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La politica tra DPCM e PPPP

Il presidio di garanzia della Costituzione (a scanso di equivoci)
libertà costituzionali
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Il fine giustifica i mezzi?

Così suol dire.

Da diverse settimane si sente discutere delle presunte analogie tra il richiamo salviniano ai pieni poteri e l’aratura normativa contiana degli ultimi mesi.

Strategie politiche che parrebbero far intuire, a diversità di strumenti, medesimo fine: l’accentramento di poteri.

C’è una differenza quasi oceanica, soprattutto in termini di politica-giuridica, tra i c.d. “D.P.C.M.” (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministeri) ed i c.d. “P.P.P.P.” (acronimo dei ribattezzati Pubblici Proclami per Pieni Poteri).

I primi hanno una collocazione ferma nell’ordinamento giuridico italiano (ad esempio l’articolo 2 legge n. 13/1991), i secondi con tutta evidenza e conoscenza no.

Dato che i PPPP hanno, fondamentalmente, una matrice storico politica, ci si limita a ricordare, solo per migliore esemplificazione, che a differenza di quanto accadde in occasione della legge “Pieni Poteri” approvata dal parlamento tedesco nell’anno 1933 (di cui una sorta di reviviscenza, pur non proprio simile, si sta registrando nello Stato ungherese), in Italia il tutto è rimasto lettera morta nell’agosto del 2019 non foss’altro perché la Repubblica italiana è dotata di una Costituzione che, soprattutto grazie alla lungimiranza dei nostri padri costituenti, prevede pesi e contrappesi tali per cui difficilmente il singolo individuo può assumere l’intera regia di Stato.

Farebbe al caso esclamare “God save the Queen”?

Meglio rimanere un po’ più autentici in questo drammatico periodo, segnato dalla diffusione del coronavirus, al massimo dicendo che “Dio ci salvi e basta” o che “la Scienza ci salvi e basta”.

Potremmo spingerci ancor più avanti, in una forma più contemperata e con toni certamente meno esagitati, nel dire che “il Dio di chiunque, la Politica di chiunque e la Scienza di chiunque possano salvare l’Umanità” (magari potrebbe fare al caso il concetto dell’henomènon di Pomponio).

A quanto sopra va unita imprescindibilmente la riflessione che, specie nell’ultimo periodo (da gennaio 2020 in poi), continua ad intensificarsi tra gli italiani fino a far pensare all’idea del presunto ritorno di un mostro del passato apparentemente o velatamente nascosto (secondo qualcuno) tra gli atti messi in piedi dal Governo Conte: ci si riferisce, per esser più chiari, all’ipotesi di una eventuale dittatura tecnocratica o meno.

C’è qualcuno che è davvero lì lì per dare una spallata alla democrazia a suon di DPCM?

Questo non si può sapere e, certamente, non è questa la sede per esprimersi senza dati certi o quantomeno elementi gravi, precisi e concordanti (giusto per fissare un richiamo giuridico); ciò anche perché le dittature non avvisano. Esse si insinuano nel sistema, da antisistema, per poi diventare il sistema stesso (mi si perdonerà per la ripetizione).

Ma stiamo all’analisi dell’evoluzione politica quale parte complementare essenziale del discorso, appena iniziato, al fine di comprendere al meglio ove risieda la radice giuridica di quanto sta avvenendo ai giorni nostri.

Ora, proprio a scanso di equivoci, tenuto conto dell’ultimo caso di PPPP (registrato nel vituperato periodo di stallo politico dell’agosto 2019 ovvero momento nel quale il primo Governo Conte, nato dall’accordo tra Lega e M5S, è entrato in crisi tanto da bloccare l’attuazione del c.d. “Contratto di Governo”) occorre valutare se, per certi versi, i c.d. DPCM del secondo esecutivo contiano siano non altro che un superamento dei PPPP in chiave moderna oppure se, più semplicemente, si tratti di atti istituzionalmente e temporalmente funzionali, nell’ottica delle prerogative del Presidente del Consiglio (di cui allarticolo 95 della Costituzione), volti a mantenere l’unità di indirizzo politico ed amministrativo del paese con l’intuibile obiettivo di armonizzare il da farsi a più livelli (dal ministeriale al decentrato e fino al locale).  

Quale sarebbe, quindi, la genetica giuridica che hanno quest’ultimi?

Non siamo dinanzi ad atti legislativi (anche perché, oltre al disposto costituzionale, c’è l’articolo 1 legge 13/1991 il quale prevede l’intervento del Presidente della Repubblica ove mai si trattasse di genetica normativa di tal fatta).

La Costituzione italiana fa chiarezza: gli articoli 76 e 77 ammettono che il Governo possa legiferare solo se delegato dal Parlamento (nella prima ipotesi) oppure autonomamente se vi ricorrano condizioni di urgenza e necessità (nella seconda ipotesi).

