolte; per altro verso, dell’esistenza di orientamenti giurisprudenziali spesso poco attenti alle garanzie della funzione difensiva e indirizzati, al contrario, a salvaguardare a tutti i costi il sapere cognitivo in materia di mafia (peraltro, tale ultima circostanza tende ormai a diventare una costante nei processi de quo).

L’istituto in questione rappresenta il risultato della lettura combinata e sistematica delle disposizioni contenute nell’art. 622 c.p. e nell’art. 200 del codice di rito, da coordinarsi altresì con le norme che il Codice Deontologico Forense dedica espressamente alla riservatezza e al segreto professionale.

Ai sensi dell’art. 13 del predetto codice, «l’avvocato è tenuto, nell’interesse del cliente e della parte assistita, alla rigorosa osservanza del segreto professionale e al massimo riserbo su fatti e circostanze in qualsiasi modo apprese nell’attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale e comunque per ragioni professionali»[23]. Si tratta, com’è intuibile, di un profilo di estremo rilievo nel rapporto difensore-cliente e che può essere considerato una concreta esplicazione del più generale principio di fiducia. È frequentissimo infatti, specie assistendo membri di consorterie di stampo mafioso, che l’avvocato riceva informazioni relative a fatti o avvenimenti concernenti l’attività svolta o premeditata nell’ambito del contesto associativo. Orbene, al riguardo è opportuno segnalare che, a norma dell’art. 28 del codice deontologico, «è dovere, oltre che diritto, primario e fondamentale dell’avvocato mantenere il segreto e il massimo riserbo sull’attività prestata e su tutte le informazioni che gli siano fornite dal cliente e dalla parte assistita, nonché su quelle delle quali sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato». Va poi specificato che l’obbligo del segreto grava in capo al difensore anche con riferimento a informazioni o notizie ricevute da soggetti non più assistiti, essendo il relativo mandato stato adempiuto o perfino rinunciato e non accettato.

Nonostante l’ambito di operatività del divieto de quo sia particolarmente ampio, tanto da coinvolgere tutta l’équipe dello studio professionale (dipendenti, praticanti, consulenti e collaboratori, anche occasionali), non ha carattere assoluto. Ed infatti, l’art. 28.4. del CDF prevede alcune ipotesi che derogano alla regola generale e in presenza delle quali l’avvocato è legittimato a divulgare quanto appreso nell’esercizio della propria attività, sempre che tale divulgazione risulti necessaria: «a) per lo svolgimento dell’attività di difesa; b) per impedire la commissione di un reato di particolare gravità; c) per allegare circostanze di fatto in una controversia tra avvocato e cliente o parte assistita; d) nell’ambito di una procedura disciplinare. In ogni caso la divulgazione dovrà essere limitata a quanto strettamente necessario per il fine tutelato». Per i fini che qui interessano, assume una certa importanza la deroga sub b), allorché il difensore venga reso edotto dal proprio assistito circa l’intenzione di questi di commettere gravi ed efferati reati. In questi casi, parte della dottrina[24] ritiene che, onde gestire nel migliore dei modi la situazione e rispettare pedissequamente il segreto professionale, l’azione dell’avvocato debba svolgersi nei seguenti modi: dovrà, innanzitutto, allertare il proprio cliente circa il contenuto e i limiti del dovere di cui all’art. 28 del codice; se, nonostante la precisazione, la parte assistita continui nelle proprie sciagurate intenzioni, il legale dovrà immediatamente interrompere i rapporti professionali e comunicare le informazioni ricevute alla competente Autorità giudiziaria.

Tuttavia, il comportamento deontologicamente corretto del difensore – se da un lato lo mette al riparo da possibili sanzioni disciplinari – non elimina assolutamente tutti i problemi, atteso che il professionista deve comunque fare i conti con l’arduo coordinamento di discipline che si ricava dalle norme che il codice penale e il codice di procedura penale dedicano rispettivamente al segreto professionale.

A tal proposito, l’art. 622 c.p. stabilisce un divieto di rivelazione «senza giusta causa» in capo a chiunque, soggetto privato o pubblico, abbia avuto notizia di un fatto segreto per ragione del proprio «stato o ufficio, o della propria professione o arte», sempre che dal fatto derivi nocumento alla persona che si è rivolta al professionista. La rivelazione è punita con la reclusione fino ad un anno o con la multa da € 30 a € 516.

Come già accennato, la norma incriminatrice de qua deve essere attentamente coordinata con la disciplina tracciata dal codice di procedura penale, e in particolare con quanto stabilito all’art. 200 c.p.p. Quest’ultimo riconosce, solo in capo ai professionisti ivi tassativamente elencati (c.d. “professionisti qualificati”[25]), la facoltà di non deporre su fatti coperti da segreto professionale e appresi «per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria». Va specificato che il codice include gli avvocati tra i soggetti che non possono essere obbligati a rendere dichiarazioni su fatti conosciuti in ragione dell’attività professionale.

I profili problematici della questione derivano essenzialmente, per un verso, dalla previsione contenuta nel secondo comma dell’art. 200 c.p.p.; per altro verso, dal difficile rapporto che si viene ad instaurare fra il ruolo di difensore e l’ufficio di testimone.

Quanto al primo profilo, va osservato che l’art. 200, co. 2, c.p.p. attribuisce al giudice un potere di accertamento relativo alla fondatezza del segreto opposto dal professionista. Se la dichiarazione resa per esimersi dal deporre risulti al giudice infondata, questi ordina che il testimone deponga. Al tempo stesso, tuttavia, rimane comunque operativa la disciplina di cui all’art. 622 c.p.

Dal combinato disposto delle due norme parrebbe dunque evincersi, salvo eventuali obblighi giuridici di riferire comunque i fatti all’Autorità giudiziaria, che il difensore sia titolare di un “potere-dovere” di rifiutarsi di rispondere alle singole domande che lo inducano a rilasciare dichiarazioni in ordine a fatti segreti o circostanze confidenziali appresi nell’esercizio della sua professione; se l’avvocato decida comunque di deporre su tali fatti, egli non potrà invocare la “giusta causa” e risponderà, pertanto, del delitto di cui all’art. 622 c.p.[26]

Una simile interpretazione, tuttavia, oltre a risultare estremamente rigida, rischia di tradursi in un vero e proprio controsenso: il difensore, infatti, si verrebbe paradossalmente a trovare nella scomoda situazione di dover scegliere tra rispondere all’Autorità giudiziaria – e dunque andare incontro alla incriminazione per rivelazione del segreto professionale (oltreché alle sanzioni disciplinari previste nel codice deontologico) – ovvero rifiutarsi di rispondere alle domande del giudice o del pubblico ministero nonostante l’ordine di deporre, con il rischio di essere incriminato, a seconda dei casi, per i delitti di cui agli artt. 371-bis o 372 c.p.

A parere di chi scrive, la soluzione va ricercata muovendo da un’interpretazione sistematica e teleologica delle disposizioni di cui agli artt. 622 c.p. e 200 c.p.p., senza al tempo stesso arrecare un vulnus alla effettività del diritto di difesa. Perciò, una volta chiamato a deporre il difensore ed avendo questi opposto il segreto, ove il giudice accerti ex art. 200, co. 2, c.p.p. l’infondatezza della dichiarazione resa dal professionista per esimersi dal deporre e ordini pertanto a quest’ultimo di testimoniare, l’eventuale risposta del difensore – limitata ovviamente a quanto strettamente necessario – non varrebbe ad integrare comunque il delitto di cui all’art. 622 c.p., potendo l’ordine di deporre impartito dal giudice essere considerato una “giusta causa” ai sensi della fattispecie incriminatrice de qua.

Il difficile coordinamento delle varie discipline coinvolte esprime, in sostanza, il complesso bilanciamento tra i diversi interessi in giuoco: da un lato, l’interesse della giustizia all’accertamento e alla repressione dei reati, che tende a spingere verso un’applicazione il più possibile generalizzata dell’obbligo di rispondere all’Autorità giudiziaria secondo verità; dall’altro, l’interesse individuale protetto dal segreto professionale “qualificato”, volto ad esonerare dall’obbligo di deporre le persone che a causa della loro professione sono depositarie di informazioni delicate, la cui eventuale rivelazione andrebbe a coinvolgere interessi di rilevanza costituzionale (quale, ad esempio, l’art. 24 Cost.).

Quanto al secondo profilo, la disciplina sul segreto professionale è in grado di incidere in misura rilevante anche in ordine ai rapporti fra il ruolo di difensore e l’ufficio di testimone. Secondo un orientamento granitico della giurisprudenza di legittimità, «non sussiste l'incompatibilità a testimoniare del legale che, dismesso l’ufficio di difensore dell’imputato abbia poi assunto nello stesso procedimento quello di teste e, in tale veste sia escusso dal giudice, in quanto, nel vigente ordinamento, l’incompatibilità del difensore sussiste solo nel caso di contestuale esercizio delle due funzioni in questione, potendo tale ipotesi assumere rilevanza soltanto sul piano della deontologia forense. Ne deriva che, in tal caso, non è applicabile la previsione di cui all’art. 197 comma 1 lett. d) c.p.p., la quale circoscrive l’incompatibilità con l’ufficio di testimone, alla sola ipotesi del difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva» (così Cass. Pen., Sez. V, 5 febbraio 2010, n. 16255, in Cass. pen., 2011, 6, 2301; più di recente, tale indirizzo è stato confermato anche da Cass. Pen., Sez. II, 28 marzo 2017, n. 22954, fattispecie in cui la Suprema Corte ha escluso che fosse applicabile la previsione di cui all'art. 197, comma primo, lett. d), c.p.p., nell'ipotesi di testimonianza "assistita" resa da soggetto che era stato avvocato di fiducia dell'imputato nel primo grado di giudizio e, dopo essere stato arrestato per altri fatti, aveva deciso di collaborare con la giustizia rendendo dichiarazioni accusatorie con le garanzie difensive, ai sensi dell'art. 197-bis, comma secondo, c.p.p., nonostante fosse stato anche avvertito della possibilità di avvalersi del segreto professionale).

Va specificato poi che, secondo l’interpretazione fornita dalla Cassazione, il “potere-dovere” dell’avvocato di astenersi dal deporre come testimone va comunque riferito solo a quelle circostanze che siano state apprese nell’esercizio della propria attività e siano, dunque, inerenti a uno specifico mandato professionale ricevuto dal cliente (così Cass. Pen., Sez. VI, 2 aprile 2013, n. 15003). Orbene, ciò rischia di entrare palesemente in conflitto con quanto stabilito invece dalle norme deontologiche, a seguito dell’entrata in vigore delle modifiche apportate con delibera del Consiglio Nazionale Forense del 31 gennaio 2014. Ai sensi dell’attuale art. 51 del Codice Deontologico Forense, «l’avvocato deve astenersi, salvo casi eccezionali, dal deporre, come persona informata sui fatti o come testimone, su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e ad essa inerenti». La norma appena citata, cioè, parrebbe estendere l’obbligo di astensione a tutta l’attività professionale svolta dal difensore, dunque anche alle informazioni ricevute dalla parte assistita in un momento prodromico all’effettivo conferimento dell’incarico defensionale[27].

In definitiva, laddove l’avvocato ottemperi all’ordine del giudice ex art. 200, co. 2, c.p.p., e considerando altresì operativa nel caso de quo la eccezione della “giusta causa” di cui all’art. 622 c.p., a quest’ultimo potranno comunque essere applicate le sanzioni disciplinari derivanti dal mancato rispetto dei doveri deontologici di cui agli artt. 13, 28 e 51 CDF sopra descritti.

Si tratta, com’è di tutta evidenza, di una disciplina assai oscura e che non è, allo stato, in grado di offrire al professionista legale la soluzione migliore onde consentirgli di sfuggire a forme di responsabilità, sia penali che disciplinari.

 

4. Il rischio penale connesso all’attività di consulenza ante factum

Il segreto professionale sopra illustrato non è certamente l’unico profilo a destare problemi.

Diverse insidie si nascondono, infatti, anche nell’attività di consulenza legale anche factum, vale a dire quella attività – costituita prevalentemente da pareri, consigli e investigazioni preventive – svolta dal difensore in favore del cliente prima della formale iscrizione a ruolo di un procedimento penale[28]

È soprattutto in questo ambito, infatti, che i suggerimenti forniti alla parte assistita (e le altre attività svolte dal professionista sempre nell’interesse della stessa) rischiano maggiormente di apparire agli occhi degli organi inquirenti quali condotte passibili di integrare fattispecie di reato quali favoreggiamento personale, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio se non addirittura ipotesi di concorso nei reati contestati al cliente.

Ciò è tanto più vero nei processi di criminalità organizzata. La complessità che notoriamente caratterizza l’accertamento dei fatti nei contesti associativi e l’elevato numero degli indagati e/o imputati in tali procedimenti, uniti alle difficoltà connaturate all’esercizio dell’attività difensiva, potrebbero infatti indurre i magistrati requirenti a guardare con occhi repressivi ogni singolo comportamento del legale. In questi casi, la trama associativa e la fitta e complessa rete relazionale che caratterizza le associazioni mafiose finiscono, molto spesso, per rappresentare una «pericolosa ragnatela che cattura i professionisti con i quali entra in contatto»[29]. Beninteso, è ovviamente possibile che sia lo stesso difensore a travalicare i limiti posti dal diritto penale all’esercizio del mandato conferito dal cliente, finendo la sua condotta per integrare pienamente ipotesi delittuose.

Allo scopo di individuare correttamente quale libertà d’azione sia concessa dalla legge all’avvocato, pare anzitutto opportuno segnalare i più importanti principi e canoni comportamentali che il Codice Deontologico Forense dedica espressamente al rapporto tra il difensore e la parte assistita.

A tal proposito, assumono innanzitutto rilievo l’art. 10 sul “dovere di fedeltà” – ai sensi del quale «l’avvocato deve adempiere fedelmente il mandato ricevuto, svolgendo la propria attività a tutela dell’interesse della parte assistita e nel rispetto del rilievo costituzionale e sociale della difesa»  – e l’art. 27 sui “doveri di informazione” – secondo cui «l’avvocato deve informare chiaramente la parte assistita, all’atto dell’assunzione dell’incarico, delle caratteristiche e dell’importanza di quest’ultimo e delle attività da espletare, precisando le iniziative e le ipotesi di soluzione […] L’avvocato, ogni qualvolta ne venga richiesto, deve informare il cliente e la parte assistita sullo svolgimento del mandato a lui affidato e deve fornire loro copia di tutti gli atti e documenti, anche provenienti da terzi, concernenti l’oggetto del mandato e l’esecuzione dello stesso sia in sede stragiudiziale che giudiziale […]L’avvocato deve riferire alla parte assistita, se nell’interesse di questa, il contenuto di quanto appreso legittimamente nell’esercizio del mandato».

Le presenti disposizioni vanno tuttavia lette sistematicamente con quanto statuito all’art. 23, i cui canoni comportamentali IV, V, e VI individuano precisi limiti allo svolgimento della funzione difensiva: a) l’avvocato non deve consigliare azioni inutilmente gravose; b) l’avvocato è libero di accettare l’incarico, ma deve rifiutare di prestare la propria attività quando, dagli elementi conosciuti, desuma che essa sia finalizzata alla realizzazione di operazione illecita; c) l’avvocato non deve suggerire comportamenti, atti o negozi nulli, illeciti o fraudolenti.