Il caso dei DPCM, quindi, fuoriesce dal dettato costituzionale benché, come intuibile, non possa discostarsi dalle ragioni di legalità, legittimità e trasparenza amministrativa quali essenze vitali tipiche di un sistema che si fonda su un ordinamento democratico; principi che, ad esempio, incarnano lo spirito (perdonando l’ossimoro) dell’articolo 97 Costituzione.

Ad ogni modo, colgasi una particolarità dei DPCM in questione: non riportano alcuna firma del Presidente della Repubblica.

Il motivo è semplice, non banale, oggettivamente legato in maniera specifica al dettato della Carta fondamentale italiana che, ulteriormente, fa luce con l’articolo 87, comma 5; quest’ultimo attribuisce al nostro Presidente della Repubblica il potere di promulgare le leggi, emanare decreti aventi valore di legge nonché i regolamenti.

Ed allora qual è il riflesso di politica-giuridica dei tanto discussi DPCM?

Sono potenzialmente idonei a squilibrare il rapporto tra poteri, esecutivo e legislativo in particolare, mediante un presunto disegno politico “nascosto” rispetto a quello giuridico?

Qualcuno, stando a quanto si legge ultimatamente, lo affermerebbe poiché attinto dal presumere che siano atti presidenziali tesi ad accentrare nelle mani dell’Uomo di comando il tutto.

Andiamo per gradi.

La legge n. 400/1988, menzionata nell’incipit di ogni DPCM pubblicato su Gazzetta Ufficiale, prevede all’articolo 5, comma 1. lett. g) ed f) che spetti al Presidente del Consiglio dei Ministri esercitare le attribuzioni conferitegli dalla legge in materia di servizi di sicurezza potendo, al contempo, disporre con proprio decreto l'istituzione di particolari Comitati di ministri ed eventualmente anche di esperti non appartenenti alla pubblica amministrazione. In costanza dell’emergenza coronavirus si considerino, a titolo di esempio, i famosi gruppi di task force.

Ma si aggiunga di considerare anche l’ultimo comma dell’articolo 5 il quale, espressamente, stabilisce che spetta al predetto Presidente del Consiglio dei Ministri esercitare le altre attribuzioni conferitegli dalla legge (a prescindere dalla materia e dal tipo di strumento normativo e cioè Decreto Legge, Decreto Legislativo o Legge ordinaria).

Di tutta evidenza, quindi, risulta che i DPCM non solo siano stati emanati in forza di una legge deliberata dal Parlamento italiano (ci si riferisce alla n. 400/88), ma anche in virtù di appositi recentissimi D.L. (che, come detto, sono norme a tutti gli effetti).

Condivisibili potrebbero essere alcune preoccupazioni sollevate da autorevoli giuristi (in particolare, come ad esempio Cassese e Marini, illustri costituzionalisti) in relazione alla portata giuridica dei DPCM; preoccupazioni che, come opportunamente si precisa, vanno contestualizzate rispetto all’oggetto centrale della questione.

Nella fattispecie era necessario, all’inizio, differenziare la portata politico-giuridica tra DPCM e PPPP mentre, ora, è necessario chiudere il cerchio riguardo al collocamento normativo dei primi strumenti (in realtà già in parte definito).

È pur vero che l’abuso di Decreti presidenziali non farebbe altro che mortificare il rapporto di controllo tra legislativo e governativo; non foss’altro che forzare la fuoriuscita d’ambito, quanto a competenza, di atti vestiti di portata non normativa, ma sostanzialmente tali in radice, metterebbe in seria discussione la base della struttura democratico-costituzionale della Repubblica.

A questo punto, però, occorre ricordare a noi stessi che il Governo consolida una propria ragion d’essere legittimatoria nel rapporto di fiducia parlamentare, allo stato, immutato rispetto all’inizio del secondo esecutivo Conte.

Sicché il controllo politico parlamentare c’è tutto seppure, come si può facilmente constatare, a suon di colpi di “fiducia” e quindi quasi a luci spente.

Ma parlare di abuso dello strumento decretale da parte del Presidente del Consiglio è assai delicato e doloroso perché, togliendo per un attimo dal campo minato il retropensiero dei cavalieri di galoppo politico avventuriero, montare la piazza della competizione e dello schernimento è fin troppo facile.

Allora è bene cercare una chiave di lettura quanto più attendibile e comprensibile in termini di certezza del diritto: non va dimenticato, infatti, che è il diritto a servire l’Uomo e non il contrario.

Stiamo vivendo una fase storica dai tratti somatici indecifrabili, poco individuabili e scarsamente addomesticabili se non per auto-responsabilità che in altri termini si chiamerebbe, per gli amanti della scienza politica, in c.d. “autoconservazione”.

Occorre prudenza nelle affermazioni, specie quando si deve gestire qualcosa di molto labile in termini di discussione istituzionale (come sta accedendo con il COVID-19), perché ne va senz’altro della salute di tutti soprattutto da un punto di vista mentale.

Non è un caso che la distonia tra Governo centrale e Regioni stia emergendo tutta proprio ora, salvo qualche rara eccezione.

Una distonia che si può tradurre, sotto un’altra ottica, in colpi e contraccolpi dell’autonomia non bilanciata dall’ultima riforma costituzionale in materia: il famoso articolo 117 della Costituzione.

Qui va solo ricordato che in materia sanitaria (la più delicata in relazione sia all’articolo 32 Costituzione che a buona parte dei Principi Fondamentali della nostra Carta pilastro) si gioca il tutto per tutto certuna politica in perenne ricerca di affermazione o conservazione.

Buona critica giuridica ha fatto rilevare che il Governo, davanti alla diversità di regolamentazione sanitaria regionale, avrebbe potuto attivare le procedure sostitutive previste dall’articolo 120 della Costituzione.

La scelta del Governo Conte è risaputa: mix di Decreti legge e DPCM (anche se c’è ancora altro).

Segno che una certa presenza istituzionale per fronteggiare la crisi da coronavirus, a torto o ragione, non si può certo disconoscere.

Parallelamente si assiste ad attribuire tutta la colpa dell’andamento politico complessivo ad un Presidente del Consiglio, senza storia politica alle spalle, per il semplice fatto di essere partoriente dei suoi decreti (tra l’altro previsti dalla legge).

Si badi bene, però, ad una differenza sottile: la colpa politica sistemica è un conto (poiché la determinano elettori e partiti secondo, grossomodo, gli schemi di cui agli articoli 1 e 49 Costituzione) mentre la colpa in ordine a scelte governative è altra storia (poiché ricade, ovviamente, su chi ne sovrintende il consesso a ciò preposto in ossequio al già menzionato articolo 95 Costituzione).

Non si può, allo stesso tempo, sottacere che non c’è ad oggi molto equilibrio tra maggioranza e Governo.

Qualcuno maliziosamente potrebbe domandarsi perché mai, a questo punto, non giungere alle dimissioni consentendo al Presidente della Repubblica di individuare in seno al Parlamento una nuova maggioranza ovvero, pur con la stessa maggioranza, un nuovo esecutivo che sappia fronteggiare la crisi collegialmente invece di “delegare tutto” ad un Uomo che di certo “non può tutto”.

Quanto sta avvenendo in relazione ai DPCM, sicuramente, avrà dei deficit nel merito sul piano giuridico, ma in questo momento storico la legittimità di forma dei predetti decreti resta funzionale al doveroso “andare avanti” in termini di sistema.

Fintanto che ci sarà l’obbligazione politica che investe tutti si manterrà la democrazia.

Il punto di fondo che distingue la metodologia tra DPCM e PPPP sta proprio in questo: la scelta dell’obbligazione nei confronti dei cittadini.

Sfruttando le parole del celebre Norberto Bobbio, il quale magistralmente ci insegna tutt’oggi a cosa serva il potere nell’accezione della filosofia politica, si giunge alla conclusione del ragionamento con una domanda che premette da sé la riposta: “A chi devo ubbidire? E perché?”.

Il Decreto è presente, il Proclama è non altro che futurologia.

Si tratta di fare i conti con la realtà (finché ne avremo una da tutelare) cercando di evitare il più possibile di diventare vittima di noi stessi per un eccesso di credulità derivata dal tramutarsi della iniziale credibilità delle scelte fatte in sede elettorale.

Popper docet: egli direbbe che “La negazione del realismo porta alla megalomania.”

Oggi c’è una crisi devastante in atto. Perciò quando tutto finirà ci sarà tempo per andare a scovare dietrologie di potere o meno.

Per ora, se proprio dobbiamo ubbidire a qualcosa si tratta della Costituzione: la radice del verbo ubbidire deriva, d’altronde, da “ascoltare”. Non è quindi un verbo intendente allo sfruttamento del prossimo, ma di conformità alla regola.

Ubbidire, in ratio, non è da sudditi, ma da cittadini liberi che hanno scelto un Parlamento.

Comunque, legge elettorale permettendo, ne riparleremo più avanti.

Perché ubbidire quindi?

Perché ce lo chiede il nostro passato, senza con ciò dover rinunciare a vagliare, controllare, sindacare, criticare come si svolge il presente.

Però a questa funzione di sindacato abbiamo delegato tutti un “qualcuno” che siede tra gli scranni parlamentari di Camera e Senato; luoghi, quest’ultimi, nei quali, parafrasando, dovrebbe organizzarsi democraticamente la resistenza dei giorni nostri ove mai si ritenessero i DPCM fuori dagli schemi costituzionali o, comunque, al di là del confine di legalità.

E se ciò non avviene ognuno tragga le conclusioni.

Per ora non ci rimane che sperare nella responsabilità di ognuno per il bene di tutti: anche politicamente parlando.