Va specificato che, mentre la violazione del canone sub a) comporta l’applicazione della sanzione disciplinare dell’avvertimento, la violazione dei successivi doveri deontologici è invece causa di sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni.

Ulteriori limiti si ricavano, infine, dall’attuale art. 50 del codice deontologico e attengono, sostanzialmente, all’introduzione nel procedimento di prove, elementi di prova o documenti che il professionista sappia essere falsi: l’avvocato che apprenda, anche successivamente, dell’introduzione nel procedimento di prove, elementi di prova o documenti falsi, provenienti dalla parte assistita, «non può utilizzarli o deve rinunciare al mandato».

Anche in questo caso, è prevista la sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni.

Oltre a violazioni deontologiche, come già avvertito sopra, l’espletamento dell’attività di consulenza potrebbe esporre il difensore a forme di responsabilità penale. Atteso che per costante giurisprudenza l’avvocato non ha il dovere di cooperare alla ricerca della verità[30] o comunque di concorrere a creare le condizioni di una sentenza giusta, fino a che punto può dunque spingersi l’attività del legale?

Per migliore chiarezza espositiva, può essere utile considerare i seguenti casi: a) il difensore, prendendo legittima visione degli atti processuali, rende edotto il proprio cliente circa la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a suo carico e lo informa tempestivamente della possibilità che venga emessa nei suoi confronti una misura cautelare; b) il difensore, ricevute le confidenze di un suo assistito in ordine alla commissione di un determinato reato, fornisce a questi suggerimenti “spregiudicati” (ad esempio, consigliandogli di far sparire le fonti di prova o di “sistemare” la propria situazione bancaria in vista di un imminente controllo giudiziario); c) il legale rivela notizie o atti di indagine coperti da segreto al proprio cliente, dopo averli acquisiti in maniera illegittima o comunque fraudolenta.

Ora, a ben vedere, nessun dubbio può aversi circa la legittimità della condotta di cui al caso a), dal momento che la divulgazione di atti processuali – legittimamente e ritualmente acquisiti – al proprio assistito e relativi ad un procedimento a carico di quest’ultimo rientra certamente nell’ambito dell’ordinario svolgimento dell’incarico difensivo, rappresentando nient’altro che una semplice esplicazione del principio di fiducia e fedeltà che caratterizza il rapporto difensore-cliente.[31] A nulla varrebbe poi obiettare che l’eventuale divulgazione sia teoricamente suscettibile di integrare l’aiuto favoreggiatore: in circostanze simili, infatti, verrà in soccorso dell’avvocato la scriminante dell’esercizio di un diritto di cui all’art. 51 c.p., trattandosi di prestazione intellettuale resa da un professionista nell’ambito del rapporto di fiducia e assistenza caratteristico della funzione difensiva costituzionalmente tutelata.

Parimenti esente da responsabilità penale sarà il difensore del caso b). Ciò perché, pur trattandosi di una condotta riprovevole dal punto di vista morale e persino contraria ai doveri deontologici sopra considerati, secondo la maggior parte della dottrina si tratterebbe comunque di un’ipotesi di istigazione al c.d. auto favoreggiamento, non perseguibile penalmente ai sensi dell’art. 378 c.p.[32]

Diversa è la soluzione, invece, nel caso c). In situazioni del genere – come nel caso di concorso nel delitto di rivelazione o di utilizzazione di segreti d’ufficio ex art. 326 c.p. o nella fraudolenta presa visione o estrazione di copie di atti che, invece, avrebbero dovuto rimanere segreti – potrebbe tranquillamente configurarsi in capo all’avvocato una responsabilità penale poiché, essendo l’acquisizione di notizie avvenuta in maniera illegale, «si verifica una sorta di “solidarietà anomala” con l’imputato in virtù della quale l’aiuto del difensore è strumentale non già alla corretta, scrupolosa e lecita difesa ma alla elusione o deviazione delle investigazioni e, quindi, al turbamento della funzione giudiziaria rilevante ai sensi dell’art. 378 c.p.».[33]  Va poi specificato che, ove la condotta ausiliatrice venga posta in essere nei confronti di un soggetto indagato o imputato del reato di cui all’art. 416-bis c.p., potranno ravvisarsi in capo al professionista le condizioni per l’applicabilità della circostanza aggravante di cui al secondo comma dell’art. 378 c.p. e di quella ex art. 7 l. 203/1991 (oggi art. 416-bis 1. c.p.).

Per quanto sinora esposto, la linea di demarcazione tra attività lecita e attività illecita del legale parrebbe, dunque, poggiare sulle modalità di acquisizione delle notizie o degli atti di indagine: talché sarebbero da considerare penalmente perseguibili quelle condotte del difensore frutto di una mancata osservanza, oltre che delle norme deontologiche, anche delle norme processuali.

Sennonché un tale criterio, pur teoricamente corretto, rischia di risultare del tutto insufficiente nei procedimenti di criminalità organizzata, la cui complessità (come si è più volte accennato) è dovuta soprattutto all’elevato numero degli indagati/imputati e, di conseguenza, dei difensori coinvolti. È caratteristico di tali procedimenti, inoltre, che la strategia processuale sia molto spesso comune a più difese – specie per quei giudizi che riguardano una stessa famiglia mafiosa – e, conseguentemente, sono frequentissime forme di collaborazione tra i vari professionisti coinvolti. In proposito, l’art. 46 del Codice Deontologico Forense stabilisce, ai canoni comportamentali nn. V e VI, che «l’avvocato, nell’interesse della parte assistita e nel rispetto della legge, collabora con i difensori delle altre parti, anche scambiando informazioni, atti e documenti.  L’avvocato, nei casi di difesa congiunta, deve consultare il codifensore su ogni scelta processuale e informarlo del contenuto dei colloqui con il comune assistito, al fine della effettiva condivisione della difesa». Orbene, come correttamente evidenziato da parte della dottrina[34], il contenuto di tale disposizione potrebbe creare qualche problema nel caso in cui il difensore di uno dei coindagati sottoposto a misura cautelare, dopo aver avuto la possibilità di visionare atti processuali ed estrarne copia, li trasmetta, in ossequio al dovere deontologico sopra riportato, ad un collega che assiste, invece, un soggetto non sottoposto ad alcuna misura cautelare e che, ovviamente, non conosce ancora gli atti processuali. È evidente come, da un lato, la trasmissione degli atti in questione sia idonea a configurare il delitto di cui all’art. 326 c.p. in capo al primo avvocato; al tempo stesso, tuttavia, sembrerebbe eccessivo imporre al secondo legale di tacere la notizia – acquisita in maniera illegittima ma involontaria – al proprio assistito in attesa dell’applicazione della misura cautelare anche nei suoi confronti, specie ove tale notizia sia in grado di incidere sulla strategia processuale e dunque sul concreto esercizio della difesa tecnica.

Problemi in parte analoghi si avrebbero nel caso in cui un difensore, avendo assistito per ragioni professionali ad una sede dibattimentale pubblica ove un collaboratore di giustizia rendeva dichiarazioni accusatorie a carico di un esponente di vertice di un’associazione mafiosa, avvisi quest’ultimo – in assenza di uno specifico incarico professionale – dei contenuti sfavorevoli della deposizione resa dal collaborante[35]. A ben vedere, se da un lato la pubblicità del dibattimento esclude la rilevanza penale della condotta dell’avvocato, dall’altro non può sottacersi come l’informazione fornita al boss mafioso travalichi nettamente il limite di un espletamento doveroso del mandato, in questo caso addirittura neanche sussistente. Ad ogni modo, il comportamento del professionista, di per sé privo di rilevanza penale, se letto congiuntamente ad altre evidenze probatorie, potrà essere valutato dagli organi inquirenti quale indice di una “solidarietà anomala” con il capo mafia. 

Più in generale, può dirsi che quando il flusso di informazioni esorbita da un preciso e specifico rapporto difensore-cliente (come nei casi sopra riportati), il comportamento del professionista rischia maggiormente di essere qualificato come penalmente rilevante.

In materia di mafia, è poi opportuno anticipare che l’inosservanza dei doveri deontologici e delle norme processuali che regolano l’acquisizione degli atti di indagine, il flusso anomalo delle informazioni tra i difensori ovvero tra questi e soggetti non assistiti, e finanche la sola frequentazione con soggetti condannati per reati associativi in assenza della formalizzazione di uno specifico mandato, sono tutti elementi che potrebbero essere valutati dagli organi inquirenti come indicativi di una “eccessiva vicinanza” del difensore alle congreghe malavitose. In questi casi, la condotta del professionista finisce dunque per essere traghettata all’interno di una “zona d’ombra”, entro la quale quest’ultimo rischia di rimanere vittima della natura “onnivora” e penetrante del concorso esterno in associazione mafiosa[36].

A questo punto, il nodo della questione non sarà più l’individuazione dei limiti di uno specifico mandato difensivo, quanto la stessa rilevanza causale del contributo apportato dal difensore all’organizzazione criminale nel suo complesso (si veda infra, par. 6). 

 

5. Le garanzie di cui all’art. 103 c.p.p. e l’esposizione del difensore ad atti di indagine presso lo studio professionale

Ulteriore e significativa conseguenza dell’agire “spregiudicato” del difensore in contesti associativi, potrebbe essere quella di esporlo ad attività di indagine presso il proprio studio professionale.

A tal proposito, vale la pena evidenziare che il legislatore ha assicurato all’avvocato, attraverso le previsioni contenute nel codice di rito all’art. 103, la possibilità di svolgere ed effettuare la propria attività professionale e di consulenza in favore della parte assistita in maniera libera da condizionamenti e/o da ingerenze esterne ad opera delle autorità inquirenti.[37] Le guarentigie ivi previste, perciò, rappresentano piena esplicazione della funzione difensiva tutelata all’art. 24 Cost., in quanto ad essa direttamente strumentali.

Più nello specifico, l’art. 103 c.p.p. predispone tutta una serie di tutele particolari volte al libero dispiegamento dell’attività difensiva all’interno degli studi professionali (e non solo).

Le ispezioni e le perquisizioni sono innanzitutto consentite solamente in due casi tassativamente indicati: a) quando i difensori (o le altre persone che svolgono stabilmente attività nello stesso ufficio) sono imputati, «limitatamente ai fini dell’accertamento del reato loro attribuito»; b) per rilevare tracce o altri effetti materiali del reato o per ricercare cose o persone specificamente predeterminate (art. 103, co. 1, c.p.p.).  

Il sequestro di carte o documenti relativi all’oggetto della difesa è di regola vietato, salvo in relazione ad oggetti «che costituiscano corpo del reato» (art. 103, co. 2, c.p.p.).

Va osservato che, mentre per le ispezioni e per le perquisizioni la garanzia è ricollegata dal codice agli «uffici dei difensori» e dunque ai locali dello studio professionale, per quanto riguarda i sequestri – ma lo stesso dicasi in riferimento alle intercettazioni e al controllo della corrispondenza tra l’avvocato ed il cliente – essa è invece assicurata, come si ricava dall’espressione «presso i difensori» contenuta nel secondo comma, direttamente alla persona del professionista e dei suoi collaboratori. Dunque, come specificato da attenta dottrina[38], il divieto in parola è suscettibile di operare non solo quando il sequestro avvenga presso lo studio legale, ma anche qualora esso si verifichi in altro luogo idoneo allo svolgimento dell’attività difensiva.

I successivi commi 3 e 4 dell’art. 103 c.p.p. prevedono poi che i sequestri, le ispezioni e le perquisizioni devono avvenire col rispetto di determinate modalità.

È innanzitutto previsto, a pena di nullità, un preavviso al Consiglio dell’Ordine Forense affinché il «presidente ovvero un consigliere da questo delegato possa assistere alle operazioni. Allo stesso, se interviene e ne fa richiesta, è consegnata copia del provvedimento». Secondo la giurisprudenza della Cassazione[39], la norma è volta alla tutela della funzione difensiva: di conseguenza, non è necessario procedere al preavviso qualora il difensore rivesta la qualifica di imputato del reato per cui si procede alle summenzionate attività.

In secondo luogo, è stabilito dal comma 4 che alle ispezioni, perquisizioni e sequestri deve procedere «personalmente il giudice ovvero, nel corso delle indagini preliminari, il pubblico ministero in forza di motivato decreto di autorizzazione del giudice».

Non è poi consentita attività di intercettazione in relazione a conversazioni o comunicazioni dei difensori, consulenti tecnici e loro ausiliari, né a quelle tra costoro e le persone da loro assistite (art. 103, co. 5, c.p.p.).

Parimenti vietati sono il sequestro e ogni altra forma di controllo della corrispondenza tra l’imputato e il proprio avvocato «in quanto riconoscibile dalle prescritte indicazioni, salvo che l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato» (art. 103, co. 6, c.p.p.).

Ai sensi dell’ultimo comma, primo periodo, i risultati delle ispezioni, perquisizioni, sequestri, intercettazioni di conversazioni o comunicazioni[40], eseguiti in violazione delle disposizioni di cui sopra, non possono essere utilizzati.

A questo punto, deve essere specificato che le tutele di cui all’art. 103 c.p.p., e soprattutto quelle riguardanti il divieto di captazione, sono apprestate non a garanzia del ruolo in astratto ricoperto dal professionista legale, bensì a salvaguardia della libera esplicazione dell’attività difensiva in concreto esercitata. In altre parole, le disposizioni sopra esaminate si riferiscono al difensore nella sua dimensione operativa e dinamica e sempre in relazione ad uno specifico incarico professionale con il soggetto le cui conversazioni sono legittimamente intercettate[41]. Ciò perché scopo della tutela è, in sostanza, venire incontro all’esigenza di assicurare uno «spazio protetto» per l’esercizio dell’attività di difesa e libero da ingerenze esterne, non certo quello di assicurare l’impunità – una sorta di “odioso privilegio” – agli avvocati e alla loro equipe favorendo la creazione di «santuari criminali»[42].

Muovendo da queste premesse, un costante orientamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione esclude l’operatività delle guarentigie di cui all’art. 103 c.p.p. – e dunque ritiene legittime le attività investigative svolte presso lo studio professionale – all’infuori dal concreto esercizio della funzione difensiva. Così, si è ad esempio affermato che «le guarentigie previste dall’art. 103 c.p.p. non sono volte a tutelare chiunque eserciti la professione legale, ma solo chi sia “difensore” in forza di specifico mandato a lui conferito nelle forme di legge (e ciò essenzialmente in funzione di garanzia del diritto di difesa dell’imputato), quindi non possono trovare applicazione qualora gli atti indicati nel citato art. 103 debbano essere compiuti nei confronti di esercente la professione legale» (nella specie, la Corte ha ritenuto legittima la perquisizione svolta presso lo studio di un avvocato poiché questa era stata operata nell’ambito di una complessa attività di indagine a carico dell’imputato, che non era mai stato difeso dal predetto legale. Alla luce degli elementi di indagine, più nello specifico, vi era fondato motivo di ritenere che presso lo studio del difensore, attesi i rapporti economici e finanziari sussistenti fra l’avvocato, l’imputato e i suoi prestanome, vi fosse documentazione attinente all’attività illecita oggetto di indagine[43]).

Per ciò che concerne più in dettaglio il divieto di captazione, si è osservato che la tutela di cui al quinto comma dell’art. 103 c.p.p. «riguarda l’attività captativa del difensore in quanto tale ed ha dunque ad oggetto le sole conversazioni o comunicazioni – individuabili, ai fini della loro inutilizzabilità, a seguito di una verifica postuma – inerenti all’esercizio delle funzioni del suo ufficio e non si estende ad ogni altra conversazione che si svolga nel suo ufficio o domicilio» (così Cass. Pen., Sez. IV, sent. n. 55253 del 5 ottobre 2016). E ancora, «l’art. 103, comma quinto, c.p.p. […] ha ad oggetto le sole conversazioni o comunicazioni relative agli affari nei quali i legali esercitano la loro attività difensiva, e non si estende, quindi, alle conversazioni che integrino esse stesse reato» (cfr. Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 43410 del 6 ottobre 2015).

Dunque, nel caso in cui venga captato un colloquio fra l’indagato ed un avvocato legati da uno stretto rapporto di amicizia e familiarità, il giudice dovrà stabilire, all’esito di un esame complessivo e unitario dell’intera conversazione intercettata: a) in primis, se quanto detto dall’indagato sia finalizzato ad ottenere consigli o pareri difensivi ovvero non sia, piuttosto, una mera confidenza che potrebbe essere fatta a chiunque altro; b) in secundis, se quanto detto dal difensore sia di natura professionale (e dunque rientrante nell’ambito del mandato difensivo) ovvero abbia una mera natura consolatoria ed amicale a fronte delle confidenze ricevute[44]. Nel primo caso, la conversazione captata sarà inutilizzabile ai sensi dell’art. 103, co. 7, c.p.p.; nel secondo caso, invece, non opererà il divieto previsto nel quinto comma ed il colloquio intercettato potrà essere utilizzato.

Se gli orientamenti di legittimità sopra segnalati muovono da una premessa in linea di principio condivisibile, va segnalato tuttavia che tale linea ermeneutica ha spesso dato adito ad una pericolosa prassi della magistratura requirente (soprattutto in materia di criminalità organizzata) volta a stravolgere, o comunque a neutralizzare, il senso del divieto di captazione. Si intende alludere, cioè, alla pratica dell’ascolto a priori, da parte degli investigatori, di tutte le conversazioni che intercorrono tra il cliente-indagato (sulla cui utenza viene disposta l’attività captativa) e il suo difensore[45]. La prassi in questione viene fondata su di un duplice ordine di ragioni: per un verso, si argomenta che il divieto di cui al comma 5 sarebbe inoperante se ad essere intercettata è l’utenza dell’indagato e non quella del suo difensore; per altro verso, si sostiene una sorta di “riserva ex post di inutilizzabilità”: cioè che tali telefonate e comunicazioni – se intercettate illegittimamente (secondo una valutazione postuma) – non saranno utilizzate processualmente.

Per arginare tale fenomeno e allo scopo di rendere effettiva la tutela della riservatezza delle comunicazioni tra il difensore e il cliente, è intervenuto di recente il decreto legislativo 29 dicembre 2017, n. 216 – attuativo della legge 103/2017 (c.d. “riforma Orlando”) – il cui art. 2 ha aggiunto un secondo periodo al comma 7 dell’art. 103 c.p.p., a tenore del quale «Fermo il divieto di utilizzazione di cui al primo periodo, quando le comunicazioni e conversazioni sono comunque intercettate, il loro contenuto non può essere trascritto, neanche sommariamente, e nel verbale delle operazioni sono indicate soltanto la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è avvenuta».

Nonostante i nobili intenti del legislatore, è dubbio che tale novella possa davvero incidere negativamente sulla prassi applicativa sopra segnalata. Va osservato infatti che, qualora gli operanti di Polizia giudiziaria intercettino il contenuto di conversazioni che potrebbero teoricamente rientrare nella sfera di tutela di cui all’art. 103 c.p.p., un eventuale dubbio in ordine alla attinenza del colloquio captato alla funzione difensiva dovrà in prima battuta essere risolto dal Pubblico ministero. Dunque, anche se emerga che l’intercettazione in corso è vietata, e fermo il nuovo divieto di trascrizione, non sussiste in ogni caso un potere in capo agli organi di polizia giudiziaria di interrompere autonomamente l’attività di ascolto, per l’evidente necessità del controllo “ex post” il quale ricade sotto la responsabilità della magistratura requirente[46].

Inoltre, si è anche visto nei paragrafi precedenti che, soprattutto nei contesti di criminalità mafiosa, le condotte contestate al difensore sono molto spesso di difficile inquadramento, poiché si prestano a letture e interpretazioni diverse. Ecco perché i singoli comportamenti o persino i singoli colloqui captati richiedono, inevitabilmente, una verifica approfondita da parte degli organi inquirenti già ab origine. Sotto questo punto di vista, è anzi molto probabile che il contenuto di una conversazione intercettata – e che in teoria potrebbe rientrare nella sfera di garanzia di cui all’art. 103 c.p.p. – sia sottoposto a una vera e propria “operazione di scandagliamento” da parte delle procure, volta a verificare eventuali messaggi in codice (peraltro tipici del linguaggio mafioso) ovvero a decriptare il significato complessivo del dialogo tra il difensore ed eventuali associati suoi assistiti.

Probabilmente, il vero merito della novella è quello di aver contribuito a ridurre le possibilità che il contenuto di un colloquio intercettato tra difensore e assistito possa poi finire nelle prime pagine dei notiziari e soddisfare così l’appetito massmediatico, atteso il divieto di trascrizione (anche sommaria) che grava in capo agli organi di Polizia giudiziaria nel procedere all’ascolto.

In conclusione, salvo eventuali e improvvisi mutamenti nella giurisprudenza di legittimità (che per il momento non è dato registrare[47]), la valutazione postuma dei risultati delle intercettazioni continuerà ad agitare il dibattito dottrinario ancora in futuro.

 

6.  L’avvocato “consigliori” nella recente prassi giurisprudenziale

Come si è visto, è specialmente quando l’attività del difensore si pone ai margini di uno specifico incarico professionale, che diviene più forte il rischio che ogni singolo suo comportamento (ovvero persino il singolo suggerimento fornito alla parte assistita) si trasformi ex se in attività penalmente perseguibile.

Tale circostanza risulta addirittura amplificata ove il professionista si trovi ad assistere – come spesso accade nei procedimenti di criminalità organizzata – più soggetti accusati di far parte della stessa famiglia mafiosa. La casistica giurisprudenziale rivela che la trama associativa sovente è in grado di offrire agli organi inquirenti e giudicanti una chiave di lettura degli specifici fatti imputati ai difensori, senza la quale – come è stato osservato[48] – molto difficilmente si perverrebbe ad un’affermazione di penale responsabilità. In altri termini, la condotta che, di per sé, non appare suscettibile di integrare nemmeno l’aiuto favoreggiatore – perché magari trattasi di un semplice consiglio “spregiudicato” fornito dal difensore al proprio assistito (come tale, come si è visto sopra, non punibile ai sensi dell’art. 378 c.p.) –, letta e contestualizzata all’interno della dinamica associativa, finisce per acquisire i connotati del contributo punibile a titolo di concorso esterno ovvero le caratteristiche di una stabile ed effettiva “messa a disposizione” da parte del professionista nei confronti della struttura criminale. La stessa cosa può verificarsi qualora si interpretino gli specifici e plurimi mandati difensivi ricevuti da soggetti associati alla stregua di un unico e complesso rapporto intrattenuto dal difensore con l’intera organizzazione criminale: circostanza questa che vale a rendere il professionista “avvocato del gruppo”, con la conseguente configurazione a suo carico della fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p.[49] 

Ecco perché, specie in subiecta materia, diviene fondamentale individuare i requisiti e i caratteri “minimali” che la condotta del professionista deve possedere per giustificare, in ossequio al canone probatorio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, la punibilità dello stesso – a seconda dei casi – a titolo di partecipazione ovvero di concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Solo individuando il preciso quantum di apporto causale sufficiente, sarà possibile distinguere un’attività lecita di consulenza, prestata magari dal difensore ad un esponente di vertice di una famiglia mafiosa, da un effettivo e rilevante contributo all’organizzazione nel suo complesso; una legittima attività di assistenza prestata a più associati, da un anomalo ruolo svolto dal difensore all’interno delle dinamiche del gruppo criminale; i suggerimenti leciti forniti dall’avvocato al singolo associato o ai suoi prossimi congiunti, da un contributo effettivo alle attività della cosca mafiosa; i legittimi colloqui in carcere del difensore con i propri assistiti, da un’attività penalmente illecita finalizzata a veicolare informazioni, notizie e persino ordini dai mafiosi detenuti in regime di 41-bis verso l’esterno delle carceri. In sostanza, in questo paragrafo si tenterà di rispondere al seguente interrogativo: quand’è che l’avvocato da consigliere si trasforma in «oscuro consigliori»?

 

6.1. Segue: la punibilità del difensore a titolo di concorso esterno ovvero di partecipazione nell’associazione di cui all’art. 416-bis c.p.

Invero, pur trattandosi di un tema di non recente emersione nella prassi giurisprudenziale e applicativa[50], la punibilità dell’avvocato a titolo di partecipazione ovvero di concorso eventuale nell’associazione prevista e punita dall’art. 416-bis c.p. non ha suscitato, salvo pochissime e illuminanti eccezioni[51], un vivace confronto a livello dottrinario e/o manualistico. L’interesse dei penalisti per la tematica del concorso esterno, infatti, è stato per lo più indirizzato, in un primo momento, verso la ricostruzione dogmatico-concettuale dell’istituto de quo[52]; per altro verso e più di recente, sugli effetti e sulle ricadute che la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo resa nel celebre “caso Contrada” ha comportato (e potrebbe ancora comportare) nel nostro ordinamento penalistico[53].

Eppure si tratta di un profilo, oltre che estremamente attuale, anche particolarmente complesso giacché, nonostante le diverse pronunzie delle Sezioni Unite intervenute nell’arco di un decennio (dal 1994 al 2005) – le quali hanno avuto l’effetto di cristallizzare[54] progressivamente a livello giuridico, sia pure con alcune oscillazioni, l’ammissibilità del concorso ex art. 110 in riferimento alla fattispecie associativa –, la linea di demarcazione tra le due forme di responsabilità (concorso esterno e partecipazione associativa) non è sempre stata ben chiara e definita.

Ciò è probabilmente dovuto al fatto che l’area “riservata” all’operatività del concorso esterno è in grado di dilatarsi ovvero di restringersi a seconda della qualificazione giuridica data alla condotta di partecipazione e alla stessa verificabilità processuale di quest’ultima, nel senso che laddove dal compendio probatorio emergano elementi dai quali desumere l’avvenuto inserimento del soggetto nella consorteria delinquenziale, con carattere di tendenziale stabilità e con l’assunzione di un ruolo dinamico e funzionale, si avrà la partecipazione; invece il concorso esterno è necessariamente ancorato ad un modello “causalmente orientato” e presuppone, per un verso, la presa d’atto da parte dell’organo giudicante circa il non inserimento del soggetto nella congrega criminosa, per altro verso la ricostruzione di una condotta capace di realizzare un contributo specifico, concreto e consapevole alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione nel suo complesso[55].

Dunque, può definirsi intraneus quel soggetto organico al sodalizio mafioso e, dunque, inserito all’interno della struttura organizzativa con un proprio ruolo, sia pur generico[56].

Da ciò discende che la condotta tipica della partecipazione si realizzerà nel momento in cui risulterà accertato che il singolo soggetto sia attivamente inserito in tale tipo di tessuto organizzativo, del quale condivide finalità programmatiche e modalità di perseguimento. A tal proposito, andrà dimostrata dal punto di vista probatorio ciò che la dottrina definisce “affectio societatis[57]: vale a dire, la consapevolezza e la volontà di far parte in modo effettivo della consorteria mafiosa, in modo tale da poter apportare alla stessa un contributo attuale, sia pure minimo ma non insignificante, anche in vista del perseguimento dei suoi obiettivi sociali. Più nello specifico, l’intraneus dovrà porre in essere, sul piano fattuale, un ruolo dinamico e funzionale attraverso uno stabile, effettivo e concreto contributo (manifestabile in qualsiasi modo), destinato alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione. La Corte di Cassazione ha più volte precisato che «il prendere parte» al fenomeno associativo non implica necessariamente la commissione dei delitti-scopo del sodalizio, potendo coinvolgere solamente quelle attività funzionali al radicamento e all’infiltrazione dell’organizzazione nella società civile, ove la mafia sovente «si presenta con il volto di personaggi insospettabili i quali, avvalendosi di specifiche competenze professionali, avvantaggiano l’associazione fiancheggiandola e favorendola nel rafforzamento del potere economico, nell’allargamento delle conoscenze e dei contatti con altri membri influenti della società civile» (così Cass. Pen., Sez. II, n. 18798/2012).

Dunque il professionista, perché possa essere considerato partecipe, dovrà svolgere attività che, per le modalità attraverso cui sono realizzate ovvero per le finalità per le quali sono poste in essere, manifestino chiaramente l’affectio societatis e, dunque, la sua consapevolezza di contribuire, sia pure minimamente, al potenziamento della societas sceleris e al perseguimento dei suoi obiettivi criminali. Oltre a ciò, sarà poi necessario provare che i componenti della consorteria lo abbiano, in qualche modo, “accettato” come partecipe, seppur tale accettazione potrà risultare per facta concludentia, senza la necessità di specifici rituali interni[58].

Assume invece la qualità di extraneus colui che, privo della affectio societatis ed estraneo alla struttura organizzativa dell’ente, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo – dotato di effettiva rilevanza causale – ai fini della conservazione ovvero del rafforzamento della compagine delinquenziale, e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima (cfr. Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2002, dep. 21 maggio 2003, Carnevale, CED-224181, in Riv. it. proc. pen., 2004, 322 ss.). Va specificato che, seppur il concorrente esterno debba essere animato da una volontà di contribuire all’attuazione, anche parziale, del programma associativo (dolo diretto ma generico), si ritiene in giurisprudenza[59] e in dottrina[60] che il suo coinvolgimento possa essere indirizzato anche ad altre finalità di carattere individuale e/o egoistico.

Ciò detto in linea generale, è adesso opportuno verificare come la giurisprudenza abbia applicato i principi in questione alla materia che qui maggiormente interessa. A tal proposito, risulterà utile analizzare tre recenti pronunzie della Suprema Corte.

Una prima decisione rilevante è la numero 17894 della Seconda Sezione Penale della Cassazione, depositata il 29 aprile 2014, con cui la Suprema Corte ha affermato diversi principi di diritto in ordine alla responsabilità a titolo di concorso esterno dell’avvocato che, lungi dal limitarsi a fornire attività di consulenza al proprio assistito – fornendo pareri o consigli di natura professionale – mantenendosi nell’ambito della legalità, abbia invece assicurato alla consorteria un’assistenza di natura tecnico-legale finalizzata a suggerire sistemi e modalità di elusione fraudolenta della legge.

Secondo gli Ermellini, per individuare correttamente il discrimen tra condotta lecita e condotta illecita del professionista legale, occorre avere riguardo al “grado di coinvolgimento” del difensore nelle attività del suo cliente, in modo tale da verificare l’indipendenza del primo rispetto agli interessi del secondo.

Sulla base di questo ragionamento, sarà lecita quell’attività in cui il professionista, senza lasciarsi coinvolgere nelle attività del cliente, si limiti a fornirgli pareri, consigli e assistenza – sia per fatti compiuti sia per attività da compiere in futuro – che si mantengano nell’ambito di un contesto lecito e consentito dalle leggi[61].

È invece illecita quella attività in cui l’avvocato si lasci coinvolgere in prima persona nelle attività del suo assistito, appiattendosi in una logica di asservimento degli interessi di quest’ultimo, abdicando così al proprio ruolo e diventando un socio in quella attività. Va specificato che anche laddove il difensore non partecipi attivamente e in prima persona all’attività del cliente associato, potrà essere incriminato a titolo di concorso esterno (ovvero interno, a seconda delle concrete situazioni) qualora fornisca al mafioso consigli, pareri e assistenza contra legem, suggerendo – in quanto esperto di leggi e meccanismi finanziari – sistemi e modalità di elusione fraudolenti. In questo caso, anche il singolo consiglio o suggerimento – poiché espressione del know how posseduto dal professionista nella sua area di competenza – è in grado di trasformarsi, secondo il ragionamento seguito dalla Cassazione, in un contributo specifico, consapevole, volontario e diretto al rafforzamento o alla conservazione della compagine associativa, se dotato di apprezzabile rilevanza causale. In tal caso, l’avvocato da consigliere si trasforma in «oscuro consigliori», cioè «il consigliere di fiducia della associazione mafiosa con il compito, in quanto esperto di leggi e di finanza, di suggerire sistemi e modalità di elusione fraudolenti. Di conseguenza, risponde di concorso (interno o esterno a seconda delle concrete situazioni) in associazione mafiosa l’avvocato che, lasciandosi coinvolgere nella attività del cliente mafioso, abdica al suo ruolo e, o diventando socio in quella attività, o fornendo consigli, pareri e assistenza contra legem, contribuisce con quella sua attività alla conservazione, rafforzamento e realizzazione del programma criminoso dell’associazione mafiosa»[62].

In una seconda pronuncia, la Suprema Corte puntualizza e specifica quanto già affermato nella precedente statuizione.

Nella sentenza in questione, i giudici di legittimità erano chiamati a valutare la responsabilità penale di due difensori coinvolti in un procedimento di ‘ndrangheta.

Il primo, F.C., era stato assolto nei primi due gradi di giudizio dall’accusa di favoreggiamento pluriaggravato (ex artt. 378, co. 2, e 7 l. 203/1991); il secondo, invece, V.M., era stato condannato per i reati di cui agli artt. 81, comma 2, 110 c.p.., 12 quinquies legge 7 agosto 1992 n. 356, per avere cooperato nella intestazione fittizia ad un società di alcuni terreni riconducibili alla cosca mafiosa, e di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p.., per avere contribuito, pur senza farne parte, alla realizzazione degli scopi della famiglia di ‘ndrangheta fornendo consigli, gestendone gli interessi economici e fornendo consulenza in materia finanziaria e di intermediazione immobiliare, anche mantenendo i rapporti fra gli associati carcerati e quelli rimasti liberi dopo l'arresto di molti componenti della cosca.

Per la parte che qui interessa, il Procuratore Generale ricorreva in Cassazione e chiedeva l’annullamento della sentenza d’appello nella parte in cui aveva confermato l’assoluzione del primo avvocato, deducendo violazione degli artt. 125, comma 3, e 546, comma 1 lett. b), c.p.p. per avere omesso la valutazione di alcune prove dalle quali era desumibile la rilevanza penale della condotta contestata al predetto professionista. Più nello specifico, il Procuratore rilevava come quest’ultimo avesse interferito per evitare che un affiliato (suo assistito) cominciasse a collaborare con l’Autorità giudiziaria, avendo inoltre depositato una nomina, quale difensore di altro assistito-affiliato, retrodatata per non far verificare i contatti da questi intrattenuti con altro esponente della consorteria.

La Cassazione, confermando sostanzialmente l’impianto scolpito da Cass. Pen., Sez. II, n. 17894/14, ha in proposito affermato il seguente principio di diritto: «Il professionista nell'area legale (avvocato, notaio) che non si limiti a fornire al proprio cliente, che sia partecipe di una associazione a delinquere ex art. 416 bis cod. pen., consigli e pareri mantenendosi nell'ambito di quanto legalmente consentito ma si trasformi nel consigliere di fiducia del capo di una associazione mafiosa in quanto conoscitore delle leggi e dei modi per eluderle ("consigliori", nel gergo italo-americano), assicurando un'assistenza tecnico legale finalizzata a suggerire sistemi e modalità di elusione fraudolenta della legge, risponde del delitto di partecipazione all'associazione, se ricorrono gli ulteriori presupposti della affectio societatis e dello stabile inserimento nella sua struttura organizzativa. Quando mancano questi ulteriori presupposti, rimane configurabile il concorso esterno se la condotta costituisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo (di natura materiale o morale) dotato di apprezzabile rilevanza causale per la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso dell'associazione. In altri termini, per integrare l'elemento oggettivo nel concorso nel reato associativo è sempre necessario che il contributo del concorrente valga a conservare o rafforzare le capacità operative dell'associazione e non soltanto gli interessi personali di alcuni suoi appartenenti, anche se identificabili con i soggetti costituenti il nucleo egemone all'interno dell'associazione» (così Cass. Pen., Sez. VI, sent. 11 luglio 2018, n. 58411).

Nei passaggi successivi della pronunzia, la Corte individua altresì taluni comportamenti del professionista suscettibili di integrare il delitto di cui all’art. 378 c.p.: a) alterazione dei risultati delle indagini già svolte; b) sviamento dell’attività di ricerca e acquisizione della prova da parte della magistratura; c) acquisizione illegale della notizia circa l’emissione nei confronti del proprio assistito di una misura cautelare e contestuale informazione fornita a quest’ultimo, in modo da consentirgli di sottrarsi all’esecuzione della misura stessa e alle successive ricerche dell’autorità. In questi casi, come nel caso di concorso nel delitto di rivelazione o di utilizzazione di segreti d’ufficio o nella fraudolenta visione o estrazione di copie di atti che devono rimanere segreti, il difensore «commette un favoreggiamento personale, che non ricorre, invece, nel caso del difensore che, avendo ritualmente conosciuto atti processuali da cui emergano gravi indizi di colpevolezza contro il suo assistito, lo informi della possibilità che gli sia applicata una misura cautelare nell'ambito del rapporto di fiducia che intercorre tra professionista e cliente e per il legittimo esercizio del diritto di difesa»[63].

Sulla base di quanto sopra esposto, gli Ermellini hanno rigettato il ricorso del Procuratore Generale ed hanno ritenuto che la condotta del primo professionista non aveva mai oltrepassato i limiti della normale difesa dei suoi assistiti.

Quanto al concorso esterno ascritto al secondo difensore, i giudici di legittimità – discostandosi dalle valutazioni espresse dai giudici di merito – hanno ritenuto che, di per sé considerate, le condotte di costui non erano illecite, trattandosi di fatti cronologicamente distanti fra loro e dei quali non era stato esaminato l’elemento psicologico in relazione al reato contestato, né la loro specifica valenza al fine di rafforzare o consolidare l’associazione di ‘ndrangheta.  Più in dettaglio, la Corte rileva che il consiglio del difensore dato ai suoi clienti-associati di essere cauti nei dialoghi perché potevano essere intercettati, l’atteggiamento di non immediata ripulsa di fronte alla richiesta di un suo assistito di occultare un fascicolo per giungere alla prescrizione del reato e l’avallo dato al proposito di un altro suo cliente di darsi alla latitanza in modo tale da evitare di essere raggiunto da una misura custodiale, «costituiscono condotte censurabili sotto diversi profili, ma non si presentano come azioni di concreto ausilio alla realizzazione di uno o più degli scopi tipici del programma criminoso della associazione di stampo mafioso e vanno considerati anche alla luce del non agevole rapporto ventennale fra l'avvocato e i suoi clienti criminali»[64].

In una terza e più recente pronunzia – emessa all’esito di un lungo e complesso iter giudiziario ove un altro difensore, G. B. S., era stato accusato di aver svolto la sua funzione in chiara violazione dei doveri professionali, mettendo stabilmente a disposizione la propria attività in favore degli affiliati ad un locale di ‘ndrangheta – la Cassazione ha affermato che «integra la condotta di "concorso esterno" l'attività del professionista che, in esecuzione di una promessa fatta ai vertici dell'associazione mafiosa, assicuri il suo concreto impegno nell'irregolare gestione di un procedimento giudiziario, posto che il sodalizio si rafforza comunque per effetto di quel contributo, non essendo necessario che i propositi delittuosi siano stati concretamente realizzati» (Cass. Pen., Sez. VI, sent. 4 giugno 2019, n. 32373).

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto la sussistenza del reato contestato all’avvocato in quanto quest’ultimo, in assenza di un mandato difensivo o, comunque, travalicandone i limiti, aveva fornito suggerimenti per eludere le investigazioni, si era reso disponibile a portare all'esterno del carcere messaggi del capo e aveva tentato di influire illecitamente sugli esiti di procedimenti penali.

 

6.2. Segue: il problema della causalità nel concorso esterno del difensore. In particolare, la causalità psichica c.d. da “rafforzamento dell’organizzazione criminale” e la rilevanza delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia

Volendo tracciare una summa delle indicazioni fornite dalla Corte di Cassazione nelle tre sentenze sopra menzionate, si può anzitutto rilevare che, onde valutare se la condotta del difensore sia punibile a titolo di concorso esterno ovvero di partecipazione ad associazione mafiosa, si impone all’organo giudicante un peculiare giudizio di accertamento – per così dire – “bifasico”.  In una prima frase, il decidente dovrà verificare, secondo il suo prudente e rigoroso apprezzamento, se il comportamento del professionista – comprensivo di suggerimenti, pareri e attività di consulenza latu sensu intesa – sia da ricondurre ad un legittimo e specifico incarico di natura professionale conferito da uno o più clienti, e sia soprattutto rispettoso – oltre che delle norme deontologiche – anche delle norme sostanziali e processuali che il diritto penale pone quali limiti invalicabili ad un corretto esercizio della funzione difensiva. In caso di risposta affermativa, la condotta del difensore sarà esente da responsabilità penale, trattandosi anzi di una concreta esplicazione del diritto di difesa costituzionalmente tutelato.

In caso di risposta negativa, invece, si aprirà la seconda fase, entro la quale il giudice dovrà apprezzare la rilevanza causale della condotta contestata al professionista.

Semplificando ulteriormente, nel corso di tale giudizio di accertamento l’organo giudicante potrebbe imbattersi nelle seguenti situazioni:

1) l’avvocato assiste più clienti-associati o persino un esponente di vertice della consorteria, fornendo a questi suggerimenti e svolgendo in suo favore attività di consulenza, ma l’operato del professionista si mantiene entro i limiti di legalità previsti dall’ordinamento. Nessuna forma di responsabilità (né penale né deontologica) potrà essere, in questo caso, invocata;

2) il professionista pone in essere una condotta che, di per sé considerata, pur ponendosi ai margini di uno specifico e doveroso incarico professionale, è priva di apprezzabile rilevanza causale ai fini del rafforzamento ovvero della conservazione della struttura organizzativa del sodalizio. Anche in questo caso, nonostante la riprovevolezza morale del comportamento del legale, e salve eventuali sanzioni di carattere deontologico, non potrà essere invocata la responsabilità a titolo di concorso (né esterno né interno) nel reato associativo. Può farsi l’esempio del difensore il quale, avendo assistito ad un dibattimento pubblico ove un collaboratore di giustizia rilasciava pesanti accuse a carico di un esponente di vertice della consorteria, informi tempestivamente quest’ultimo circa i contenuti a sé sfavorevoli della deposizione resa dal pentito, in assenza della formalizzazione di uno specifico mandato difensivo. Pur trattandosi di un comportamento certamente anomalo, la condotta del difensore è tuttavia priva di apprezzabile rilevanza causale, attesa la natura pubblica del contesto dibattimentale ove il collaborante rilasciava le dichiarazioni[65];

c) il difensore concretizza una condotta che, oltre ad essere contra legem, costituisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo (sia di natura materiale sia di natura morale) dotato di apprezzabile rilevanza causale per la realizzazione, anche parziale, degli scopi criminali dell’ente e che valga a conservarne ovvero a rafforzarne le capacità operative. In tal caso potrà configurarsi il concorso esterno in capo al difensore, dal momento che la stessa attività di consulenza e/o di assistenza è finalizzata a suggerire sistemi e modalità di elusione fraudolenta della legge;

d) infine, qualora emergano dalle evidenze probatorie, oltre a quanto già osservato sub c), gli ulteriori presupposti della affectio societatis e dello stabile inserimento all’interno della compagine associativa, il difensore risponderà a titolo di partecipe ex art. 416-bis c.p.

Posto quanto sopra, rimane a questo punto da chiedersi in che modo debba essere valutata l’efficacia eziologica degli apporti causali provenienti dal difensore extraneus, rispetto al macro-evento rappresentato dal potenziamento (inteso sia come rafforzamento sia come conservazione) dell’associazione nel suo complesso. 

I notevoli problemi di accertamento probatorio derivano, com’è stato già in passato segnalato da autorevole dottrina[66], dalla evidente sproporzione di scala sussistente tra i due anelli della relazione causale, specie se la consorteria è di vaste dimensioni (come spesso accade). Essendo dato ormai incontestabile che le associazioni mafiose, soprattutto quelle di matrice storica, si caratterizzano per la complessità della loro struttura organizzativa “reticolare”, ai fini della sussistenza del nesso eziologico sarà sufficiente accertare una apprezzabile relazione causale tra il singolo contributo dell’agente extraneus e una parte del macro-evento associazione, quest’ultimo inteso quale potenziamento di una singola cosca mafiosa o di una sua diramazione territoriale (e non, ovviamente, dell’intera associazione globalmente considerata). Al tempo stesso, tuttavia, il rafforzamento o la conservazione non devono riguardare solamente gli interessi personali di alcuni componenti della consorteria, anche se identificabili con i soggetti costituenti il nucleo egemone all'interno del sodalizio.

Ma il vero grattacapo, in verità, attiene all’individuazione dei criteri attraverso i quali l’organo giudicante è chiamato a verificare processualmente l’efficacia eziologica dei contributi “esterni”. Atteso che la tematica acquisisce una certa rilevanza proprio in riferimento al caso degli avvocati, è necessario domandarsi, più nello specifico, se tali criteri richiedano una verifica di idoneità ex ante ovvero un giudizio di causalità ex post e in concreto. Sul punto, la giurisprudenza della Cassazione – nonostante gli interventi delle Sezioni Unite – è parsa alquanto oscillante.

In un primo momento, sostanzialmente coincidente con il primo dictum della Corte riunita nel 1994[67], era parso prevalere un metodo di accertamento della condotta dell’extraneus orientato alla produzione di un vantaggio concreto in favore dell’associazione mafiosa. Ed infatti, nella pronunzia Demitry – oltre a prendere una chiara posizione in favore dell’ammissibilità del concorso esterno nel reato associativo – la Suprema Corte tracciò la linea di demarcazione tra la condotta dell’intraneus e quella del concorrente esterno basandola sul piano delle rispettive funzioni: per un verso, cioè, si riconobbe al partecipe, compenetrato organicamente, un ruolo dinamico e funzionale alla quotidianità dell’ente criminoso; per altro verso, la figura dell’extraneus venne relegata ad uno «stato di fibrillazione», da intendersi come una sorta di fase patologica della vita dell’associazione, cui egli era chiamato a risolvere attraverso il proprio determinante contributo[68].

Mediante detta configurazione, la Corte riunita richiedeva, in sostanza, l’effettiva dimostrazione della reale incidenza del contributo prestato dall’extraneus rispetto al mantenimento in vita della consorteria nel suo complesso (o di un suo settore di attività).

Sennonché, allo scopo di alleggerire il quantum di prova richiesto alla magistratura requirente – e probabilmente per soddisfare esigenze di politica criminale – le Sezioni Unite nel 2002, sentenza Carnevale, invertivano rotta e mutavano drasticamente orientamento in ordine alla verificabilità processuale ed empirica dell’efficacia eziologica del contributo esterno, nonostante la fedeltà dichiarata ai principi espressi da Demitry. Superata la “tesi della fibrillazione” accolta nel 1994, gli Ermellini ricostruivano il giudizio di causalità alla stregua del concetto di «idoneità», dunque propendendo per una verifica ex ante e del tutto antitetica rispetto a quella proposta nel precedente menzionato. Nella sentenza si afferma, più nello specifico, che il contributo dell’extraneus «deve poter essere apprezzato come idoneo, in termini di concretezza, specificità e rilevanza a determinare, sotto il profilo causale, la conservazione o il rafforzamento dell’associazione»[69].

Come è stato osservato da recente dottrina[70], in detta statuizione la Suprema Corte sembra addirittura distinguere il giudizio di causalità a seconda del tipo di contributo esterno, se isolato ovvero di tipo continuativo e reiterato: nel primo caso sarebbe necessario un accertamento causale di tipo logico/condizionalistico e dal quale desumere la produzione di un evento di significativa portata per la consorteria criminale; nel secondo caso, invece, «può risultare non essenziale, ai fini della configurabilità del reato di concorso, l’esito favorevole delle condotte, vale dire l’effettivo “aggiustamento” di ogni procedimento o di ogni singola decisione, dal momento che è proprio nella reiterata e costante attività di ingerenza (…) che va ravvisata l’idoneità del contributo apportato dall’extraneus: non potendosi dubitare che la condotta posta in essere da quest’ultimo determina negli esponenti del sodalizio la consapevolezza di poter contare sul sicuro apporto di un soggetto, qualificato, operante in istituzioni giudiziarie e un tale effetto costituisce, di per sé solo, un indiscutibile rafforzamento della struttura associativa»[71].

Da quest’ultima frase, soprattutto, si evince chiaramente l’impostazione “soggettivistica” fatta propria da Carnevale, che vale a rendere operativo in subiecta materia lo schema previsto dalla causalità psichica c.d. da “rafforzamento dell’organizzazione criminale”: alla stregua di tale impianto, cioè, la condotta dell’extraneus potrebbe essere considerata rilevante, ai fini della configurazione del concorso esterno, pur in assenza di un effettivo e specifico contributo materiale, qualora tale condotta sia in grado di suscitare nei membri dell’associazione mafiosa la fiduciosa consapevolezza di poter contare sul sicuro apporto di un professionista qualificato.

Contro un tale metodo di accertamento della causalità, invero, possono sollevarsi almeno due obiezioni.

Da un punto di vista sostanziale, anzitutto, l’impostazione in esame rischia di entrare in contrasto con i principi cardine (in primis materialità, offensività e colpevolezza) di un moderno diritto penale del fatto.

In secondo luogo, problemi sorgono anche da un punto di vista probatorio poiché, accogliendosi una tale costruzione, rischiano di risultare determinanti ai fini del giudizio di colpevolezza dell’extraneus le dichiarazioni accusatorie rese dai collaboratori di giustizia.

Non a caso, questi ultimi rivestono spesso un ruolo decisivo proprio in riferimento ai giudizi in questione. Ed infatti, spostandosi l’ago della bilancia dalla materialità del contributo causale alla “fiduciosa consapevolezza” suscitata nei membri dell’organizzazione, è molto probabile che l’organo decidente si lasci trasportare dal contenuto delle dichiarazioni dei pentiti, finendo per “appiattire” i contenuti processuali su queste ultime, tralasciando così la ricerca di ulteriori e diversi elementi di prova.

Posto che le condotte contestate ai concorrenti “esterni” sono molto spesso contributi continuativi e/o periodici, allo scopo di illustrare quanto potrebbe essere devastante in subiecta materia interpretare il giudizio di causalità alla stregua di cui sopra, si ponga a mente la condotta del difensore nel caso b). Come si è visto, il comportamento del legale (pur se discutibile da un punto di vista deontologico e addirittura morale), di per sé considerato era privo di rilevanza penale, vista la natura pubblica del dibattimento ove aveva acquisito le informazioni poi fornite al capomafia. Orbene, la situazione potrebbe drasticamente mutare se l’organo giudicante adottasse, in sede di valutazione probatoria, un criterio ex ante di idoneità – ispirato alla causalità psichica “da rafforzamento dell’organizzazione criminale” – e valorizzasse all’uopo una o più chiamate in correità, in cui i collaboratori dichiarino genericamente che il difensore era soggetto “vicino” alla consorteria di loro appartenenza, ovvero che normalmente “prestava il proprio contributo”. Ecco che in tale contesto inizia nuovamente a delinearsi la trama associativa, e le chiamate in correità provenienti dai collaboratori rappresentano la “chiave di lettura” degli stessi comportamenti contestati al difensore, senza la quale non si perverrebbe a nessuna affermazione di penale responsabilità. Dunque, seguendo questo ragionamento, il giudice potrebbe essere indotto a ritenere che all’interno dell’organizzazione criminale vi fosse tra gli associati la generale consapevolezza di poter contare sul sicuro apporto del difensore, in quanto loro “uomo di fiducia”. Tutto ciò, si ribadisce, in assenza di qualunque contributo materialmente apprezzabile[72].

L’ultima pronunzia delle Sezioni Unite del 2005, c.d. sentenza Mannino-bis, ha nuovamente affrontato il tema della causalità nel concorso esterno. Facendo sostanziale applicazione dei principi elaborati nella celebre sentenza Franzese[73], la Corte riunita ha affermato che, ai fini della configurazione del concorso esterno, «non è affatto sufficiente che il contributo atipico – con prognosi di mera pericolosità ex ante – sia considerato idoneo ad aumentare la probabilità o il rischio di realizzazione del fatto di reato, qualora poi, con giudizio ex post, si riveli per contro ininfluente o addirittura controproducente per la verificazione dell’evento lesivo»[74]. Gli Ermellini, in sostanza, optano anche in subiecta materia per il modello causale della sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura, respingendo l’impostazione della causalità psichica. A parere della Suprema Corte, infatti, va rifiutata «un’impostazione di tipo meramente “soggettivistico”», per via del pericolo che «operando una sorta di conversione concettuale (e talora di sovvertimento dell’imputazione fattuale contestata), si autorizzi il surrettizio e indiretto impiego della causalità psichica c.d. da “rafforzamento” dell’organizzazione criminale per dissimulare in realtà l’assenza di prova dell’effettiva incidenza causale del contributo materiale per la realizzazione del reato: nel senso che la condotta atipica, se obiettivamente significativa, determinerebbe comunque nei membri dell’associazione criminosa la fiduciosa consapevolezza di poter contare sul sicuro apporto del concorrente esterno, e quindi un reale effetto vantaggioso per la struttura organizzativa della stessa»[75].

Dunque, sia in presenza di contributi isolati sia nel caso di contributi continuativi e/o reiterati, il giudice dovrà verificare l’efficienza causale della condotta dell’extraneus rispetto agli eventi alternativi di conservazione o rafforzamento della consorteria, attraverso un giudizio ex post e in concreto, che abbia peraltro alla base «massime di esperienza di empirica plausibilità». All’esito di tale valutazione, ai fini dell’affermazione di penale responsabilità, dovrà necessariamente emergere che il contributo del concorrente abbia «inciso immediatamente ed effettivamente sulle capacità operative dell’organizzazione criminale, essendone derivati concreti vantaggi o utilità per la stessa o per le sue articolazioni settoriali». Come brillantemente è stato osservato, cioè, la condotta dell’extraneus non deve tendere ad un incremento della semplice potenzialità operativa dell’organismo criminoso, ma deve in sostanza porsi quale «frammento» di una concreta utilità per la realizzazione di una delle molteplici attività espressive del programma criminoso, così da realizzare una contribuzione “percepibile” al mantenimento in vita dell’organismo criminale[76]

Va tuttavia segnalato che, nonostante il pregevole intervento “riparatore” da parte delle Sezioni Unite del 2005, la giurisprudenza successiva – pur dichiarando fedeltà ai dicta espressi dalla Corte riunita – ha progressivamente temperato i principi fatti propri da Mannino-bis, finendo molto spesso per riproporre, pur se in forma mascherata, giudizi di idoneità ex ante e finanche ispirati alla causalità psichica da rafforzamento. Limitandoci a un solo esempio, è curioso quanto si legge in un passo della recente sentenza emessa dalla Sesta Sezione Penale della Cassazione (esaminata alla fine del paragrafo precedente). I giudici di legittimità hanno infatti affermato, come si ricorderà, che «integra la condotta di "concorso esterno" l'attività del professionista che, in esecuzione di una promessa fatta ai vertici dell'associazione mafiosa, assicuri il suo concreto impegno nell'irregolare gestione di un procedimento giudiziario, posto che il sodalizio si rafforza comunque per effetto di quel contributo, non essendo necessario che i propositi delittuosi siano stati concretamente realizzati» (Cass. Pen., Sez. VI, sent. 4 giugno 2019, n. 32373).

Leggendo tale passo di sentenza, pare che i giudici si siano accontentati di una nozione “anemica” di causalità, valorizzando eccessivamente – a parere di chi scrive – l’impegno “assicurato” dal difensore al sodalizio e allargando contestualmente la nozione di evento[77].

In futuro, è auspicabile che la giurisprudenza recuperi in toto l’impostazione garantista enucleata nel 2005 dalle Sezioni Unite, anche perché – salva un’eventuale (ancorché improbabile) tipizzazione normativa del concorso esterno – essa rappresenta l’unico espediente ermeneutico in grado di distinguere le condotte di contiguità penalmente perseguibili, in quanto oggettivamente capaci di rafforzare le associazioni criminali, da quelle meramente espressive di vicinanza o compiacenza, censurabili eventualmente da un punto di vista sociale ed etico.

 

7. Qualche riflessione conclusiva alla luce di recenti casi di cronaca giudiziaria

Giunti alla conclusione di questo lavoro, può essere interessante notare come tutte le problematiche sopra segnalate (il flusso di informazioni tra difensori e soggetti non assistiti, l’invasività degli atti di indagine compiuti negli uffici professionali, la difficile individuazione del discrimen tra attività lecita e illecita del professionista, il tema della causalità nel concorso esterno e l’eccessiva centralità attribuita ai collaboratori di giustizia) si siano puntualmente ripresentate in recenti casi di cronaca giudiziaria.

Il riferimento è, soprattutto, ad una recente maxi-operazione antimafia, coordinata dalla Procura Distrettuale di un’importante sede meridionale. L’imponente lavoro investigativo – che ha colpito e disarticolato alcune cosche di ‘ndrangheta radicate in diverse province dell’area territoriale di competenza – si è concluso con centinaia di indagati complessivi (molti dei quali destinatari di ordinanze applicative di misure cautelari), ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, omicidio, estorsione, usura, fittizia intestazione di beni, riciclaggio, detenzione di armi, traffico di stupefacenti, truffe, turbativa d’asta, traffico di influenze e corruzione[78].

A causa dell’ingente numero di indagati ed arrestati, tra i quali figurano numerosi professionisti (imprenditori, politici, avvocati, sospetti esponenti della massoneria), l’inchiesta ha avuto una vasta eco mediatica ed è stata perfino accostata al notissimo maxiprocesso di Palermo istruito dai giudici Falcone e Borsellino.

Per altro verso, la vicenda ha fatto discutere anche per plurimi annullamenti delle ordinanze di custodia cautelare operata dalla Corte di Cassazione, all’esito dei vari procedimenti de libertate[79].

Tra gli arrestati, più in particolare, vi sono anche due difensori.

Uno di costoro, ritenuto dagli investigatori “figura centrale” del sistema di potere mafioso-affaristico colpito dal blitz, è stato tratto in arresto poiché, difendendo soggetti accusati di appartenere a cosche della ‘ndrangheta, avrebbe finito per concorrere nei reati da questi commessi. Nello specifico, il penalista era accusato ab origine del reato di cui all’art. 416-bis c.p., commesso in qualità di partecipe, e dei reati di rivelazione di segreti d’ufficio e di abuso in atti d’ufficio. A seguito di annullamento senza rinvio di questi ultimi capi di imputazione da parte della Cassazione, il professionista è tutt’oggi ristretto in carcere poiché accusato di concorso esterno in associazione mafiosa (questo il risultato della derubricazione operata dalla Suprema Corte). Secondo i giudici cassazionisti, «non si trattava semplicemente di onorare un mandato difensivo, ma di fornire uno specifico contributo extra ordinem […] è effettivamente ravvisabile la gravità indiziaria in ordine all’ipotesi di concorso esterno, connotato dalla capacità del ricorrente di costituire un valido punto di riferimento, ben oltre i limiti sottesi alla sua qualità di legale, tale da consentire agli esponenti della consorteria di operare in condizioni di maggiore sicurezza e avvedutezza»[80].

Nello stesso procedimento è stato coinvolto anche un secondo avvocato (da diversi mesi ristretto in carcere, proprio come il primo). Anche per quest’ultimo l’accusa di associazione di tipo mafioso è stata ridimensionata, questa volta dal competente Tribunale del Riesame, in concorso esterno. Più in dettaglio, secondo l’accusa il legale – cui vengono, per la verità, attribuiti anche altri reati specifici (quali rivelazione di segreti d’ufficio e corruzione) – si sarebbe mostrato “disponibile” a compiere azioni illecite per conto di una cosca di ‘ndrangheta, avrebbe fornito informazioni su dichiarazioni di collaboratori di giustizia coperte da segreto istruttorio ed avrebbe altresì comunicato informazioni investigative, ottenute nell’ambito della sua attività professionale, ad affiliati dell’organizzazione criminale.

I due casi sopra menzionati presentano, peraltro, numerose somiglianze con la vicenda giudiziaria (anch’essa recentissima) che ha riguardato un altro professionista legale di origini meridionali, coinvolto in una operazione investigativa eseguita contro una cellula di matrice ‘ndranghetista operante in Valle d’Aosta. Orbene, il predetto avvocato era accusato di concorso esterno in associazione mafiosa (ragion per la quale la sua custodia cautelare in carcere si è protratta per ben 18 mesi!), estorsione aggravata e traffico internazionale di stupefacenti. È da evidenziare che il materiale probatorio era in gran parte costituito dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia al quale una sentenza definitiva aveva negato le misure premiali previste dalla legge sui pentiti. Giudicato nelle forme del rito abbreviato, il professionista è stato condannato alla pena di 4 anni e 6 mesi di reclusione, previa assoluzione “per insussistenza del fatto” dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e dalle aggravanti di agevolazione mafiosa inizialmente contestate[81].

Lungi dall’entrare nel merito delle vicende in corso, è tuttavia doverosa una piccola riflessione.

L’impressionante similarità delle circostanze fattuali che hanno visto il coinvolgimento dei tre difensori – in riferimento alle accuse mosse a loro carico, alle diverse valutazioni del medesimo materiale probatorio effettuate dagli organi giudicanti chiamati a pronunziarsi, al ruolo centrale dei collaboratori di giustizia nella costruzione del materiale d’accusa, all’impiego protratto della misura della custodia cautelare in carcere – è sintomatica del progressivo consolidamento di prassi applicative e interpretative di notevole rigore nei confronti degli avvocati difensori di individui in odore di mafia ai quali si guarda talvolta come soggetti potenzialmente in grado di favorire le attività illecite dei loro assistiti e apportare vantaggi agli organismi associativi di cui fanno parte.

A ciò contribuiscono, probabilmente, l’assenza di una “afferrabile tipicità” in materia di reati associativi e gli altalenanti orientamenti della giurisprudenza della Cassazione (specie in materia di concorso esterno), che valgono a rendere quanto mai concreto il rischio di un utilizzo non sempre avveduto dell’arnese penale. Sotto questo punto di vista, la casistica giurisprudenziale rivela addirittura una sorta di “inseguimento del fatto” ad opera della fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p. (sia in riferimento alle condotte tipiche di cui ai primi due commi, sia in riferimento alle condotte ab externo ex art. 110 c.p.) la quale, sovente, si presta a fungere il ruolo di “norma-paladina” dell’interno sistema criminal-repressivo delle strutture malavitose, stante il suo elevatissimo potenziale punitivo.

Pur riconoscendo in questa sede l’assoluta importanza ed utilità che spetta al diritto penale, ma non dimenticando al tempo stesso i devastanti effetti dello stigma mafioso, dall’analisi effettuata in questo lavoro è emerso, invero, come non tutti i comportamenti moralmente riprovevoli o deontologicamente scorretti degli avvocati raggiungano poi la soglia di rilevanza penale nei diversi gradi del giudizio, perché trattasi magari di condotte espressive di mera vicinanza o compiacenza (o alle volte addirittura di semplice stile professionale discutibile).

Di fronte a questo problema, allora, emerge chiaramente la necessità, da un lato, di porre degli argini ad una applicazione indiscriminata dell’istituto del concorso esterno; dall’altro, di ricercare, magari rafforzandone efficacia e incisività, modalità sanzionatorie alternative.

Quanto al primo profilo, vanno sicuramente apprezzate quelle proposte dottrinali che da tempo sollecitano un intervento del legislatore in subiecta materia, così da «sollevare la giurisprudenza dall’onere di compiere gravose scelte selettive dall’area del penalmente rilevante non confortate da precise indicazioni normative»[82].

Tuttavia, pur ad ammettere che l’attuale legislatore sia in grado di farsi carico di una tale responsabilità – e qualche dubbio in realtà si pone, visto anche l’attuale periodo di “oscurantismo” che vive il dibattito legislativo in materia di scelte politico-criminali – non resta che auspicare, oltre che il recupero dell’impostazione garantista accolta dalle Sezioni Unite nella sentenza Mannino-bis, un maggiore interesse della dottrina sulla tematica in questione, volto soprattutto a porre al centro del dibattito intellettuale la necessità di affrontare il complesso problema della contiguità mafiosa anche attraverso l’individuazione di sistemi sanzionatori alternativi allo stigma penale, specie per quei casi in cui la responsabilità del professionista è, prima di tutto, di natura etica[83].

 

[1] Il riferimento è, soprattutto, a due recenti operazioni giudiziarie contro la ‘ndrangheta che hanno coinvolto avvocati di origine calabrese (per i dettagli delle vicende si veda infra, par. 7).

[2] Pericolo ben messo in evidenza da Visconti, C., Difesa di mafia e rischio penale, in Foro it., II, 1997, c. 611 ss.

[3] Pulitanò, D., Il favoreggiamento personale fra diritto e processo penale, Milano, 1984, 244; più diffusamente Visconti, C., Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino, Giappichelli, 2003, 87 ss.

[4] In questo senso Cass., 25 ottobre 1983, Arancio, in Giust. Pen., 1984, I, 469, riguardante il caso dell’avvocato Sergio Spazzali, condannato per concorso nel delitto di banda armata (ex artt. 110 e 306, co. 2, c.p.) per aver fatto da tramite tra i membri delle Brigate Rosse ristretti in carcere e quelli ancora in libertà.

[5] Cfr. Visconti, C., Difesa di mafia e rischio penale, cit., 611 ss.; Pulitanò, D., op. cit., 185 ss. In verità, il rapporto tra difesa tecnica e responsabilità penale del difensore è stato approfondito in ambito dottrinario, per lo più, in riferimento al delitto di favoreggiamento personale. A tal proposito, per dare piena esplicazione al diritto di difesa tutelato all’art. 24 Cost., si è richiamata l’operatività della scriminante dell’esercizio di un diritto, ex art. 51 c.p., in riferimento alle prestazioni intellettuali rese dall’avvocato e costituenti espressione del rapporto di fiducia che intercorre con il cliente.

[6] Fra tutti si vedano Sciarrone, R., «Il capitale sociale della mafia», in Quaderni di sociologia, 1998, 18, 60 ss.; Dalla Chiesa, N., La convergenza. Mafia e politica nella Seconda Repubblica, Milano, Melampo Editore, 2010, 4, il quale afferma testualmente: “La forza della mafia sta “fuori” della mafia».

[7] A tal proposito Pomanti, R., Principio di tassatività e metamorfosi della fattispecie: l’art. 416 bis c.p., in Arch. pen., 2017, 1, 1, osserva che «è […] un dato acquisito come la mafia, nel patrimonio giurisprudenziale, non debba più risultare necessariamente caratterizzata dal sangue e dal terrore». Aggiunge, inoltre, che «d’altra parte, che la mafia non sia più quel fenomeno caratterizzato dalle “coppole e lupare”, è oramai una considerazione banale». In verità, già Leopoldo Franchetti – più di un secolo fa – parlava di «borghesia mafiosa», alludendo con tale terminologia alle relazioni esistenti «tra i malfattori di mestiere e le classi agiate e ricche della popolazione», e specificava come quasi tutti i capi-mafia fossero, in realtà, «facinorosi della classe media», cioè appunto colletti bianchi (cfr. Scarpinato, R., Crimini dei colletti bianchi e attacco alla democrazia, in Dino, A., (a cura di), Criminalità dei potenti e metodo mafioso, Milano-Udine, Mimesis, 2009, 88).

[8] Sciarrone, R., Mafie vecchie, mafie nuove: radicamento ed espansione, Roma, Donzelli, 1998, 4; Centonze, A., Tinebra, G., Il concorso eventuale nell’associazione di tipo mafioso e la delimitazione delle aree di contiguità nell’esperienza giurisprudenziale, in Romano, B., Tinebra, G., (a cura di), Il diritto penale della criminalità organizzata, Milano, Giuffrè, 2013, 161 ss.

[9] Sul concetto di “zona grigia” (o “area grigia”) si esprime Sciarrone, R., La mafia, le mafie: capitale sociale, area grigia, espansione territoriale, in L'Italia e le sue regioni. L'età repubblicana. Società, volume IV, 223 ss.: «Area grigia è un’espressione suggestiva, che rappresenta una metafora efficace per descrivere lo spazio opaco in cui prendono forma relazioni di collusione e complicità con la mafia, coinvolgendo un’ampia varietà di attori, diversi per competenze, risorse, interessi e ruoli sociali. Tra i mafiosi e i soggetti che si muovono nell’area grigia è ravvisabile un processo di vicendevole riconoscimento, in base al quale si scambiano beni e servizi, si avvalgono gli uni delle risorse e delle competenze degli altri, si sostengono per conseguire specifici obiettivi, e in alcuni casi costituiscono alleanze organiche per tutelare o perseguire interessi comuni»; in senso analogo  Siracusano, F., La contiguità alla mafia tra paradigmi sociologici e rilevanza penale, in Arch. pen., 1, 2016, 115, secondo cui «l’area grigia è, quindi, il luogo ideale in cui si sviluppano i rapporti di complicità tra soggetti esterni all’organizzazione criminale e i membri dell’associazione, la zona nella quale si instaurano vincoli affaristici e legami di solidarietà tra il colluso e gli appartenenti al sodalizio, il territorio dove consolida il proprio

ruolo la “borghesia mafiosa”»; sul punto si veda anche l’interessante analisi di Mazzantini, E., Il delitto di associazione di tipo mafioso alla prova delle organizzazioni criminali della “zona grigia”. Il caso di Mafia capitale, in Arch. pen., 2019, 3, 5 ss.

[10] Pellegrini, S., L’impresa grigia. Le infiltrazioni mafiose nell’economica legale. Un’analisi sociologico-giuridica, Roma, Ediesse, 2018, 179 ss.

[11] Ibid., 191 ss., secondo cui «se nell’esercitare il mandato di difesa, egli (l’avvocato, N.d.R.) violi la legge o infranga i limiti della disciplina deontologica, allo scopo di ottenere, costi quel che costi, il risultato, ovvero compia azioni estranee allo stesso mandato defensionale, si potranno ravvisare a suo carico delle prospettive di incriminazione». E ancora, a parere dell’Autrice, un sicuro indice di responsabilità potrebbe derivare dalla circostanza per cui «il professionista è diventato puntello importante dell’organizzazione criminale». Sul punto cfr. anche Grosso, C. F., Le contiguità alla mafia tra partecipazione, concorso in associazione mafiosa ed irrilevanza penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 4, 1993, 1205.

[12] Codice Deontologico degli Avvocati Europei, articolo 1.1.

[13] Più diffusamente Galati, M., La deontologia del difensore nei processi di criminalità organizzata, in AA. VV., Il diritto penale della criminalità organizzata, cit., 505 ss.

[14] Ibid.

[15] Hazard, G. C., Dondi, A., Etiche della professione legale, Bologna, Il Mulino, 2005, 228. Del resto, il previgente art.  10 del Codice Deontologico Forense stabiliva che «nell’esercizio dell’attività professionale l’avvocato ha il dovere di conservare la propria indipendenza e difendere la propria libertà da pressioni o condizionamenti esterni». Nel codice attuale, in vigore dal 12 giugno 2018, il dovere di indipendenza è citato nell’art. 6, ai sensi del quale «l'avvocato non deve svolgere attività comunque incompatibili con i doveri di indipendenza, dignità e decoro della professione forense». Il requisito della indipendenza è espressamente previsto all’art. 2.1. del Codice Deontologico degli Avvocati Europei: «I numerosi obblighi a carico dell’avvocato rendono necessaria la sua assoluta indipendenza da qualsiasi pressione e in particolare da quelle esercitate da suoi interessi personali o da influenze esterne. Questa indipendenza è necessaria per la fiducia nella giustizia quanto l’imparzialità del giudice. L’avvocato deve pertanto impedire ogni attentato alla propria indipendenza e fare attenzione a non venir meno alle norme deontologiche per compiacere i clienti, i giudici o terzi».

[16] Ferrajoli, L., Sulla deontologia professionale degli avvocati, in Questione giustizia, 2011, 6, 95. Secondo l’Autore, l’avvocato non deve quindi agire in una logica di difesa del proprio cliente dal processo, ma esercitare nel miglior modo la difesa nel processo.

[17] Assume, a tal proposito, rilievo anche l’art. 4 del codice deontologico, ai sensi del quale: «La responsabilità disciplinare discende dalla inosservanza dei doveri e delle regole di condotta dettati dalla legge e dalla deontologia, nonché dalla coscienza e volontà delle azioni od omissioni. L’avvocato, cui sia imputabile un comportamento non colposo che abbia violato la legge penale, è sottoposto a procedimento disciplinare, salva in questa sede ogni autonoma valutazione sul fatto commesso». Quanto alla natura delle sanzioni, l’art. 22.1 del codice prevede che: «Le sanzioni disciplinari sono: a) Avvertimento: consiste nell’informare l’incolpato che la sua condotta non è stata conforme alle norme deontologiche e di legge, con invito ad astenersi dal compiere altre infrazioni; può essere deliberato quando il fatto contestato non è grave e vi è motivo di ritenere che l’incolpato non commetta altre infrazioni. b) Censura: consiste nel biasimo formale e si applica quando la gravità dell’infrazione, il grado di responsabilità, i precedenti dell’incolpato e il suo comportamento successivo al fatto inducono a ritenere che egli non incorrerà in un’altra infrazione. c) Sospensione: consiste nell’esclusione temporanea, da due mesi a cinque anni, dall’esercizio della professione o dal praticantato e si applica per infrazioni consistenti in comportamenti e in responsabilità gravi o quando non sussistono le condizioni per irrogare la sola sanzione della censura. d) Radiazione: consiste nell’esclusione definitiva dall’albo, elenco o registro e impedisce l’iscrizione a qualsiasi altro albo, elenco o registro, fatto salvo quanto previsto dalla legge; è inflitta per violazioni molto gravi che rendono incompatibile la permanenza dell’incolpato nell’albo, elenco o registro».

[18] «I rapporti di fiducia possono esistere solo se non vi sono dubbi sull’onorabilità, l’onestà e l’integrità dell’avvocato. Per un avvocato queste virtù tradizionali costituiscono obblighi professionali», così testualmente recita l’art. 2. 2..

[19] Danovi, R., Commentario del codice deontologico forense, Milano, Giuffrè, 2006, 140; sul punto si veda anche Galati, M., op. cit., 509.

[20] Galati, M., op. cit., 510, considera «discutibile» la scelta di applicare sanzioni di natura deontologica nei casi di mera frequentazione con soggetti la cui mafiosità non sia stata ancora giudizialmente accertata.

[21] Più recentemente, si vedano pure C.N.F., 30 aprile 2012, n. 79, relativa alla radiazione dall’Albo inflitta ad un avvocato poiché condannato in qualità di partecipe ad una cosca mafiosa; C.N.F., 19 dicembre 2014, n. 192, riguardante la sospensione cautelare dall’esercizio della professione di un legale indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. La rigidità del meccanismo relativo all’applicazione “automatica” delle sanzioni deontologiche è stata, tuttavia, temperata da due recenti interventi delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione. Con il primo intervento (Cass., Sez. Un. Civ., sent. n. 3182 del 1° marzo 2012), la Suprema Corte ha annullato un provvedimento di sospensione cautelare dall’esercizio della professione, emesso da un Consiglio dell’Ordine territoriale nei confronti di un professionista legale indagato per il reato di cui all’art. 416-bis c.p. e di altri a questo strumentali. Nel caso specifico, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati competente aveva disposto la sospensione in via cautelare dall’esercizio della professione forense a tempo indeterminato, senza averlo convocato né tanto meno ascoltato, in violazione delle regole stabilite dal r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 (Legge Professionale Forense), il cui art. 43, comma 3, prevede che «La sospensione dall’esercizio della professione è dichiarata dal Consiglio dell’Ordine sentito il professionista. Il Consiglio può pronunciare, sentito il professionista, la sospensione dell’avvocato sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale o contro il quale sia stato emesso ordine di comparizione o di accompagnamento». A parere delle Sezioni Unite, dunque, in ossequio al principio del contraddittorio di cui all’art. 111 Cost., anche nel procedimento disciplinare deve essere sempre garantito all’incolpato il diritto di essere convocato ed esporre le proprie difese innanzi al plenum del Consiglio dell’Ordine.  Con il secondo intervento (Cass., Sez. Un. Civ., sent. 18 febbraio 2015, n. 3184), gli Ermellini hanno affermato che la sospensione cautelare dall’esercizio della professione di un avvocato sottoposto a procedimento penale è legittima solo se il pericolo di “strepitus fori” presenta i caratteri dell’attualità e della concretezza. Per un commento alla sentenza da ultimo citata si veda Filodirito Editore, Cassazione SU:la sospensione dell’avvocato è legittima se lo strepitus fori è attuale e concreto, in Filodiritto, 18 marzo 2015.

[22] Lupinacci, S., ll segreto professionale: codice deontologico forense, sviluppi e prospettive, in Giurisprudenza Penale, 23 novembre 2014; Galati, M., op. cit., 510 ss. 

[23] Principio analogo è desumibile dall’art. 2.3. del Codice Deontologico degli Avvocati Europei, il quale testualmente recita: «È nella natura stessa della funzione dell’avvocato che egli sia depositario dei segreti del suo cliente e destinatario di comunicazioni riservate. Senza la garanzia della riservatezza, non può esservi fiducia. Il segreto professionale è dunque riconosciuto come un diritto e un dovere fondamentale e primario dell’avvocato. L’obbligo dell’avvocato di rispettare il segreto professionale è volto a tutelare sia gli interessi dell’amministrazione della giustizia che quelli del cliente. È per questo che esso gode di una speciale protezione da parte dello Stato. L’avvocato deve mantenere il segreto su tutte le informazioni riservate di cui venga a conoscenza nell’ambito della sua attività professionale. Tale obbligo di riservatezza non ha limiti di tempo. L’avvocato deve esigere il rispetto del segreto professionale dai suoi dipendenti e da chiunque collabori con lui nell’esercizio della sua attività professionale».

[24] Galati, M., op. cit., 511.

[25] Tonini, P., Manuale di procedura penale, XIX ed., Milano, Giuffrè, 2018, 305 ss.

[26] Ibid.; si dimostra critico Galati, M., op cit., 512 ss., il quale sostiene che l’ordine di deporre impartito dal giudice ex art. 200, co. 2, c.p.p. andrebbe considerato quale “giusta causa” allorché il magistrato abbia concretamente accertato l’infondatezza del segreto opposto dal difensore. In caso contrario, verrebbe irrimediabilmente pregiudicata la funzione difensiva.

[27] Così anche Lupinacci, S., op. cit., la quale auspica un sensibile mutamento nell’atteggiamento della giurisprudenza della Cassazione in ordine al dovere di astensione del difensore.

[28] Galati, M., op. cit., 516.

[29] L’illuminante analisi è di Visconti, C., Difesa di mafia e rischio penale, cit., c. 615.

[30] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 27 giugno 2006, n. 32009.

[31] «Non integra il delitto di favoreggiamento personale la condotta del difensore che, avendo ritualmente preso visione di atti processuali dai quali emergano gravi indizi di colpevolezza a carico del proprio assistito, lo informi della possibilità che nei suoi confronti possa essere applicata una misura cautelare (nella specie effettivamente disposta e non eseguita per la latitanza dell’indagato), atteso che la legittima acquisizione di notizie che possono interessare la posizione processuale dell’assistito ne rende legittima la rivelazione a quest’ultimo in virtù del rapporto di fiducia che intercorre tra professionista e cliente e che attiene al fisiologico esercizio del diritto di difesa […]», così Cass. Pen., Sez. VI, 29 marzo 2000, n. 7913, in Riv. pen., 2000, 893.

[32] Visconti, C., Difesa di mafia e rischio penale, cit., c. 616; Pulitanò D., op. cit., 197; Galati, M., op. cit., 516 ss.; Insolera, G., Zilletti L., Il rischio penale del difensore, Milano, Giuffrè, 2009, 108. Si esprime così anche Cass. Pen., 2 dicembre 2014, n. 52118.

[33] In questi termini Cass. Pen., Sez. VI, 29 marzo 2000, cit.

[34] Galati, M., op. cit., 515; Visconti, C., Difesa di mafia e rischio penale, cit., c. 614 ss.

[35] Il caso è tratto da Trib. Palermo, sent. 18 novembre 1996. I giudici di merito, nel caso di specie, non hanno attribuito rilievo penale alla condotta de qua poiché la notizia trasmessa dal difensore all’esponente di vertice della consorteria era stata acquisita nel corso di una rogatoria internazionale pubblica, sicché, a parere del decidente, non può ritenersi che l’avvocato «abbia violato il segreto istruttorio od anche specifiche regole deontologiche, essendosi limitato ad informare un imputato, seppur dallo stesso non assistito, circa gli elementi emersi a suo carico in altra sede dibattimentale pubblica».

[36] Sul punto, osserva giustamente Visconti, C., Contiguità alla mafia e rischio penale, cit., c. 615, che il vero problema è costituito dalla «capacità attrattiva verso l’area del penalmente rilevante che la figura del concorso esterno potrebbe esercitare per una serie di condotte realizzate dal professionista, le quali, ponendosi ai margini di un preciso mandato difensivo nei confronti di un singolo associato, rischiano di trasformarsi in contributi consapevolmente funzionali al mantenimento dell’organizzazione nel suo complesso».

[37] Cfr. Tonini, P., Manuale di procedura penale, cit., 153.

[38] Giglio, V., (a cura di), Codice di procedura penale annotato con la giurisprudenza, commento sub art. 103, Filodiritto Editore, consultabile in https://www.filodiritto.com/codici/codice-di-procedura-penale.

[39] Cass. Pen., Sez. II, 2 dicembre 1998, Benini, in CED 201270.

[40] Ai sensi dell’art. 271, co. 2, c.p.p., «non possono essere utilizzate le intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni delle persone indicate nell'articolo 200 comma 1, quando hanno a oggetto fatti conosciuti per ragione del loro ministero, ufficio o professione, salvo che le stesse persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati».

[41] Cfr. Siracusano, F., Intercettazione di colloqui fra difensore e assistito. Soluzioni “poco convincenti” che pongono in pericolo lo “spazio protetto” per l’esercizio dell’attività difensiva, in Arch. pen., 3, 2012, 4, il quale parla di «tutela ad personam e ad acta, ma non nel senso di privilegio corporativo».

[42] Così Cordero, F., Procedura penale, Milano, Giuffrè, 2012, 299.

[43] Cass. Pen., Sez. II, 16 maggio 2012, n. 32909.

[44] Cass. Pen., Sez. II, 18 giugno 2014 (ud. 29 maggio 2014), n. 26323, in Giurisprudenza Penale, 1° luglio 2014.

[45] Sul punto Siracusano, F., Intercettazione di colloqui fra difensore e assistito. Soluzioni “poco convincenti” che pongono in pericolo lo “spazio protetto” per l’esercizio dell’attività difensiva, cit., 2 ss.

[46] Secondo Sau, S., In tema di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni: alcune riflessioni a margine di una recente inchiesta giudiziaria, in Processo penale e giustizia, 2016, 189, sarebbe invece necessario disporre l’immediato distacco dall’utenza qualora emerga che l’intercettazione in corso è vietata ex art. 103 c.p.p. Sotto questo punto di vista, può essere utile analizzare brevemente il contenuto delle circolari di alcune procure in merito alla intercettazione di colloqui tra difensore e assistito. La circolare della Procura di Roma, per esempio, distingue tra intercettazioni dirette ed intercettazioni indirette. Quanto alle prime (che coinvolgono il difensore in quanto indagato o offeso), si precisa che esse saranno utilizzabili eccezion fatta per le conversazioni attinenti alla funzione difensiva (con soggetti estranei alle indagini ed inerenti alla attività professionale). In caso di dubbio, la Polizia giudiziaria dovrà rivolgersi al Pubblico ministero. Con riferimento alle intercettazioni indirette (attivate cioè sull’utenza dell’indagato che colloquia con il difensore), le conversazioni non potranno essere riportate nei brogliacci, in cui comparirà soltanto la dicitura “conversazione con il difensore non utilizzabile” (cfr. circolare della Procura di Roma, in Quest. Giust., 19 aprile 2016). Si esprime in maniera analoga anche la circolare della Procura di Bologna, ove a pagina 5 si legge che «è il Pubblico ministero a doversi esprimere definitivamente sull’utilizzabilità delle conversazioni e, quindi, sulla trascrivibilità delle stesse. Ciò a fortiori nei casi dubbi prospettati dalla Polizia giudiziaria» (cfr. circolare della Procura di Bologna, 23 agosto 2016). Più diffusamente si veda Conti, C., La riservatezza delle intercettazioni nella “delega Orlando”. Una tutela paternalistica della privacy che può andare a discapito del diritto alla prova, in Rivista trimestrale Diritto Penale Contemporaneo, 2017, 3, 94 ss.; D’Angelo, N., La nuova disciplina delle intercettazioni dopo il d. lgs. 216/2017. Procedure e strategie difensive, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Editore, 2017, 14 ss.

[47] Si muovono nello stesso solco tracciato dalla giurisprudenza precedente Cass. Pen., Sez. VI, sent. 10 gennaio 2018, n. 4146; Cass. Pen., Sez. V, sent. 26 giugno 2019, n. 45166.

[48] Visconti, C., Difesa di mafia e rischio penale, cit., c. 617.

[49] Ibid., 618.

[50] Il tema non è certamente nuovo nella prassi giurisprudenziale, atteso che in materia di associazionismo politico-terroristico la Cassazione aveva già avuto modo di confrontarsi con fattispecie simili. Il riferimento è, soprattutto, alla vicenda processuale che aveva visto coinvolto l’avvocato Sergio Spazzali il quale, rinviato a giudizio in un primo momento ai sensi dell’art. 306, co. 1, c.p. (in qualità di «organizzatore» di una banda armata) e assolto in primo grado per non aver commesso il fatto, veniva poi condannato negli altri gradi di giudizio – all’esito di un lungo e tortuoso iter giudiziario – a titolo di concorso nel delitto di banda armata (di cui agli artt. 110 e 306, co. 2, c.p.), per aver fatto da tramite tra i brigatisti ristretti in carcere e quelli in libertà, veicolando informazioni e messaggi. In un passo della pronuncia, gli Ermellini affermano testualmente che «qualora la condotta del difensore travalichi i doveri defensionali nell’interesse del cliente e concreti attività a favore di gruppi clandestini, ai quali il cliente appartenga, tale condotta costituisce complicità nel reato, non avendo alcuna connessione con lo specifico impegno professionale» (così Cass., 25 ottobre 1984, Arancio, cit.). Altra vicenda analoga veniva affrontata da Cass., 10 maggio 1993, Algranati, riguardante la punibilità a titolo di partecipazione a banda armata dell’avvocato G.L., riconosciuta poi colpevole di “militanza” nelle Brigate Rosse. Per commenti critici alle due pronunce, e più in generale sul tema della partecipazione e del concorso eventuale nei delitti associativi di tipo politico, si vedano Visconti, C., Contiguità alla mafia e responsabilità penale, cit., 87 ss.; Visconti, C., Difesa di mafia e rischio penale, cit., c. 619 ss. È interessante osservare, peraltro, che i principi e i criteri valutativi utilizzati dalla giurisprudenza sopra menzionata sono stati poi ripresi e sviluppati in materia di criminalità organizzata mafiosa. In questo senso vanno lette alcune prime sentenze – relative alla configurabilità del concorso esterno ovvero della condotta di partecipazione ex art. 416-bis, co. 1, c.p. nei riguardi di taluni professionisti legali accusati di “vicinanza” a Cosa Nostra –, nelle quali la Cassazione dimostra una più accresciuta maturità in ordine al percorso logico-argomentativo da seguire per addivenire al giudizio di colpevolezza dei difensori. Superando dunque il “criterio formalistico” rappresentato dalla mera attività del legale ultra mandatum ovvero extra ordinem, i giudici di legittimità iniziano ad attenzionare con maggior rigore la rilevanza causale del contributo del professionista. Così è ad esempio avvenuto in una pronunzia di annullamento con rinvio di una sentenza di condanna per partecipazione ad associazione mafiosa, emessa dai giudici di merito a carico di un difensore milanese (Cass., 16 ottobre 1990, Andraous, in Foro it., Rep. 1991, voce Ordine pubblico, n. 30). I giudici di merito, in particolare, avevano desunto la responsabilità penale dell’avvocato sulla base delle seguenti condotte agevolative: l’essersi attivato presso il capo di una famiglia mafiosa (suo assistito) affinché questi consentisse ad un suo affiliato (altro suo assistito) di rendere dichiarazioni confessorie che avrebbero potuto giovare processualmente a quest’ultimo; aver visitato in carcere alcuni detenuti su mandato di un esponente di spicco dell’organizzazione; aver consegnato ad un cliente affiliato alla famiglia mafiosa una somma rilevante di denaro; aver informato un affiliato circa l’avvenuto ferimento del capo di una famiglia mafiosa e le modalità dell’agguato. A fronte della sentenza di condanna emessa dai giudici di appello, la Cassazione – annullando con rinvio – ha affermato che, nel caso di specie, i vari comportamenti contestati, seppur ai margini di un corretto esercizio della professione, non offrono «un’inequivoca indicazione della prestazione di un contributo fattivo all’organizzazione, bensì l’interessamento attivo […] per i singoli, assistiti come clienti […] che i favori resi a costoro abbiano potuto risolversi in un indiretto vantaggio dell’ associazione non risolve chiaramente il problema della dimostrazione di un contributo consapevole e diretto a quest’ultima per il conseguimento dei suoi scopi, non rilevando l’utilità riflessa, la quale può ben derivare pur’anche dall’esercizio ineccepibile di un’opera defensionale svolta a beneficio di più appartenenti a un’associazione, in specie se si tratti di persone che abbiano un ruolo direttivo e organizzativo». Si muove nella stessa direzione anche Cass., 6 giugno 1994, Bargi, Foro it., Rep. 1995, voce Concorso di persone nel reato, n. 36. 

[51] Si vedano specialmente Visconti, C., Difesa di mafia e rischio penale, cit.; Gualdi, G., Il concorso eventuale nel reato di associazione per delinquere con particolare riferimento alla figura del difensore, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1989, 300; Valiante, M., L’avvocato dei mafiosi (ovvero il concorso eventuale di persone nell’associazione mafiosa), in Riv. it. dir. e proc. pen, 1995, 821.

[52] Va sul punto segnalato che parte minoritaria della dottrina penalistica ha, soprattutto in origine, teso ad escludere in punto di diritto la stessa ammissibilità di un concorso eventuale nel reato associativo (così, ad esempio, Insolera, G., Guerini T., Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, Giappichelli, 2019, 119 ss.; Siracusano, F., Il concorso esterno e le fattispecie associative, in Cass. pen., 1994, 1872). In giurisprudenza optano per la c.d. “tesi negazionista” Cass. Pen., 18 maggio 1994, Clementi, in Foro It., 1994, II, 567 ss.; Cass. Pen., 18 marzo 1994, Mattina, in Cass. Pen., 1994, 2685 ss. In verità, è opportuno precisare che il problema più discusso non atteneva tanto all’astratta ammissibilità di un concorso eventuale in un reato associativo, quanto piuttosto alla “compatibilità in concreto” dell’innesto dell’art. 110 c.p. sulle singole fattispecie incriminatrici di volta in volta considerate. D’altronde, lo stesso orientamento negazionista non arrivava ad affermare tout court la liceità penale delle condotte generalmente riconducibili alla figura del concorso esterno, ma riteneva sostanzialmente che queste ultime fossero già qualificabili come vere e proprie condotte di partecipazione all’associazione. Più diffusamente si veda Giglio, V., (a cura di), Codice penale annotato con la giurisprudenza, commento sub art. 416-bis c.p., Filodiritto Editore.

[53] Come noto, in tale pronuncia (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sent. 14 aprile 2015, ricorso n. 66655/13, Contrada c. Italia) la Corte di Strasburgo, accogliendo il ricorso proposto dall’ex vicedirettore del SISDE, ha sanzionato l’Italia per violazione dell’art. 7 della CEDU. Secondo i giudici europei, Bruno Contrada non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all’epoca dei fatti (1979-1988), il reato non «era sufficientemente chiaro e il ricorrente non poteva conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti». Il punto più interessante della sentenza è laddove i magistrati affermano che «il reato di concorso esterno in associazione mafiosa è stato il risultato di un’evoluzione della giurisprudenza iniziata verso la fine degli anni ’80 e consolidatasi nel 1994 (con la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite Demitry, N.d.R.) e che quindi la legge non era sufficientemente chiara e prevedibile per Bruno Contrada nel momento in cui avrebbe commesso i fatti contestatigli». Quanto all’asserita origine giurisprudenziale della figura in questione, va tuttavia specificato che, in primo luogo, la stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 48 del 2015 ha escluso tale evenienza, sostenendo che il reato scaturisce «dalla combinazione tra la norma incriminatrice di cui all’art. 416-bis e la disposizione generale in tema di concorso eventuale nel reato di cui all’art. 110»; in secondo luogo, più volte la Corte di Cassazione ha affermato che nel nostro ordinamento, governato dal principio di legalità formale e di tassatività, non può trovare ingresso una fattispecie penale di creazione giurisprudenziale, tale comunque non potendo definirsi il concorso esterno in associazione mafiosa, che è frutto della combinazione della norma speciale incriminatrice e della clausola più generale di cui all'art. 110 c.p. (cfr. Cass. Pen., Sez. I, 12 gennaio 2018, n. 8661); infine, va poi rilevato come lo stesso legislatore abbia fornito conferme testuali della configurabilità del concorso eventuale nei reati associativi: ed infatti, sia l’art. 307 c.p. (assistenza ai partecipi di cospirazione o di banda armata) che l’art. 418 c.p. (assistenza agli associati ex artt. 416 e 416-bis) esordiscono con una iniziale clausola di riserva («fuori dei casi di concorso nel reato») che esclude la mera natura giurisprudenziale di tale peculiare figura di reato. In ordine a quest’ultimo profilo, si esprime così la Corte di Cassazione: «Il c. d. “concorso esterno” in associazioni di tipo mafioso non è un istituto di (non consentita, perché in violazione del principio di legalità) creazione giurisprudenziale, ma è incriminato in forza della generale (perché astrattamente riferibile a tutte le norme penali incriminatrici) funzione incriminatrice dell’art. 110, che estende l’ambito delle fattispecie penalmente rilevanti, ricomprendendovi quelle nelle quali un soggetto non abbia posto in essere la condotta tipica, ma abbia fornito un contributo atipico, causalmente rilevante e consapevole, alla condotta tipica posta in essere da uno o più concorrenti, secondo una tecnica normativa ricorrente; la sua matrice legislativa trova una conferma testuale nella disposizione di cui all’art. 418, comma 1» (così Cass. Pen., Sez. II, sent.  22447/2016). Sulla vicenda Contrada e sui possibili effetti della pronuncia della Corte EDU sull’ordinamento penale italiano si rinvia a Donini, M., Il concorso esterno "alla vita dell’associazione" e il principio di tipicità penale, in Diritto Penale Contemporaneo, 13 gennaio 2017; Viganò, F., Strasburgo ha deciso, la causa è finita: la Cassazione chiude il caso Contrada, id.,  2017, 9; Manna, A., La sentenza Contrada e i suoi effetti sull'ordinamento italiano: doppio vulnus alla legalità penale?, id., 4 ottobre 2016.

[54] Secondo una originale ricostruzione dottrinaria, la Corte riunita, optando per la costruzione del concorso esterno in termini di concorso nell’associazione, piuttosto che nelle singole condotte previste dai commi 1 e 2 dell’art. 416-bis c.p., lungi dal compiere una comune operazione d’innesto dell’art. 110 c.p. su una fattispecie esistente, ha, invero, creato un nuovo reato monosoggettivo di evento. Così Maiello, V., Il concorso esterno tra indeterminatezza legislativa e tipizzazione giurisprudenziale. Raccolta di scritti, Torino, Giappichelli, 2014, 24; Giugni, I., Il problema della causalità nel concorso esterno, 2017, 10, 21 ss.

[55] Cfr. Giglio, V., (a cura di), op. cit.

[56] Spagnolo, G., L’associazione di tipo mafioso, Padova, Cedam, 1993, 85 ss.; Turone, G., Il delitto di associazione mafiosa, Milano, Giuffrè, 2008, 355.

[57]Ibidem; Visconti, C., Contiguità alla mafia e responsabilità penale, cit., 129 ss.

[58] TURONE G., op. cit., 355.

[59] Così ad esempio Cass. Pen., Sez. V, 15727/2012, in cui si è precisato che il rafforzamento del sodalizio può non essere l’unico o il primario obiettivo perseguito dall’agente, potendo concorrere con uno scopo individuale, ma deve essere previsto, accettato e perseguito come risultato quantomeno «altamente probabile» della sua condotta.

[60] Sul punto Fiandaca, G., Questioni ancora aperte in tema di concorso esterno, in Foro it., 2012, 10, 2, c. 568, afferma che il concorrente eventuale può agire «per lo più con la (sola) volontà di realizzare un interesse proprio, avendo peraltro consapevolezza (non volontà in senso stretto) che il contributo fornito avvantaggia nel contempo l’associazione criminale».

[61] Cfr. Cass. Pen., Sez. II, 25 marzo 2014 (ud. 29 aprile 2014), n. 17804/2014, reperibile in Giurisprudenza Penale ,https://www.giurisprudenzapenale.com/2014/05/06/sul-concorso-esterno-da-parte-dellavvocato-consigliori-della-associazione-mafiosa/.

[62] Ibid. Può essere interessante osservare – ricollegandoci con ciò a quanto detto sopra in ordine alla compatibilità di un interesse di natura personale concorrente con la volontà di contribuire alla (anche parziale) attuazione del programma criminoso dell’associazione – che l’avvocato M.G., imputato in quel giudizio, venne condannato in via definitiva per concorso esterno per aver apportato un «contributo eziologicamente determinante al rafforzamento del sodalizio di riferimento, perseguendo nel contempo il proprio interesse professionale», dal momento che aveva addirittura ammesso, in un colloquio con un suo conoscente captato dagli investigatori, «come il suo interesse professionale non fosse limitato all’operazione […] da cui avrebbe ricavato un’elevata parcella, ma si proiettasse già verso futuri e più ampi scenari, confidando che la positiva conclusione di quella vicenda gli avrebbe consentito di porre a disposizione della cosa la propria attività, in modo da garantirsi lauti guadagni per gli anni a venire».

[63] Cass. Pen., Sez. VI, 11 luglio 2018, cit.

[64] Ibid.

[65] Il caso è tratto da Trib. Palermo, sent. 18 novembre 1996, cit. 

[66] De Francesco, G. A., Commento agli artt. 11 bis e 11 ter d. l. 8 giugno 1992 n. 306, convertito in l. 7 agosto 1992, in Legisl. pen., 1993, 131; Visconti, C., Il concorso esterno nell’associazione mafiosa: profili dogmatici ed esigenze di politica-criminale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1994, 1327 ss. 

[67] Cass. Pen., Sez. Un., 5 ottobre 1994, Demitry, in Foro It., 1995, II, p. 422 ss.

[68] Cfr. Giugni, I., Il problema della causalità nel concorso esterno, cit., 23 ss.

[69] Cass. Pen., Sez. Un., 30 ottobre 2002 (dep. 21 maggio 2003), Carnevale, CED-224181, in Riv. it. proc. pen., 2004, 322 ss. Sul punto si vedano le condivisibili note critiche di Visconti C., Contiguità alla mafia e responsabilità penale, cit.,240, secondo cui «far leva sulla categoria dell’idoneità significa evocare, più che una causalità in concreto accertata ex post, un’attitudine ex ante di tipo generale e quindi, in altri termini, una causabilità più che causalità in senso proprio».

[70] Giugni, I., op. cit., 27; Maiello V., Il concorso esterno tra indeterminatezza legislativa e tipizzazione giurisprudenziale, cit., 138.

[71] Cass. Pen., Sez. Un., 30 ottobre 2002 (dep. 21 maggio 2003), Carnevale, cit.

[72] Come noto, l’apporto conoscitivo derivante da tali peculiari fonti dichiarative è in grado di incidere, spesso in maniera decisiva, sulla stessa configurabilità del reato. Ciò perché, essendo le consorterie mafiose “strutture-chiuse”, i collaboratori di giustizia rappresentano sovente l’unico “antidoto” capace di superare il tradizionale impasse derivante dall’omertà e, più in generale, dalla segretezza dei sodalizi. Per una più completa disamina del rapporto tra fatto tipico e accertamento probatorio in tema di art. 416-bis c.p., specie in riferimento al ruolo rivestito dai collaboratori di giustizia e alla necessità dei riscontri individualizzanti, si vedano Maggio, P., Prova e valutazione giudiziale dei comportamenti mafiosi: i risvolti processuali, in Fiandaca, G., Visconti, C., (a cura di), Scenari di mafia. Orizzonte criminologico e innovazioni normative, Torino, Giappichelli, 2010, 491 ss.; Visconti, C., Difesa di mafia e rischio penale, cit., c. 625, il quale osserva che «spesso assumono un ruolo decisivo le rivelazioni dei collaboratori di giustizia, le quali possono pure risentire di un tipo di rappresentazione dei fatti sostanzialmente autoreferenziale: una rappresentazione, cioè, influenzata dai codici sub culturali con i quali negli ambienti criminali viene descritta la realtà circostante e dunque anche il rapporto tra la propria organizzazione mafiosa e gli “estranei”».

[73] Cass. Pen., Sez. Un., 12 luglio 2002, Franzese, in Foro it., 2002, II, 601, scritta peraltro dallo stesso giudice estensore della sentenza Mannino-bis, il consigliere Canzio.

[74] Cass. Pen., Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino.

[75] Ibid.

[76] La frase è di Giglio, V., (a cura di), Codice penale annotato con la giurisprudenza, commento sub art. 416-bis, cit.

[77] In verità, parte della dottrina sta da tempo denunciando il rischio della progressiva erosione dei principi in tema di causalità espressi da Mannino-bis. Sotto questo aspetto, una delle pronunce più criticate è Cass., Sez. V, 1° giugno 2007, n. 21648, Tursi Prato, in Resp. civ. prev., 2007, p. 2194 ss., ove si era affermato, in riferimento alla configurabilità del concorso esterno di un uomo politico, che «basta il mero scambio delle promesse tra esponente mafioso e politico per integrare il sinallagma significativo del concorso esterno e non sono necessarie verifiche in concreto in ordine al rispetto da parte del politico degli impegni assunti ove vi sia prova certa, come nella specie, della conclusione dell’accordo, perché è lo stesso accordo che di per sé avvicina l’associazione mafiosa alla politica facendola in qualche misura arbitro anche delle sue vicende elettorali e rendendola altresì consapevole della possibilità di influenzare perfino l’esercizio della sovranità popolare, e cioè del suo potere». Più diffusamente si veda Maiello V., op. cit., 143 ss.

[78] Maggiori dettagli dell’operazione sono consultabili online: https://www.ilriformista.it/ndrangheta-maxi-blitz-dei-carabinieri-oltre-300-arresti-tra-boss-politici-e-imprenditori-25149/?refresh_ce.

[79] Per alcune note critiche, relative alla gestione “massmediatica” dell’indagine e all’eccessivo utilizzo della custodia cautelare in carcere, può leggersi il seguente articolo sul web: https://www.ilriformista.it/gratteri-arresta-meta-calabria-giustizia-no-e-solo-show-25657/.

[80] https://www.stampalibera.it//. Sulla delicatissima vicenda si è anche recentemente pronunciato, con una forte presa di posizione, il Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane. L’intervento integrale può essere consultato online al seguente indirizzo: https://www.ilriformista.it/.

[81] Sul punto si veda l’interessante riflessione di Musco S., «Trattato come un boss solo perché è calabrese», in Il Dubbio, 10 luglio 2020, https://www.ildubbio.news/2020/07/10/trattato-come-un-boss-solo-perche-e-calabrese.

[82] Visconti, C., Difesa di mafia e rischio penale, cit., c. 630. Osserva, tuttavia, l’Autore che, pur lodevole, un eventuale intervento tipizzante non eliminerebbe tutti i problemi giacché, anche sotto l’imperio di una normativa chiara che faccia uso di parametri applicabili alle diverse tipologie di contiguità, rimarrebbe eccessiva la sproporzione di scala (e dunque identiche rimarrebbero le problematiche in tema di nesso eziologico) tra il singolo contributo dell’extraneus e l’evento di rafforzamento ovvero di conservazione dell’intera associazione. Per le proposte di intervento normativo si rinvia a Fiandaca, G., La legislazione antimafia. Analisi e proposte, in Quaderni Alfonsiani, 1997, 1/2, 85; ID., Il concorso “esterno” tra sociologia e diritto penale, in Foro it., 2010.

[83] Sotto questo profilo, può essere interessante rilevare come in seno alle scienze sociali stiano maturando studi volti al riconoscimento di una sorta di “responsabilità sociale delle professioni”, finalizzata a tutelare la dignità e il decoro dei singoli ordini professionali nel caso di condanna di un loro iscritto per reati inerenti al crimine organizzato. In questa direzione, ad esempio, si è mosso già dal 2011 il Comitato Unitario delle Professioni Intellettuali della Provincia di Modena (C.U.P.) il quale ha presentato la propria “Carta Etica contro mafia e corruzione”. Quest’ultima prevede che i Consigli degli ordini o dei collegi, applicando i rispettivi codici deontologici, svolgano una continua e incessante attività di monitoraggio circa la condotta dei professionisti iscritti, anche attraverso l’inflizione di sanzioni disciplinari. Il principio sanzionatorio è ben disciplinato all’art. 10 della Carta Etica che prevede la radiazione dall’Albo nel caso in cui il Professionista venga condannato, con sentenza passata in giudicato, per il reato di cui all’art. 416-bis c.p. o che suoi beni vengano confiscati, con provvedimento definitivo, per le medesime ragioni. È prevista altresì la sospensione cautelare dalla professione nel caso in cui il professionista subisca una condanna non definitiva per i reati di mafia. Più diffusamente sull’argomento si veda PELLEGRINI, S., L’impresa grigia, cit., 197 ss.

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